Archivi del mese: gennaio 2012

Nada Surf – The Stars Are Indifferent To Astronomy (Barsuk/City Slang)

Quel che si dice partire con il vento in poppa, sebbene dopo essere rimasti alla fonda più dell’usuale: ingaggiati dalla Elektra nel 1996 (si erano formati nel ’92) su consiglio di quel Re Mida del pop-rock di Ric Ocasek (ovvio che da quelle parti gli dessero ancora ascolto, dopo tutti i soldi fatti guadagnare loro con i Cars) e da lui guidati in studio, i newyorkesi Nada Surf vedevano un singolo tratto dall’album “High/Low” spopolare sulle radio e soprattutto, forte di un azzeccato video, su MTV. Il titolo era d’altronde beneaugurante: Popular. Prima ancora di potere sdegnare tale canzone come i Radiohead avanti post-rock sdegnavano Creep, si trovavano però in mezzo a una strada, avendo reagito male ai rimproveri di una casa discografica che non rintracciava brani al pari immediati nel programma del successivo “The Proximity Effect”. Sarebbe potuta essere la fine per loro, e d’altro canto la strada per l’inferno dell’anonimato è lastricata di isolati dischi d’oro e platino, ma non si arrendevano, testardi ed entusiasti, e dopo un lungo stop venivano premiati da un contratto EMI. Tuttavia esauritosi con un unico lavoro in studio e un “Live In Brussels” che è il loro disco da avere se se ne vuole avere uno: lì il bignamino perfetto di un catalogo e un suono con la freschezza del beat, l’energia del punk, i vezzi romantici che furono di tanta new wave e un’eccellente sensibilità pop. Incanalati da allora in un alveo indie per quanto di lusso viste le dimensioni della City Slang, Matthew Caws e sodali hanno seguitato a centellinare album di pregio, l’ultimo nel 2010 ed era il peculiare “If I Had Hi-Fi”, titolo genialmente palindromo e in scaletta una dozzina di cover sorprendenti: giacché dai Nada Surf te lo puoi anche aspettare che rileggano i Go-Betweens o Dwight Twilley, ma che si approprino dei Depeche Mode, di Kate Bush o dei Moody Blues proprio no. Ecco, se qualche dubbio si poteva nutrire a priori su “The Stars Are Indifferent To Astronomy” (altro titolo fantastico) veniva dal fatto che erano a questo punto quattro anni che i Nostri non pubblicavano una collezione di brani autografi. Chi poteva escludere che si fossero nel frattempo un po’ arrugginiti?

Bastano pochi secondi, l’attacco a passo di corsa e a cavallo di un riff stentoreo di Clear Eye Clouded Mind, a spazzar via ogni pronostico funesto. Da lì alla fine, una scarsa quarantina di minuti dopo, è un tripudio di melodie insidiose e ritornelli a presa rapida, chitarre scintillanti e ritmi dritti nella migliore tradizione del power pop. Waiting For Something è il pezzo che in un certo tipo di radio potrebbe riportare in auge i Newyorkesi (per quanto pure The Moon Is Calling…), le ballate Jules And Jim (da Teenage Fanclub al top) e Let The Fight Do The Fighting i due che si staccano dalla foga del resto. A “Pitchfork” il disco non è piaciuto. Dicono che non sono più i Nada Surf di una volta. Be’, nemmeno “Pitchfork” è più quello di una volta.

