Archivi del mese: aprile 2020

Willie Hutch, al top

“A whole lot of a woman”: così qualcuno definisce a un certo punto del film, datato 1974, la Foxy Brown del titolo. “A whole lot of a songwriter” potrebbe essere un degno epitaffio per Willie Hutch, venuto prematuramente a mancare (non aveva che sessant’anni) nel 2005: uomo dietro il successo dei 5th Dimension nei tardi ’60, titolare sul finire di quel decennio di due LP per la RCA (l’esordio “Soul Power” da consigliare ai cultori di Otis Redding) poco prima di buttare giù al volo il testo per uno dei più grandi successi dei Jackson 5 (I’ll Be There) e altrettanto al volo venire messo sotto contratto da Berry Gordy. Accasatosi alla Motown oltre a diventarne uno degli autori (fra quanti usufruivano dei suoi servigi Michael Jackson, Smokey Robinson e Marvin Gaye) pubblicava diversi altri 33 giri, di valore e successo altalenanti. Due articoli si elevano in ogni caso sui restanti di due spanne: “The Mack”, del 1973, e questo “Foxy Brown”. Entrambi colonne sonore di pellicole del filone blaxploitation e sia l’uno che l’altro infinitamente superiori a film in cui risultavano mattatori più che sfondo. Come i due capolavori del filone musicale associato a quello cinematografico, “Shaft” di Isaac Hayes e “Superfly” di Curtis Mayfield, sono dischi che vivono di vita propria a tal punto che considerarli semplici colonne sonore risulta improprio. E per valore cedono le armi di poco ai classici appena citati.

Preda ambitissima di dj e produttori hip hop per un’assenza dal mercato ultraventennale in qualunque forma, addirittura riedito legalmente in vinile per la prima volta giusto nel 2018, inopinatamente “Foxy Brown” gode subito di una nuova ristampa su Motown/Universal. Più che altro ne godrà un ascoltatore catapultato in piena azione dall’iniziale, travolgente Chase e per la restante trentina di minuti diversamente sollecitato e solleticato da funk ebbri di wah wah e orchestrazioni lascive, non di rado nello stesso brano. Fino a una conclusiva Whatever You Do (Do It Good) che avrebbe potuto scriverla James Brown, titolo incluso.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.410, giugno 2019.

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Brigitte Fontaine – Terre neuve (Verycords)

Uno dei dischi più urticanti che ascolterete (io ve lo consiglio) nel 2020 è stato appena pubblicato da una cantante che a giugno compirà ottantun anni e nondimeno è ancora – sublimemente – “folle”, come dichiarava nel 1968 nel titolo del suo secondo album. “Terre neuve” è il diciannovesimo e se era dal 2013 che lo si attendeva è perché ultimamente la salute non ha granché assistito un’artista che dire eclettica è poco – è anche attrice, autrice radiofonica e teatrale, poetessa e romanziera. Il che non le ha impedito nel frattempo di dare alle stampe cinque assortiti volumi ed essere protagonista di un documentario che ne narra l’incredibile vita. Avendo accennato a che altro ha fatto, musica a parte, mi limito qui a riassumere ulteriormente dicendo che in musica è una che ha mischiato di tutto, dandosi alternativamente o contemporaneamente al pop come al rock più spigoloso, da un jazz nell’ampio arco fra il cantabile e il free a esperimenti con la world, dal folk all’elettronica, dalla spoken poetry alla classica contemporanea. Fenomeno tutto transalpino fintanto che nel 2001 dei ferventi ammiratori, certi Sonic Youth, non le facevano passare i confini collaborando al formidabile (fra gli ospiti pure tal Archie Shepp) “Kékéland”.

Disco easy se raffrontato a questo, che dopo i due minuti di faticoso recitativo su organo liturgico di Le tout pour le tout letteralmente deflagra con una Les beaux animaux dalle parti dei Velvet Underground di Sister Ray e una J’irai pas furiosamente Suicide. Titolo successivo: Je vous déteste. Più avanti, brani sul limitare dell’industrial, una Vendetta risolutamente da Gioventù Sonica, della psichedelia psicotica e solo a fondo corsa, in Parlons d’autre chose, un che di elegiaco, della crepuscolare dolcezza. Non. Ci. Si. Crede.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.418, marzo 2020.

