Archivi del mese: febbraio 2022

L’apocalisse nutrita dal dolore di Henry Rollins

Pieno di insicurezze quanto di un’incrollabile fiducia nei propri demoni, Henry Garfield aka Rollins schizza fuori dall’esperienza Black Flag con la velocità di una pallina da flipper e grondando adrenalina e testosterone dai bicipiti palestrati e dal torso tatuato. Dopo un esordio da solista che dice già tutto il titolo, “Hot Animal Machine”, assembla la Band e sarà una delle più formidabili (non proprio gioiosa, ma tant’è) macchine da guerra a battere i palcoscenici americani ed europei negli anni ’90. Annichilente e nel contempo elettrizzante l’impatto, sia visivo che sonico, con un Iggy Pop culturista che rimbalza in scena come impazzito, per poi assumere pose scultoree, e dietro il gruppo che pompa un hard che dire massiccio è poco e però ha un drive quasi funk e nelle pieghe sorprendenti raffinatezze jazz. “Life Time”, “Do It” (in parte dal vivo e con una travolgente cover dell’antico canto di battaglia dei Pink Fairies che lo intitola), “Hard Volume” e “Turned On” (da uno spettacolo a Vienna) sono i montanti che preparano il terreno al gancio da KO di “The End Of Silence”: apocalisse nutrita dal dolore per la tragica fine di un intimo di Rollins, Joe Cole, assassinato sotto gli occhi del cantante.

Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019. A oggi sono trascorsi trent’anni esatti dalla pubblicazione di “The End Of Silence”.

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Mark Lanegan (25/11/1964-22/2/2022)

Ho scritto un’infinità di volte di Mark Lanegan, sin da quando era il cantante degli Screaming Trees. Appena meno volte di quelle che l’ho visto dal vivo: la prima, e non solo a ragione di ciò la più indimenticabile, fu proprio con gli Screaming Trees. Di rado morte fu tanto annunciata ma un po’ ci si era illusi, dopo che il nostro uomo lo scorso anno era riuscito a schivare i dardi di una sorte oltraggiosa (potrai mica morire di covid dopo essere stato alcolista, tossicodipendente e, sul fronte della pandemia, negazionista?), che una volta di più potesse risorgere. “Oppressa dal fardello dei mali del mondo, ma pronta a librarsi verso il cielo”: così ebbi a descrivere la sua voce. Era ventun anni fa, suonava già come un epitaffio.

Screaming Trees – Buzz Factory (SST, 1989)

Anno intensissimo il 1988 per gli Screaming Trees. Troppo, tant’è che vanno in crisi e il bassista Van Conner li lascia per alcuni mesi, sostituito da Donna Dresch. Con questo organico e con Vic Makauskas in regia in luogo di Steve Fisk, i ragazzi di Ellensburg registrano un album il cui master va perduto in un passaggio di proprietà dello studio. Sembra un segno del destino. Il cantante Mark Lanegan, il chitarrista Gary Lee Conner e il batterista Mark Pickerel si adeguano e, con Van Conner di nuovo in squadra e Jack Endino al mixer, si mettono a lavorare ex novo. Il risultato è uno dei dischi più intensi dei tardi ’80, ispiratissimo nel suo pasticcio ormai D.O.C. di psichedelia, punk e hard rock. Non avessero scritto che Where The Twain Shall Meet e Black Sun Morning, gli Screaming Trees meriterebbero comunque una citazione nella storia del rock.

Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.

Scraps At Midnight (Sub Pop/Beggars Banquet, 1998)

“Terzo album solistico del cantante degli Screaming Trees”, recita l’adesivo sulla bella copertina di “Scraps At Midnight”, quasi dando per scontato ciò che scontato al momento attuale non è, ossia che gli Alberi Urlanti abbiano un futuro o almeno un presente. Immensi questi washingtoniani (lo stato, non la città), fra i primi a tentare quel recupero in chiave moderna dell’hard che andrà sotto il nome di grunge e che loro già praticavano intorno alla metà dello scorso decennio. In anticipo sui tempi all’inizio, un po’ vetusti oggi, mai premiati quanto avrebbero meritato. In un universo parallelo forse i Nirvana sono loro.