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Craig Finn – Clear Heart Full Eyes (Full Time Hobby)

Come una discussione notturna in un bar fra Bruce Springsteen, Jimmy Page e Raymond Carver, scriveva nel 2010 un critico americano, riferendosi nello specifico a quello che resta a oggi l’ultimo album degli Hold Steady, “Heaven Is Whenever”, ma nell’ambito di un discorso più generale su un catalogo che conta una mezza dozzina di articoli maggiori. Definizione fantastica, che ho invidiato e sottoscrivo. Per un altro recensore l’affidabilità del blue-collar rock del gruppo capitanato sin dai primi passi, datati 2000, da Craig Finn  (ancora prima in tutt’altre faccende affaccendato con gli art-punk Lifter Puller) si dimostrava pari a quella di una Chevy del 1969 il cui olio è stato appena cambiato da… esatto, Bruce Springsteen. Cercate tutti gli articoli che volete sulla compagine newyorkese e provate a scovarne uno, uno solo, che non citi almeno di passaggio il Boss. Non lo troverete. Questione non solo di grana della voce, talvolta simile in misura imbarazzante, o di altrettanto evidenti affinità musicali, ma soprattutto di storie raccontate e contesti nei quali le si colloca. Lo sappiamo tutti: c’è una zona oscura ai margini della città e proprio lì abitano i perdenti romantici e combattivi cantati da Finn. Che a Brooklyn nel 2000 arrivava da Minneapolis portando seco un altro altarino votivo: ai Replacements di Paul Westerberg. A chi se no? E, presumibilmente, una collezione di LP dei Thin Lizzy.

Scorro gli appunti presi ascoltando quello che per questo quarantenne occhialuto, che a guardarlo tutto diresti tranne che una rockstar, è il debutto da solista e no, “Springsteen” non l’ho scritto da nessuna parte e me ne rendo conto solo ora. Un paio di volte ho scarabocchiato “Dylan”. Commentando No Future, pop-rock su un substrato di folk dallo scintillante al vorticoso che fra le undici canzoni contenute nel disco è quella con le migliori possibilità di venire notata dalle radio. Vicino a Terrified Eyes, che insieme ha evocato l’immagine di un Jonathan Richman di nuovo plugged e con l’innocenza infine pensionata. Laddove in Rented Room ho rinvenuto più di qualcosa di un Van Morrison “into the mystic” ed è il brano che ho maggiormente apprezzato di un album tematicamente al cento per cento nel canone dell’autore ma musicalmente diverso da qualunque suo precedente lavoro. Si potrebbe dirlo, molto all’incirca, il suo disco country-rock (con un tocco di punk in una New Friend Jesus da Jason & The Scorchers) e non a caso non a New York l’ha registrato bensì a Austin. Bello, tolta la banalità di Honolulu Blues.

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Hospitality- Hospitality (Merge)

Autrice di tutti i testi, co-autrice delle musiche, chitarrista e frontwoman dei newyorkesi Hospitality, al debutto in lungo dopo un EP edito privatamente nel 2008, Amber Papini dichiara di avere imparato a cantare, da ragazzina, sui dischi degli Psychedelic Furs. Su uno in particolare, “Talk Talk Talk”. Non dico che all’ascolto di queste dieci canzoni fresche e briose lo si noti, ma che qualcosa di molto britannico le informi, be’, per certo sì. Non necessariamente di inglese però: ci senti dentro Belle & Sebastian, Camera Obscura e Pastels, tutti scozzesi, e gli Young Marble Giants, che erano gallesi. Più di Elvis Costello o Kate Bush, che pure sono influenze dichiarate mentre non lo è Siouxsie Sioux, quando la petulante, stridula The Birthday potrebbe benissimo essere una sua rivisitazione depurata d’ogni goticismo. I sentieri americani battuti da un trio completato dal bassista Brian Betancourt e dal batterista (nonché consorte di Amber) Nathan Michel portano invece alla Hoboken dei Feelies o, un po’ più distante, alla Athens pre-R.E.M., quella di B-52’s e Pylon. Per poi tornare a casa e, all’ombra della Big Apple, rendere visita e omaggio alla Suzanne Vega d’antan.