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Come sfidare l’industria e diventare adulti restando se stessi – I Beastie Boys di “Paul’s Boutique”

Discogs certifica l’esistenza di una ventina di edizioni in vinile dell’album con cui nel 1989 i Beastie Boys davano un seguito al vendutissimo e scandaloso debutto su LP di tre anni prima. Di tutte queste stampe una e una soltanto (a prezzi dai cento euro per esemplari VG al quadruplo per una copia sigillata) è il sogno bagnato di ogni collezionista: quella la cui copertina – udite! udite! – si apre formando un pannello di otto elementi. Voto 110 a chi in Capitol ha deciso di ristampare sul più classico dei supporti il (capo)lavoro con cui la posse bianca più influente negli annali dell’hip hop provava in un colpo (riuscendoci) a diventare adulta e a suicidarsi commercialmente. Sarebbe stato con lode si fosse azzardata una confezione se non a otto pannelli a quattro e non semplicemente “gatefold”. Ci sarebbe scappato il bacio accademico se, come fece nel ’98 la Grand Royal, un programma che totalizza cinquantatré minuti fosse stato diviso su quattro facciate e non due, con ovvio incremento di una dinamica comunque accettabile. Anche grazie all’inappuntabile rimasterizzazione effettuata dai Beastie Boys stessi (i due superstiti, essendo Adam “MCA” Yauch venuto a mancare nel 2012) e Chris Athens e per 22 euro ci si può gioiosamente accontentare.

Spartiacque nella vicenda del trio, “Paul’s Boutique”. Avendo sdoganato il rap presso la platea rock più giovane con l’attitudine sguaiatamente punk e i riff hard di “Licensed To Ill” (decuplo platino negli USA!) riuscendo miracolosamente nel contempo a guadagnare il rispetto dell’originale scena nera, i nostri eroi  procedevano allegramente a violare qualunque obbligo l’industria discografica imponga alle sue stelle – un suono il più possibile riconoscibile e simile a se stesso, nessuno scarto eccessivo fra un disco e l’altro, qualche canzone trainante in ogni album – in una collezione senza pause di hip hop duro e puro, senza quasi traccia delle chitarre di “Licensed To Ill” e un unico brano (Hey Ladies) spendibile sulle radio. Non bastasse: copertina priva di titoli, a rimarcare la volontà che l’opera venisse fruita come assieme, ove l’esordio era alla lunga sembrato una raccolta di 45. Ed è questa la maniera giusta di accostarsi al disco in ogni senso più “nero” dei Beastie Boys. Alla sua uscita da molti vennero dati per finiti. Cominciava invece un’altra storia.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.407, marzo 2019.

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The Dining Rooms – Art Is A Cat (Schema)

C’è una prima volta in questa che per i milanesi Dining Rooms è l’ottava che pubblicano un album, o tredicesima contandone (si dovrebbe: lì alcune delle loro cose più pregiate) altri cinque di remix e rework: squisitamente interpretata dall’ospite Lola Kola del collettivo romano Tropicantesimo, Nella sua loca realtà è la loro prima canzone in italiano. E che canzone! Come una Mina in versione downtempo e in tal caso avrebbe legittimamente potuto collocarsi fra “Le migliori”. Così come facilmente potrebbe trovar posto in una programmazione radiofonica classico-popolare di qualità e d’altra parte i La Crus non passarono anche dalle parti del Festival di Sanremo? Sebbene per un’una tantum post-scioglimento datata 2011. Loro non ci sono più ma, archiviato il sodalizio con Mauro Ermanno Giovanardi, Cesare Malfatti non ha per fortuna similmente dismesso l’altra sua partnership, quella con Stefano Ghittoni, ex- di quei Peter Sellers & The Hollywood Party piccolo culto della scena neo-psichedelica nostrana.

È dal 1997 che i due collaborano nel progetto Dining Rooms mischiando trip-hop e funk, folktronica, soul, jazz, scampoli di krautrock versione kosmische così come di possibili colonne sonore fra Bel Paese e blaxploitation. Non ricordo mezzo passo falso in un catalogo da subito a un ideale incrocio fra la Bristol di Massive Attack e Portishead e la Vienna di Kruder & Dorfmeister ma con la grande differenza rispetto ai tanti, troppi epigoni che mai i Nostri hanno prodotto musica da tappezzeria, mai sono scaduti nello stereotipo. Suonano tuttora freschi, eleganti ma con senso del groove oltre che dell’atmosfera. Come scrisse qualcuno degli Heliocentrics, sono come la sezione ristampe del negozio di dischi più cool nel quale possiate imbattervi, ma in carne e ossa.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 418, marzo 2020.