Per darvi un’idea del clima che si respira in questo disco, vi invito a ripensare alla rilettura che di Where Did You Sleep Last Night, di Lead Belly, diedero i Nirvana in “Unplugged” (tenendo presente che è vicinissima a quella che quattro anni prima ne offrì Lanegan, spalleggiato dai Nirvana stessi, nella sua prima uscita in proprio): è dunque blues dolente, ai limiti del catacombale, ciò che si ascolta in “Scraps At Midnight” (ove per blues siete pregati di intendere più una condizione dello spirito che le canoniche dodici battute). Pensate a Johnny Cash, a Leonard Cohen, a Nick Cave, a Tom Waits (Bell Black Ocean), allo Springsteen più crepuscolare (Last One In The World). Soltanto nella conclusiva Because Of This il suono si fa più pieno, la ritmica relativamente sostenuta, le elettriche mordono. Non raggi di sole che squarciano un cielo plumbeo, bensì fulmini che annunciano il divampare del temporale.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.185, settembre 1998.

I’ll Take Care Of You (Sub Pop/Beggars Banquet, 1999)

È un album di altri tempi questo “I’ll Take Care Of You”, quarta uscita solistica del cantante degli Screaming Trees. Per umore, durata, scelta del repertorio: una parata di classici e/o dimenticate gemme country, soul e cantautoriali che riporta alla memoria per la rabbrividente intensità l’“Unplugged” dei Nirvana e per le atmosfere quel capolavoro dei Walkabouts, passato del tutto inosservato, chiamato “Satisfied Mind”. Anche quello disco per intero di cover e anche quello capace di esprimere l’essenza di chi lo ha realizzato meglio dei lavori autografi. Passati i giorni del sangue e delle lacrime con cui aveva in abbondanza irrorato i tre predecessori di questa meraviglia, Lanegan si scopre invecchiato e più sereno, o forse solo rassegnato a subire gli oltraggi della vita. Forse anche innamorato del suo ruolo di beautiful loser e, ora che ha rinunciato a essere Cobain, desideroso di studiare da Cohen. Per intanto caccia i fantasmi evocando quelli altrui, facendo Tim Hardin meglio di Tim Hardin in Shiloh Town e Fred Neil meglio di Fred Neil in Badi-Da e omaggiando la memoria di Jeffrey Lee Pierce con una Carry Home che lascia a bocca aperta. Stesso effetto che fa sentire un gruppo mediocre come i Leaving Trains, di cui riprende Creeping Coastline Of Lights, trasformato in uno indimenticabile come i Triffids. O Bobby Bland, Eddie Floyd e O. V. Wright riletti con tanta di quell’anima (in inglese si dice “soul”) che da uno della generazione del grunge non te lo saresti mai aspettato.

Roba di altri tempi, appunto. Inadatta a questi anni distratti, frenetici, superficiali. Se ne accorgeranno in pochi, ma per quei pochi vorrà dire molto.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.18, novembre 1999.

Field Songs (Sub Pop/Beggars Banquet, 2001)