Se proprio a “Hospitality” si deve attaccare un’etichetta, “power pop” è quella che meglio funge alla bisogna. Si sarà colto: plasmato più da certa new wave con influenze Sixties che non dagli anni ’60 direttamente. Ciò premesso, gli elementi classici ci sono tutti, dalle chitarre scintillanti ai coretti ammiccanti, dalla batteria senza fronzoli, ma occasionalmente con un twist depistante, al basso che rotola melodioso. Sono canzoni sbarazzine ma di sostanza, divertite quanto ipnotiche per come si configgono nella memoria tornando a emergere quando meno te lo aspetti dal brusio di fondo della vita. Opera appropriatamente concisa (ti alzi dal desco con un che di appetito ancora: un paio di pezzi in più potevano starci), l’album si gioca le carte migliori – tre – all’esatto centro della prima metà del programma: una Friends Of Friends squadrata e ficcante cui vanno dietro il beat irresistibile di Betty Wang e la parentesi di folk-rock  incantato Julie.

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Blow Up n. 165

È in edicola il numero 165 di “Blow Up”. Ho contribuito con un lungo articolo retrospettivo (sei pagine) su Tav Falco.

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Ed Laurie – Cathedral (V2)

Attore prima che cantautore, londinese di nascita ma con l’essere vagabondo nel DNA (la famiglia della madre dispersa per due continenti), Ed Laurie prima di questo lavoro ha pubblicato un EP (“Meanwhile In The Park”, sette brani, venticinque minuti, disponibile solo in download dal 2008) e il debutto vero “Small Boat Big Sea”, che è datato 2009. Non ho ancora recuperato né l’uno né l’altro e di costui non avevo mai sentito parlare prima di imbattermi in quest’album nuovo. Per me è stato una bella scoperta ed è una scoperta che dovreste regalarvi, per cominciare, se la sera accendete candele a un altare di santi fra le cui icone spicca Leonard Cohen. In tal caso l’iniziale High Above Heartache vi farà sobbalzare, chiaramente figlia dell’immensa Tower Of Song ma senza a ragione di ciò scadere in plagio. Non è l’unico momento di prossimità al Canadese, aggiungendosene uno subito dopo con la serenatona con un violino infitto nel cuore di East Wind e un altro più avanti con una Moment Out Of Faith che ricorda ognimmodo anche tanto Dylan e, nel caso ancora non vi foste inginocchiati, pure Jeff Buckley. Presenza immanente anche in una Across The Border che sa nel contempo di Scott Walker alle prese con Jacques Brel, laddove When The Fire Dies Down evoca il sempiterno Nick Drake.

E… lo colgo solo io Tim Hardin nel folk-rock sotto un cielo di Spagna di Spirit Of The Stairway? Ma se – fatte le debite proporzioni giacché è di uno dei massimi capolavori della popular music che si sta parlando – lo si vuole accostare a un singolo disco la pietra di paragone per “Cathedral” è indubbiamente “Astral Weeks”. Con il classico di Van Morrison condivide un organico (affiancano Laurie musicisti quasi tutti italiani e bravissimi) e soprattutto un piglio debitori assai più al folk e al jazz che non al rock. Analoghe le modalità di registrazione (poche sedute, parecchio di improvvisato sul momento), distingue le due opere un passo diverso. Che qui è più piano, come meditativo.

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Kool And Together – Original Recordings 1970-77 (Heavy Light)

Provvede Brett Koshkin in un articolo che occupa sei pagine e mezza dell’ottimo libretto a narrare la piccola saga di questo gruppo a conduzione famigliare di Victoria, cittadina al centro del nulla più nulla che ci sia (a due ore di macchina da qualunque altro luogo abitato di una qualche rilevanza, ci informa Koshkin) nel Texas meridionale. Stupirsi se della pur discretamente lunga – ahem – carriera di padre e figli (ebbene sì) nessuna eco si propagava oltre Houston, Austin o San Antonio? Fintanto che non era finita da un pezzo e qualche dj, messe le mani su un 45 giri ustionante come da titolo, Sittin’ On A Red Hot Stove, non cominciava a farne salire le quotazioni (roba da centinaia di dollari oramai) aprendo nel contempo una caccia agli autori in stile “Chi l’ha visto?”. I risultati dell’indagine sono ora di pubblico dominio ed è un bell’ascoltare per chi di Hendrix, di Sly Stone, di James Brown, del primo Curtis Mayfield solista (il più rock) o dei Black Merda (per entrare in zona “culti”) non ne ha mai abbastanza. Troverà qui una dose generosa (diciannove brani, sessantaquattro minuti) per alimentare il suo vizietto. Roba buona, talvolta buonissima e oltre al brano summenzionato citerei almeno un’ultrapsichedelica If You Can, una languida Magic Words e una Get Your Feet Off The Ground che (fatte le debite proporzioni) sistema Sylvester Stewart alla testa dei Led Zeppelin.