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Audio Review n.419

E anche questo mese, nonostante tutto, “Audio Review” ha raggiunto le edicole (che dove abito io sono aperte senza eccezione alcuna e così spero sia anche dalle vostre parti). Ho contribuito a questo numero recensendo gli ultimi album di A Girl Called Eddy, Arbouretum, Body Count, Lowell Brams & Sufjan Stevens, Caribou, CocoRosie, Julian Cope, Four Tet, Ezra Furman, Grimes, Luke Haines & Peter Buck, Lanterns On The Lake, Morrissey, Porridge Radio, Swamp Dogg, Thundercat e U.S. Girls. Nella rubrica dedicata al vinile ho scritto in lungo di Carly Simon e più in breve di Ry Cooder.

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David Byrne, subito dopo i Talking Heads

Nato in Scozia da genitori irlandesi, cresciuto in Canada per poi trasferirsi – ancora bambino – nel Maryland e da ormai trentacinque anni newyorkese di adozione benché tuttora abbia passaporto britannico: un po’ ce l’aveva nel destino David Byrne di essere cittadino del mondo, mentre doveva essere iscritta nel DNA la curiosità per musiche non appiattite sul gusto corrente. Tant’è che, liceale appena dopo il giro di boa dei ’60, non dava vita al complessino garage canonico per il tempo, con l’usuale catalogo di cover di blues elettrico o della British Invasion, bensì a un duo con in repertorio Frank Sinatra così come Rodgers & Hart o cose disneyane, decenni prima che ci pensasse Hal Willner. E per certo in quel movimento pure parecchio variegato che fu la new wave i suoi Talking Heads furono fra i più propensi a infiltrare nel rock musiche “altre”: il soul e il funk già nel secondo LP, “More Songs About Buildings And Food” (1978), e quindi assortite suggestioni di Africa e Asia nei monumentali “Fear Of Music” e “Remain In Light” (’79 e ’80). E che dire di “My Life In The Bush Of Ghosts”? Disco dell’81 (ma le registrazioni avevano in realtà preceduto quelle di “Remain In Light”) realizzato dal Nostro congiuntamente con Brian Eno e a tal punto in anticipo sui tempi da parere all’epoca un oggetto alieno: fenomenale intreccio di ritmi tenuti assieme da melodie etniche provenienti da ogni dove nonché ponte, con le sue manipolazioni di nastri, fra Cage e Stockhausen da un lato e l’hip hop allora in divenire dall’altro.

Quando nel 1989 Byrne mette mano a “Rei Momo” i Talking Heads di fatto non esistono più, benché a saperlo sia forse solo lui, ignari i sodali che l’anno prima gli hanno dato man forte in “Naked”, ottimo congedo pregno nuovamente d’Africa dopo che “Little Creatures” e “True Stories” erano sembrati disegnare per il gruppo orizzonti relativamente convenzionali in uno scenario di pop-rock a stelle e strisce. Non fa per il nostro uomo, avrete inteso, riposare sugli allori. In proprio ha già pubblicato, oltre a “My Life In The Bush Of Ghosts” e dopo una raccolta di musiche sempre datata ’81 per un balletto di Twila Tharp (“The Catherine Wheel”), tre colonne sonore: una per il teatro (“Music For ‘The Knee Plays’”, 1985) e quindi due per il cinema (“Sounds From True Stories” nell’86 e l’anno dopo “The Last Emperor”, in collaborazione con Ryuichi Sakamoto e Cong Su).  Ma vista la natura di progetti su commissione degli album summenzionati è quasi come fosse un esordio, “Rei Momo”, e a debuttare sono anzi contemporaneamente il David Byrne solista e l’etichetta, la Luaka Bop, che ha appena fondato con il benestare di Sire e Warner. Il disegno si farà più chiaro quando il marchio comincerà a griffare storiche antologie di musica latina (le collane “Brazil Classics” e “Cuban Classics”) per poi allargare lo sguardo al mondo intero (ed ecco gli “Asia Classics”) e infine offrire un tetto discografico a Susana Baca come a Jim White, a Tom Zé come alle Zap Mama e ristampare Shuggie Otis e gli Os Mutantes. Fosse uscito in mezzo a tutto ciò, l’album sarebbe stato probabilmente meno equivocato, l’accoglienza più benevola. Con il senno del poi…