È una numerosa e composita congrega quella che fiancheggia Mark Lanegan in quello che è già il suo quinto album in proprio. Gente celeberrima come Ben Shepherd, che fu nei Soundgarden, e Duff McKagan, che era nei Guns N’Roses prima che divenissero una farsa. Mentre altri nomi risulteranno familiari soltanto a chi frequenta assiduamente l’underground a stelle e strisce. Tipo – doveroso citarlo dacché nei dischi del nostro uomo è presenza importante e immancabile – Mike Johnson, che fece parte dei Dinosaur Jr. seconda fase e ha all’attivo di suo alcuni pregevoli lavori. Non c’è stavolta, nemmeno nella pur cospicua lista dei ringraziamenti, nessun Screaming Trees ed è un altro segno che la vicenda degli Alberi Urlanti è stata consegnata agli archivi del rock. Settore: non furono mai famosi quanto avrebbero meritato. Questione di tempi sbagliati. Quando sbucarono da Ellensburg – dodicimila abitanti nell’estremo Nordovest degli Stati Uniti, nel pieno del nulla culturale più nulla che sia dato immaginare – al giro di boa degli ’80, il loro mischiare punk, hard e psichedelia, chitarre energiche e liriche e melodie di serpentina seduzione non aveva che poco pubblico e nemmeno un nome. Troverà l’uno e l’altro al passaggio di decennio: grunge. Proprio nell’anno di “Nevermind”, il ’91, agli Screaming Trees veniva offerto un contratto major, per la Epic, dopo che avevano già pubblicato cinque album su SST almeno uno dei quali (l’ultimo, “Buzz Factory”, dell’89) merita la qualifica di capolavoro. Avevano dato. I dischi seguenti li vedranno difendere le posizioni per poi ripiegare salvando in “Dust” (1996) l’onore e poco più. Mentre Lanegan fin dal ’90 intraprendeva una carriera solistica da subito generosa di pagine memorabili. Dovesse passarvi fra le mani (facile individuarlo se siete fans di Van Morrison), catturatelo quell’esordio chiamato “The Winding Sheet”. Sarà pure il meno riuscito della serie ma non fosse che per la penultima di una dozzina di tracce (non che le altre siano malvagie) merita l’acquisto. È una superba lettura di Where Did You Sleep Last Night di Lead Belly che precede di tre anni quella che i Nirvana sceglieranno come suggello del loro “Unplugged”. Doppio inchino, siccome alla versione datane dal Nostro concorse, non accreditato, proprio Kurt Cobain. Sta già tutta in quel blues catacombale la poetica che Lanegan estrinsecherà nelle opere seguenti, asciugando ulteriormente l’elettricità che aveva caratterizzato anche i momenti più accorati degli Screaming Trees.

“Whiskey For The Holy Ghost”, “Scraps At Midnight”, “I’ll Take Care Of You” le tappe successive. Lontanissimo il grunge. Spiriti affini Leonard Cohen, Tom Waits, Nick Cave. Così avrebbe suonato la “Music For A New Society” di John Cale l’avesse ispirata Robert Johnson. Il più grande? Quello che a oggi era l’ultimo. Un po’ paradossalmente, essendo fatto tutto di cover, pure il più personale: sfilata folkie di oscuri classici cantautorali (Tim Hardin, Dave Van Ronk, Tim Rose, tanto per non far nomi) e misconosciuti gioielli black (Bobby Bland, Eddie Floyd, O.V. Wright) accomunati dalla forma della ballata e da una voce sublime. Profonda, calda, dolente. Oppressa dal fardello dei mali del mondo, ma pronta a librarsi verso il cielo.

Ha un unico torto, “Field Songs”, ed è quello di andare dietro a un’opera probabilmente insuperabile, ma è bello quanto basta, cioè un bel po’, a conquistare a Mark Lanegan il secondo “disco del mese” consecutivo su queste pagine. Se avete amato “I’ll Take Care Of You”, amerete anche questo. Se ancora non conoscete Lanegan, bene, potrebbe svelarsi epifanico. Medesima la grana del predecessore, la differenza sta tutta in un minutaggio appena più generoso (siamo poco sopra i quaranta minuti) e nel fatto che i dodici brani sono questa volta autografi. Magari qualcuno scritto con altri ma bisogna andare a leggere i crediti per scoprire ad esempio, commuovendosi, che la morbida e morbosa tristezza di Kimiko’s Dream House è un altro omaggio, dopo quella Carry Home stracciacuore che inaugurava l’album prima, al compianto Jeffrey Lee Pierce. Fra gli apici di un lavoro che ai futuri compilatori di antologie offrirà piacevoli imbarazzi. Per quanto mi riguarda non potrei mai fare a meno della batteria ticchettante e dell’organo liquido e denso di swing di Pill Hill Serenade, del piano luccicante e della chitarra flamencata di Don’t Forget Me, di una Resurrection Song che è pura psichedelia pur essendo fatta, per gran parte del suo incedere, di sola voce e acustica. O del levitare su un bordone di Hammond di Blues For D. O della lamentosa, mesmerica, acida ossessione di Fix. Ma in realtà non potrei rinunciare a nessuna di queste dodici canzoni. Schegge d’Anima Americana fuori dal tempo e dunque destinate a restare immuni ai suoi oltraggi.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 215, luglio/agosto 2001.