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Cardinal – Hymns (Fire)

Da applausi a prescindere l’atteso e però inatteso – nel senso che pochi credevano potesse rinnovarsi il sodalizio fra Richard Davies ed Eric Matthews a diciotto anni dall’unico album che fruttò – ritorno dei Cardinal. Per come si intitolano il primo e l’ultimo dei dieci brani in programma. L’apertura si chiama Northern Soul, ma con il northern soul non c’entra nulla: trattasi di scintillante folk-pop sull’orlo del jingle-jangle. Ci si congeda con Radio Birdman e altro che assalto alla Stooges! Dopo qualche battuta di chitarra acustica in dialogo con una tromba, decolla sì, elettrica, ma più che a Rob Younger e soci è a Lee Hazlewood che vien da pensare. Avrete intuito: nel disco di inni non ve n’è l’ombra, né nell’accezione chiesastica né in quella rock’n’roll del termine. Ancora felici di spiazzare dopo tutti questi anni, gli attempati ragazzi. Stiamo del resto parlando di due che affidarono la regia di un lavoro in ginocchio dal minuto uno e fino in fondo dinnanzi all’altare di San Burt Bacharach a quell’arbiter elegantiarum di Thee Slayer Hippy, già batterista dei Poison Idea. Ve li ricordate? Quei ciccioni punk capaci di battezzare un loro 12” “Record Collectors Are Pretentious Assholes”. Uscito su etichetta Fatal Erection. Bonjour finesse.

Riscosse molti consensi all’epoca, “Cardinal”, ed erano figli oltre che dell’eccezionale qualità delle canzoni del loro collocarsi agli antipodi dei suoni che imperavano: nell’era del trionfo di grunge e crossover rifarsi ai Beach Boys di “Pet Sounds” non era alla moda come oggi, figurarsi idolatrare i Left Banke e non nascondere una certa ammirazione per i Prefab Sprout. Era igiene aurale, era dare tregua alle orecchie fra una deflagrazione di decibel e l’altra e fu pure per il loro fare quasi categoria a sé che i Cardinal piacquero tanto, sebbene sostanzialmente fra una congrega di happy few. Però le consuete “differenze artistiche” allontanavano Davies e Matthews (il primo già con i Moles, entrambi con carriere solistiche non troppo fitte di uscite ma di rimarchevole qualità media). Però il disco andava fuori catalogo e fino a una ristampa del 2005 si ritrovava nel limbo dei dimenticati, dei culti fra i culti. Riaffacciandosi alla ribalta, i Cardinal si scoprono assai più in sintonia con lo zeitgeist, anche se un filo meno ispirati della volta prima. Averne in ogni caso di sinfoniette di pop-barock della torpida lucentezza di Carbolic Smoke Ball. Quasi dimenticavo: stroncato dal “New Musical Express”, “Hymns”, ed è sempre una bella medaglia al valore.