Con il senno del poi “Rei Momo” (che in Brasile è il re del Carnevale) non sembra affatto – o lo pare assai meno – l’esercitazione stilistica che molti bollarono come intellettualoide, frigida, magari anche (fatta salva la buona fede dell’artefice) di impronta colonialista nel suo espropriare tradizioni altrui rispetto a quella dell’autore. È una collezione di canzoni in cui l’ex-Talking Heads si misura (specificandolo fra parentesi dopo il titolo di ogni brano!) con cumbia e merengue, cha cha cha e samba, charanga e bolero, saltabeccando fra Caraibi, Brasile e Africa. Non sempre la proverbiale ciambella riesce col buco e nondimeno la scrittura è mediamente fresca, il divertimento dei musicisti coinvolti – qualcuno anche in fase compositiva: Johnny Pacheco cofirma tre canzoni, Willie Colón e Arto Lindsay una a testa – lampante. È un raro caso di disco che più passano gli anni e meno rughe mostra.

Pubblicato per la prima volta su “Mondomix”, n.9, autunno 2010.

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The Men – Mercy (Sacred Bones)

Per un attimo i newyorkesi The Men mi hanno fatto tornare giovane. Un attimo piuttosto lungo a dire il vero, visto che Wading In Dirty Water, la seconda delle sette tracce che sfilano in questo loro ottavo album, dura la bellezza di dieci minuti e mezzo: partenza sommessa e poi un crescendo di organo dal suono denso e chitarre circolari che deflagra facendosi epica cavalcata, con un’elettrica che prima riffeggia dura e poi si scioglie lisergica. Un brano eccezionale, che varrebbe da solo l’acquisto del disco e mi ha richiamato alla memoria due band (entrambe australiane) che illuminarono i miei anni ’80, ossia i Triffids e – soprattutto – i Died Pretty, e il lettore che sa di chi sto parlando a questo punto si affretterà a prender nota. Comunque anche il resto di “Mercy” non è niente male, eh? Distante ben più di, rispettivamente, dieci e nove anni da quei due primi album, “Immmaculada” e “Leave Home”, con i quali il quartetto di Brooklyn fece in ogni senso rumore, attirando l’attenzione con un sound fragoroso e abrasivo, fra hardcore e noise. Nondimeno già con il successivo, del 2012, “Open Your Heart” la band allargava gli orizzonti, incorporando nel proprio sound influenze surf e country, puntando più sulla scrittura che su una mera forza d’urto che restava in ogni caso rimarchevole. Shoegaze, krautrock, psichedelia venivano inglobati da lì e più avanti persino Tom Petty e Bruce Springsteen entreranno a far parte del quadro.

Qui al summenzionato capolavoro va dietro – pensate! – un brano, Fallin’ Thru, per pianoforte e voce alla Leonard Cohen/Nick Cave. Altrove i ragazzi countreggiano (Cool Water, Call The Dr.), flirtano con certo post-punk (Children All Over The World), rialzano al massimo i volumi (la travolgente Breeze). Notevoli.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.417, febbraio 2020.

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John Prine (10/10/1946-7/4/2020) in due album, il primo e l’ultimo

You’ve been enjoying a pretty amazing run over the past few years. Your last album became your highest charting LP and got several Grammy nominations. You’ve been playing to big crowds…

“Seems I can’t do any wrong these days. About five years ago, I was thinking about, not retiring, but just kicking back and doing fewer shows. But ever since I brought out ‘The Tree Of Forgiveness’ we’re doing everything we can just to keep up with it. It’s still selling after 18 months, I’m getting a lot of young kids coming to the shows, and in turn they’re going back and listening to my old stuff.”

(Dall’ultima intervista concessa da John Prine, pubblicata da “Mojo” sul numero di marzo 2020.)