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Blues Funeral (4AD, 2012)

Se questo album fosse un singolo e i brani prescelti quelli giusti – ossia i primi in scaletta – già entro la prima metà di febbraio non avrei il minimo dubbio su quale sarebbe a fine 2012 il mio singolo dell’anno. Impossibile – credo – superare l’efficacia a livello contemporaneamente di impatto subitaneo e di capacità di imprimersi nella memoria dell’accoppiata The Gravedigger’s Song/Bleeding Muddy Water. E a decidere il lato A sarebbero esclusivamente le durate, a meno di non pensare di approntare un edit (a costo di sminuirne un po’ l’ipnotica incisività) dei 6’17” della seconda canzone: acida e solenne nenia appesa a una chitarra da brividi e tastiere ricercatamente fuori fuoco. Quanto alla prima è perfetta così, chitarre granitiche e una melodia sinuosa distese su una ritmica incalzante e – insomma – un prodigio di DNA mischiati fra Queens Of The Stone Age e Gun Club. Non che più avanti non ci siano, fra i dieci che completano il programma, altri pezzi che potrebbero funzionare benissimo su radio anche non necessariamente alternative. Due (guarda la combinazione…) in particolare e sono esattamente i due che meno e anzi mai ti saresti atteso dall’ex-cantante degli Screaming Trees. Se la Canzone del becchino pure agli Alberi Urlanti sarebbe potuta appartenere, da dove sbucano Ode To Sad Disco e Harborview Hospital? Sulla prima la dice lunga il titolo: batteria four-on-the-floor e sì, sono i Pet Shop Boys, per quanto alle prese con i Joy Division. La seconda sono gli U2 incrociati con i New Order. Ma tanto tanto tanto…

Per essere uno che formalmente non faceva un disco da leader da otto anni Mark Lanegan in questo lungo iato davvero non è rimasto con le mani in mano: tre gli album divisi con Isobel Campbell, cui bisogna aggiungere i due con i Soulsavers e la partecipazione al progetto Twilight Swingers, più qualche ospitata. Stakanovista magari no, ma slacker men che meno. Avendo frequentato ambiti musicali abbastanza diversi fra loro ci si poteva aspettare che, tornando ad agire da leader, si muovesse sui terreni consolidati da una discografia che prima di questa annovera, in poco più di due decenni, altre sei uscite maggiori. Be’, “Blues Funeral” non somiglia veramente a nessuno dei predecessori e ci sono altri episodi, oltre ai due dianzi menzionati, dei quali individueresti l’artefice giusto per via di quell’inconfondibile voce di ghiaia e catrame, temprata a whiskey e sigarette. Parlo ad esempio di Gray Goes Black e di Tiny Grain Of Truth, entrambe dal passo motoristico, così come St. Louis Elegy che lo bilancia però con suggestioni morriconiane, o dello stentoreo hard di Riot In My House, o ancora del tonitruante glam infiltrato di coretti Stones di Quiver Syndrome. Sicché quando il crepuscolare etno-blues zeppeliniano di Leviathan si affaccia al proscenio il fan di lunga data quasi tira un sospiro di sollievo: ecco infine di nuovo, a mezz’ora dal formidabile dittico d’apertura, qualcosa di familiare. Lanegan ha saputo osare e gliene va dato atto. Che “Blues Funeral” non colga sempre il bersaglio è peccato veniale di fronte a quello capitale della resa agli stereotipi.

Pubblicato per la prima volta su Venerato Maestro Oppure il 10 febbraio 2012.