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Il funk troglodita di Jimmy Castor

È stata una settimana terribile per la musica soul. Ieri ci ha lasciati Etta James. Però aveva una certa età, si sapeva da tempo che era gravemente malata ed è fantastico che si sia congedata con il suo album più bello e di maggior successo (“The Dreamer”) da diversi decenni in qua. Martedì se n’era andato Johnny Otis, il bianco più nero che sia mai esistito. Però aveva la bellezza di novant’anni, ha avuto una vita stupenda e attiva fin quasi all’ultimo e insomma non è il caso di indossare gli abiti del lutto quanto piuttosto di levare al cielo un ideale calice e celebrarne il genio, in particolare di talent scout e pure Etta James l’aveva scoperta lui. A me è dispiaciuto soprattutto che lunedì sia scomparso Jimmy Castor, che qualche anno in più poteva durare (ne aveva settantuno, sessantotto oppure sessantaquattro a seconda della fonte cui si decide di prestar fede) e della cui dipartita non si sono accorti in molti. Peccato, ma peccato davvero. Perché Castor, che ha traversato la storia della black music dall’era del doo wop a quella della disco raccogliendo per strada un discreto numero di hit, è stato un grande. In particolare nel suo periodo più funk, la prima metà dei ’70, quando regalò al mondo una serie di canzoni spettacolarmente sudate, salaci e spassose. Ecco, a me piace ricordarlo così…

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The Little Willies – For The Good Times (Milking Bull/Parlophone)

Nonostante mi occupi di musica professionalmente sin dai primi ’80 in tutti questi anni ho frequentato pochissimo le case discografiche. Un po’ per questioni di mera logistica, visto che non abito né a Roma né a Milano e a Roma o a Milano capito di rado, e un po’ per un’incompatibilità che – con un pizzico di civetteria oppure di presunzione, fate voi – mi piace pensare reciproca. I discografici non hanno, in linea di massima, nessun rispetto per chi fa il mio mestiere, né la voglia o la capacità di provare a distinguere chi lo esercita degnamente e chi no, e io non ho nessun rispetto per la maggioranza delle persone che lavorano per le case discografiche e in particolare per quelle cosiddette major. Quale la differenza? Che io sono capace a distinguere quei pochissimi lì in mezzo (e costoro il mio rispetto ce l’hanno eccome) che di musica ne sanno, che la musica la amano. Categoria di cui non faceva certo parte, ad esempio, il tizio che un sacco di anni fa negli uffici capitolini di non mi ricordo quale multinazionale mi allungò con aria complice (“Ti do un’anteprima!”) una TDK D46 con copertina fotocopiata di un album che avevo recensito quattro mesi prima. Essendomelo comprato. D’importazione. Siccome i tempi cambiano ma plus ça change plus c’est la même chose, in era di Internet e di Amazon qualcuno incredibilmente riesce tuttora a pianificare date di uscita diverse per un titolo a seconda dei mercati. Come se esistessero i mercati e non un mercato. Lo stesso qualcuno per concederti il… privilegio di ascoltare quel disco e poi in qualche misura pubblicizzarglielo ti chiede di firmare papiri legali grotteschi e offensivi nel loro presupporre che se no tu ti affretterai a fare di quei preziosissimi file audio un uso illegale. Vabbé… Comunque il nuovo lavoro dei Little Willies negli USA è uscito il 6 gennaio, in Italia verrà pubblicato il 31. Non dovrei ancora parlarvene, lo so, ma come resistere alla possibilità di fare il figo offrendovi una… ehm… anteprima?

Confesserò di avere un debole per Norah Jones. Per tante ragioni. Per il suo essere stata, all’inizio di carriera, quel fenomeno raro che è un’artista che esplode senza che l’industria l’abbia previsto, né abbia fatto alcunché per favorirla, e andando controcorrente rispetto alle mode. Per avere portato per prima in cima alla classifica principale di “Billboard” (non a quella del jazz) un album griffato Blue Note e da allora (era il 2002) “Come Away With Me” ha venduto quegli altri dieci milioni di copie nei soli Stati Uniti. Per l’eleganza di un sound a suo modo peculiare per come miscela jazz e country, la tradizione della torch song e quella della canzone d’autore, un pizzico di rock e un profumo di blues. Norah ha qualcosa più del semplice buon gusto, che già sarebbe tantissimo: ha stile. E in ogni suo respiro cogli l’intensità della passione che riversa in quello che fa. Ha firmato, a oggi, capolavori veri? Direi di no. Però non ha mai nemmeno deluso e mi stupirebbe tantissimo se mai lo facesse.