John Prine (Atlantic, 1971)

Per essere uno che dei diciotto lavori in studio pubblicati dopo questo è riuscito a piazzarne solo uno nei Top 100 di “Billboard” (“Common Sense” nel 1975; peraltro uno dei meno apprezzati dai suoi estimatori), se ne è tolte di soddisfazioni John Prine. Di morali soprattutto in un secolo nuovo che, oltre all’introduzione nel 2003 nella “Nashville Songwriters Hall Of Fame”, lo ha visto collezionare due Grammy e quattro vittorie agli “Americana Music Honors & Awards”. Di monetarie sin dai lontani anni ’70 che inaugurava con questo meraviglioso debutto, ignorato appunto dalle classifiche ma in compenso apprezzatissimo da colleghi in cerca di brani da far loro (d’altro canto: alla Atlantic era approdato su raccomandazione di Kris Kristofferson). Se lui di hit in prima persona non ne ha mai avute, a elencare chi lo ha coverizzato non basterebbero un paio di colonne di questo volume e basti allora citare un paio di nomi ovvi (Johnny Cash e Bonnie Raitt) e un paio molto meno (Bette Midler e Paul Westerberg). “John Prine” contiene alcune delle sue composizioni classiche e fra esse due fra le più memorabili di tutte: l’agrodolcissima Donald And Lydia e la sconvolgente Sam Stone, ritratto visto con gli occhi del figlio di un reduce dal Vietnam precipitato negli abissi della tossicodipendenza.

Pubblicato per la prima volta su Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.

The Tree Of Forgiveness (Oh Boy, 2018)

Sulla copertina del suo diciannovesimo lavoro in studio l’uomo che nientemeno che Bob Dylan paragonò nientemeno che a Marcel Proust sembra anche più vecchio dei settantun anni che ha. D’altra parte: tanta grazia che questo disco – prima raccolta di materiali autografi da tredici anni in qua, dopo una di standard country e una di duetti con voci femminili – veda la luce, giacché l’autore è sopravvissuto a un cancro ai polmoni quasi tre lustri dopo averne sconfitto uno della pelle. È alla radioterapia che lo aiutava a sbarazzarsi del primo che dobbiamo una voce più profonda e roca che negli album che lo hanno consegnato alla storia della canzone d’autore americana del Novecento: l’epocale, omonimo esordio del 1971; il quasi altrettanto meraviglioso “Sweet Revenge”, del ’73; in seconda battuta il sorprendente (schiettamente rockabilly, però solo per metà di brani suoi) “Pink Cadillac”, del ’79. A quella, più che alle sigarette cui ha dovuto giocoforza rinunciare e che rimpiange talmente da pregustare, nella conclusiva delle dieci tracce che sfilano in “The Tree Of Forgiveness”, quella che per prima cosa si fumerà non appena ammesso in paradiso: una lunghissima, nove miglia.

Alternativamente recitata e cantata e musicalmente sgangheratella, When I Get To Heaven è il solo mezzo passo falso – perdonabile; paradossalmente, ben altra pregnanza evidenziava Prine scrivendo a venticinque anni appena un capolavoro di canzone sull’invecchiare quale Hello In There – in un disco se no strepitoso. Fra il resto due pezzi con la statura del classico istantaneo: Caravan Of Fools potrebbe confondersi in un “Best Of” di Johnny Cash, The Lonesome Friends Of Science in uno di Townes Van Zandt.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.399, giugno 2018.

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Quell’unico disco, magnifico di Hal Willner (5/4/1956-6/4/2020)

Noto al pubblico americano soprattutto per essere stato – dal 1981! – il responsabile delle musiche di “Saturday Night Live”, Hal Willner è stato ucciso (beffardamente, all’indomani del suo sessantaquattresimo compleanno; la notizia è stata diffusa ventiquattr’ore dopo) dal virus che sta cambiando probabilmente per sempre (o comunque per molto, molto tempo) le vite di tutti noi. La platea dei musicofili lo ricorda soprattutto per essere stato colui che portò al massimo stato dell’arte il difficilissimo esercizio dell’album-tributo e per avere prodotto fra gli altri Marianne Faithfull, Bill Frisell, Lucinda Williams, Lou Reed e Laurie Anderson. Nonché per l’avere portato per primo su un palco Jeff Buckley, lanciandone di fatto la carriera. In pochi hanno invece memoria dell’unico disco che pubblicò a suo nome. E che è bellissimo.