Imitations (Vagrant, 2013)

Come se un cerchio si chiudesse… Non poteva certo immaginarselo Nick Cave quando nel 1986, stupendo tutti, dava alle stampe una collezione interamente di materiali altrui che stava inaugurando un canone. Da “Kicking Against The Pricks” in avanti di album di cover che, programmaticamente o meno, provano a svelare dell’interprete più di quanto non abbiano mai raccontato le sue opere autografe ne abbiamo ascoltati molti, forse anche troppi e forse giusto un paio parimenti ascrivibili alla categoria dei capolavori: nel ’93 “Satisfied Mind” dei Walkabouts, sei anni dopo “I’ll Take Care Of You” di Mark Lanegan. Passati quattordici ulteriori anni l’ex-voce degli Screaming Trees ci riprova e fra i dodici brani con cui si misura ce n’è uno – guarda un po’ – proprio di Nick Cave. Ammetterò che sul subito non l’ho riconosciuto e, trovandosi l’originale in “The Boatman’s Call”, che considero la cosa migliore prodotta dall’artista australiano nei ’90, scorrendo i crediti mi ha fatto strano. Poi ho riascoltato e ho capito. La Brompton Oratory di Cave è gotica e liturgica, di un’intensità quietamente bruciante. Quella di Lanegan, che pure non è che l’abbia stravolta, è crepuscolare e melò. Quasi non sembra la medesima canzone e dovrebbe essere un bene e invece no, giacché laddove una versione rivela tanto dell’autore l’altra dell’anima dell’interprete nulla fa trapelare. Ce lo certifica capace di arrangiamenti raffinati, ma non è che già non lo sapessimo. Nella distanza fra due messinscene nella prima delle quali ci si gioca la vita mentre nella seconda si gioca e basta si può cominciare a misurare il complessivo fallimento di “Imitations”. Titolo rivelatore e perciò infelice.

Più che a “Kicking Against The Pricks” in un paio di frangenti verso fondo corsa viene da pensare allo sciagurato “Après” di Iggy Pop: superkitsch il recitativo di Élégie funèbre, superorchestrata la superusurata Autumn Leaves. Ma non è che prima siano rose spinose e fiori del male, da sempre quelli che più ci interessano dovendoci fare un mazzo tanto. Se una tintinnante Mack The Knife si guadagna una stentata promozione in forza di una resa che si sgrana rugosa alla Johnny Cash, a una scarnificata You Only Live Twice lo stesso identico trucco non riesce. Se Deepest Shade evidenzia come nei Twilight Singers si possa rinvenire più degli American Music Club che non degli Afghan Whigs, Pretty Colors perde impietosamente il confronto con The Voice. Che ci può stare, laddove non si fa proprio una bella figura a farsi sotterrare – Solitaire, Lonely Street – da un Andy Williams qualunque. E allora? Nulla da salvare o possibilmente da applaudire? Tre-pezzi-tre, che fa un quarto appena del programma: giusto all’inizio, una Flatlands felpata e ipnotica che mi ha fatto ripromettere di riascoltarla Chelsea Wolfe e il delizioso valzer country (da Vern Gosdin) She’s Gone. Più avanti, una dolcissima I’m Not The Loving Kind che a chi la scrisse – John Cale – dovrebbe piacere. È qualcosa, non abbastanza. Lanegan ultimamente si è sovraesposto. Si può comprendere, sono i tempi a richiederlo, ma continuando a produrre a getto continuo materiali non all’altezza delle vertiginose medie d’antan andrà a finire che i suoi dischi cesseranno di essere un ascolto obbligato. Esito opposto rispetto a quello che si vorrebbe ottenere.

Pubblicato per la prima volta su Venerato Maestro Oppure il 24 ottobre 2013.

Una recensione dell’album in coppia con Duke Garwood “Black Pudding”, sempre del 2013, è recuperabile qui.