Evidenzia classe cristallina persino in quello che continua a restare un ludico dopolavoro – lei e quattro amici newyorkesi che si ritrovano per cantare e suonare country canonico giusto per il piacere di farlo – anche dopo decine di concerti e un debutto (omonimo) che nel 2006 qualche centinaio di migliaia di copie lo totalizzava. Il successore di “The Little Willies” non solo è ritagliato dalla medesima stoffa ma addirittura prende il titolo dal classico di Kris Kristofferson che l’edizione in vinile dell’esordio aggiungeva come bonus a 45 giri. Sono ballate languide (Remember Me) e siparietti birichini (If You’ve Got The Money I’ve Got The Time), fra uno scodinzolare di country’n’roll (Fist City), uno scorcio da Tom Waits prima maniera e dunque romanticissimo (Permanently Lonely, che però è di Willie Nelson) e l’ennesimo omaggio a Johnny Cash (Wide Open Road). Loro in tutta evidenza si sono divertiti molto a registrarlo, io ad ascoltarlo.

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Matt Elliott – The Broken Man (Ici d’ailleurs)

Il primo grande album del 2012 è del 2011. In questo senso: che fin dallo scorso novembre Matt Elliott poneva in vendita sul proprio sito questa sua fatica, ma solo in mp3 e giusto questo 16 di gennaio “The Broken Man” è stato pubblicato in CD e vinile. E dunque? Problema alla cui soluzione si dovranno applicare non solamente gli enciclopedisti (“Wikipedia” ha risolto: 2012) ma pure chi in dicembre si cimenterà nel gioco delle playlist. Perché sì, con queste sette canzoni di durate assai variabili (dai due minuti ai tredici) il consiglio è di farci i conti e che peccato che lo seguiranno in pochi. Probabilmente, non tanti più di quei cultori di stretta osservanza che di questo gioiello di disco fanno tesoro già da qualche mese.

Elliott è ormai in circolazione da tre buoni lustri e fu soltanto all’inizio di quella che definire “carriera” sarebbe esagerato che godette di una qualche esposizione mediatica. Erano i tempi di una Bristol che ai torpori del trip-hop opponeva gli stridori del post-rock più ispido, quello che non solo non rinunciava alle chitarre elettriche ma amava affondarle in spirali di feedback. Di quella scena mai andata oltre le pagine specializzate, ove l’altra diveniva mainstream, il Nostro fu l’uomo ovunque: nei primi Flying Saucer Attack, con Movietone e Amp, produttore degli Hood. Soprattutto, motore e da un dato punto unico attore del progetto Third Eye Foundation. Che mentre da gruppo divenivano pseudonimo intrigantemente cominciavano a trafficare con l’elettronica avvicinandosi molto, fra uno slargo ambient e una puntata nel drum’n’bass più astratto, proprio alle atmosfere e alle scansioni della Bristol più celebre. Temperati però da goticismi di evidente derivazione 4AD, sicché non parve deviazione così brusca dai percorsi d’antan che nel momento in cui recuperava la sua identità anagrafica Matt Elliott si desse a una sorta di cupo folk. Accostabile in prima istanza a Dead Can Dance e/o Cocteau Twins e via via con le radici sempre più affondate in un nero humus cantautoriale. Adesso più che mai hanno senso gli accostamenti a Nick Cave, a Scott Walker, al Michael Gira versione Angels Of Light, ma soprattutto a Cohen: per quanto un Leonard così spagnoleggiante (tira fra questi solchi aria meno pesante che nella trilogia delle “Drinking Songs”/Failing Songs”/”Howling Songs”) non lo si sia udito mai. Magari prodotto da Yann Tiersen e – ma guarda! – proprio costui ha curato il missaggio di “The Broken Man”.

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