Whoops I’m An Indian (Pussyfoot, 1998)

Tutti i progetti ai quali il produttore Hal Willner ha posto mano nei suoi oltre tre lustri di carriera hanno avuto il carattere dell’eccezionalità, a partire da quel “Rota Amarcord” che vide musicisti jazz alle prese con un gigante delle colonne sonore, Nino Rota, doppiato due anni dopo, nel 1984, da “That’s The Way I Feel Now”, che vedeva musicisti rock cimentarsi con un gigante del jazz, Thelonious Monk. Sono seguiti – vado a memoria – tributi a Kurt Weill, alla musica dei film di Walt Disney e a Charles Mingus, dischi con Allen Ginsberg e con William Burroughs e i Disposable Heroes Of Hiphoprisy insieme e svariati lavori per il cinema. Logico dunque che il debutto in proprio di Willner fosse atteso con curiosità e magari un po’ di diffidenza: sarebbe stato all’altezza?

Assolutamente sì. “Whoops I’m An Indian” va persino oltre le aspettative svolgendo un lavoro di sintesi inaudito che coinvolge i ritmi di New Orleans come quelli della drum’n’bass, musiche etniche di ogni dove, jazz, bossanova, voci soul, gospel e fantasmatiche e tant’altro ancora. Senza termini di paragone (l’unico a venirmi in mente che non sia del tutto improponibile è “My Life In The Bush Of Ghosts” di Brian Eno e David Byrne) e praticamente indescrivibile a parole, a meno di non riempire pagine su pagine. Suonate la prima traccia, che intitola l’album tutto, e ve ne renderete conto: su un funky paludoso che arriva dritto da Crescent City si inseriscono chitarre hawaiiane e una minacciosa voce “trovata”. Inclassificabile, “Whoops I’m An Indian”: pensate a una collaborazione che coinvolga (auspice lo spirito di Sun Ra) Van Dyke Parks, Tom Waits, la Dirty Dozen Brass Band, Captain Beefheart, John Lurie, i Neville e i Chemical Brothers e qualche DJ jungle. Non vacilla la mente?

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.8, novembre/dicembre 1998. “Whoops I’m An Indian” non è mai stato ristampato, ma su Discogs ed eBay lo vendono a pochi spiccioli.

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Nada Surf – Never Not Together (Barsuk)

Nel momento in cui scrivo è appena partito il tour con il quale i Nada Surf promuoveranno questo loro nono album in studio. Dopo gli USA toccherà undici paesi europei Italia compresa. Roba grossa, insomma, e testimonianza che il quartetto fondato nel 1993 dal chitarrista e cantante Matthew Caws e dal bassista Daniel Lorca, cui danno man forte dal ’95 (a quell’altezza i Newyorkesi avevano pubblicato solo un singolo e inciso un EP) il batterista Ira Elliot e dal 2010 il chitarrista Doug Gillard, può contare su una platea di cultori di buona consistenza nonostante nella sua ormai lunghissima carriera solo all’inizio abbia gravitato in orbita major. Li raccomandava alla Elektra Ric Ocasek (che firmava anche la regia del debutto in lungo “High/Low”) e la sua intuizione era subito premiata da un singolo, Popular, di più che discreto successo. Ma la casa discografica metteva becco nel secondo album, “The Proximity Effect”, il gruppo non gradiva e veniva licenziato subito dopo l’uscita del disco. Da allora, con l’isolata parentesi di un “Live In Brussels” che resta splendido bignamino della prima produzione della band e vedeva la luce nel 2004 per una succursale EMI, i Nada Surf sono uno dei nomi di punta (quando non si autoproducono) della indie Barsuk.

Lungo preambolo per sottolineare una volta di più che è incredibile che nessuna multinazionale provi ad accaparrarsi un gruppo dal potenziale clamoroso. Se So Much Love potrebbe appartenere ai Fleetwood Mac dell’epoca aurea, Come Get Me e Something I Should Do avrebbe potuto scriverle Tom Petty per “Southern Accents” e Mathilda pare una hit perduta degli Smashing Pumpkins. Nemmeno i pezzi più incisivi, palma che spetta a Looking For You, che parte con un incantevole coro di voci bianche prima di raddensarsi e scatenarsi.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.417, febbraio 2020.

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