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Penelope Isles – Which Way To Happy (Bella Union)

Che al conservatorio si studi composizione pare logico. Che esistano analoghi corsi dedicati al jazz già dà adito a perplessità. Che si possa insegnare a scrivere canzoni ci sta, ma il Vostro affezionato non può non interrogarsi, con Verdone: in che senso? Smontando classici della popular music e spiegandone il funzionamento? Ottima cosa, interessante anche per il semplice musicofilo, ma come in letteratura non vi è scuola di scrittura creativa che possa fare emergere del talento in chi non ne ha non si corre così il rischio di tutto omologare? Ne verrà fuori, nella migliore ipotesi, gente che si esprime “alla maniera di”.

Premessa dovuta al fatto che nelle note biografiche di Lily Wolter, sorella minore di Jack con cui nel 2015 dava vita a Brighton ai Penelope Isles con una formazione che era la stessa che pubblicherà nel 2019 il debutto “Until The Tide Creeps In” ed è, tolti i Wolter, completamente cambiata per questo seguito, si dice per l’appunto che “ha studiato songwriting”. Ancora più che con il predecessore è forte il sospetto che non le abbia fatto bene. “Which Way To Happy” è gradevole ─ magari in piccole dosi e non potendo non notare come diversi dei suoi undici brani siano tirati troppo in lungo e risultino spesso inutilmente arzigogolati ─ ma l’impressione finale è quella che si tratti di una collezione di stereotipi dell’indie rock con aspirazioni pop degli ultimi decenni. Dal brano alla Cure rifatti da dei Dinosaur Jr che provano a sembrare i Flamig Lips al pezzone shoegaze, dalla canzone techno-wave a quella con le chitarre alla Smiths o le atmosfere alla Radiohead, a quella “c’è sempre stato un elemento dance nella nostra musica”, dal Britpop alla ballata romantica o un po’ psych. E così via.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.438, gennaio 2022.

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Audio Review n.439

È in edicola da inizio settimana il numero di febbraio di “Audio Review”. Ho recensito i nuovi album di Beach House, Bill Callahan & Bonnie ‘Prince’ Billy, Jerry Cantrell, Dodos, Garcia Peoples, Houeida Hedfi, Susanna Hoffs, Nell & The Flaming Lips, New Age Doom & Lee “Scratch” Perry, No Rome, OSS, Ovlov, Dan Sartain e Sloppy Jane e un cofanetto dei Redskins. Nella rubrica del vinile ho affrontato in lungo recenti ristampe dei Kings Of Convenience e ho scritto più in breve dei Flamin’ Groovies.

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Oltre il jazz – Il multiforme genio di Yusef Lateef

Curioso e attivo fino all’ultimo Yusef Lateef (identità assunta quando si convertiva all’Islam, ventenne): ci lasciava nel 2013 novantatreenne avendo pubblicato il primo disco da leader cinquantasei anni prima e fino al 2010 ancora frequentava gli studi di registrazione. Mai gli piacque venire sistemato alla voce “jazz” ma tant’è, del jazz è stato uno dei giganti, sia come compositore che in quanto polistrumentista. Sax tenore e flauto gli strumenti di cui era un indiscutibile maestro ma, per dire, in questo “The Blue Yusef Lateef”, uscito nel 1968 su Atlantic e fresco di ristampa su Speakers Corner, suona anche tamboura, koto e shannie (qualunque cosa sia; una ricerca su Google non mi ha illuminato al riguardo). E poi dove metterlo? Quello il filone principale cui si richiamava in un composito canone che lo vide trarre ispirazione, in anticipo su chiunque fra i musicisti afroamericani e non solo, da assortite tradizioni etniche come dalla classica, occidentale e non, pescando ovunque in giro per il globo decenni prima che qualcuno si inventasse l’etichetta “world music”. World o ethno-jazz, allora? Eh, la fate semplice voi…

Prendete ad esempio proprio questo album, uno dei più godibili in un catalogo sterminato che ne comprende molte decine. Su otto brani tre – Othelia, Six Miles Next Door e Sun Dog – sono dei blues in dodici battute. Ma proprio come ne avreste potuto sentire suonati in un club di Chicago in quel decennio o nel precedente. Il primo (l’armonica di Buddy Lucas sugli scudi) è decisamente indiavolato, il secondo più misurato, il terzo avvolgente, con delle parti di fiati che potrebbero arrivare da un disco coevo della Stax. Nondimeno: pure Get Over, Get Off And Get On è un blues, ma modale e influenzato (dice lo stesso artefice nelle dettagliatissime note di copertina) da Johann Sebastian Bach. E anche (propulso da un basso preso di peso da My Girl dei Temptations) Like It Is, però in sedici battute e con una melodia marcatamente orientaleggiante, laddove Juba Juba profuma di gospel e rielabora una “prison song”. Ascoltate Back Home. Parrebbe un samba con qualche influsso afrocubano, giusto? Lateef ci spiega che la sua forma deriva dal barocco! Quanto a Moon Cup, gira fra exotica e psichedelia. E allora? E allora un album meraviglioso, uno dei tanti regalatici da costui.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.421, luglio 2020.

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L’ultimo ruggito di Ozzy Osbourne

Allontanato dai Black Sabbath poco dopo l’uscita di “Never Say Die” (che è un po’ come se i Rolling Stones a un certo punto avessero licenziato Mick Jagger), Ozzy Osbourne si prende una clamorosa rivincita con i primi due LP da solista, “Blizzard Of Ozz” e “Diary Of A Madman” (1980 e 1981), che minimo pareggiano i conti artisticamente con i coevi “Heaven And Hell” e “Mob Rules” degli ex-compagni e per quanto attiene le vendite li surclassano, già subito e infinitamente di più sul lungo periodo e nel mercato che più conta, quello statunitense. Fatto è che se i Sabbath hanno rimediato un ottimo rimpiazzo con Ronnie James Dio il cantante ha trovato il partner perfetto nel giovane e tecnicamente prodigioso chitarrista americano Randy Rhoads. Quando costui sfortunatamente muore, appena venticinquenne, in un incidente aereo Ozzy ne è devastato e perde in ogni senso la bussola. Da lì a fine decennio pubblicherà altri tre album in studio, di gran successo ma scarsa sostanza. Per un colpo d’ala che è autentica rinascita bisogna attendere il 1991 e servirà probabilmente da stimolo che il vecchio leone (lo si percepisce come tale quando non ha che quarantadue anni; ma è da venti in circolazione) accolga come una sfida l’emergere di una generazione quanto mai variegata (include il metal da classifica più bieco come la scena grunge e quella del cosiddetto crossover) che se vede in lui un nume tutelare lo considera però maturo per il pensionamento. Quale oltraggio! “No More Tears” arriva nei negozi cinque settimane dopo il “Black Album” dei Metallica e venderà un quarto di quello ma è un quarto che vale, soltanto negli USA, quei quattro milioni di copie. Ultimo ruggito, con il senno del poi, ma che ruggito.

Riedito saggiamente come doppio quando la stampa originale in vinile era assai penalizzata da una durata (cinquantasette minuti) non consona al supporto (però allora perché non aggiungere le due valide bonus che integravano l’edizione in CD del 2002?), l’album brilla per ispirazione e varietà, sistemando ─ per dire ─ dopo l’incendiaria Mr. Tinkertrain una I Dont’Want To Change The World più da Kiss che da Black Sabbath, facendo andare dietro alla ballata country (!) Mama, I’m Coming Home una Desire che il co-autore Lemmy Kilmister (è uno dei quattro brani sotto i quali figura la sua firma) si sarebbe potuto tenere per i Motörhead. Laddove se la title track e Hellraiser evocano con diversi accenti i Queen Zombie Stomp si azzarda funk in apertura. Suggella Road To Nowhere: sistemare nel settore “guilty pleasures”, rubricare alla voce “power ballad”.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.436, novembre 2021.

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Blow Up n.285

Nel numero di febbraio di “Blow Up”, da ieri in edicola, un mio omaggio di sette pagine a Roberta Flack, una grandissima del soul (ma non solo del soul) che a giorni compirà ottantacinque anni e la cui grandezza ho scoperto con colpevole, pluridecennale ritardo. Ma meglio tardi che mai, no?

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