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The Bevis Frond – Focus On Nature (Fire)

Nei suoi verdi ─ si fa per dire: era già più prossimo ai quaranta che ai trenta ─ anni Nick Saloman bastava a se stesso e, dopo che un esordio autoprodotto in duecentocinquanta copie (non perché, da buon collezionista e commerciante di dischi, volesse farne un’istantanea rarità ma in quanto convinto che quella roba lì quel mercato avesse) lo aveva reso una leggenda di un underground britannico tutto volto all’indietro, pubblicava album a raffica. Un po’ attingendo ad archivi sterminati, un po’ ingrossando il catalogo con nuove creazioni. Senza contare progetti laterali e collaborazioni solo a nome Bevis Frond dopo il debutto datato ’87 di cui sopra, “Miasma”, in quattro anni buttava fuori mezza dozzina di dischi incisi in perfetta o quasi perfetta solitudine. Salvo poi, dopo avere dato alle stampe il monumentale in ogni senso “New River Head”, capolavoro qualche minuto sotto le due ore in cui punk e post-punk facevano irruzione in una musica che quasi musealmente si era fino ad allora nutrita di influenze ’60 e primi ’70… continuare a pubblicare album dopo album, ma portandoli spesso pure in tour. Fino al 2004, a un ritiro da studi e palchi prolungatosi fino al 2011.

Dal ritorno la produzione si è in apparenza diradata, dal 2015 un lavoro nuovo ogni tre anni, ma essendo Saloman Saloman si tratta invariabilmente di album lunghissimi. Con la sua ora e un quarto “Focus On Nature” è persino sotto media. Non lo è un repertorio che a ballate ora folky e ora hendrixiane alterna assalti alla Wipers/Hüsker Dü, a riff hard fughe per tangenti psichedeliche, a tirate garage accenni di jingle-jangle. Lo promuoverà dal vivo e non accadeva dal 2016, quando dichiarò di essere troppo vecchio per i concerti. In Italia purtroppo non passa.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.462, marzo 2024.

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Ty Segall – Three Bells (Drag City)

Batte la fiacca, Ty Segall. L’uomo che nel 2018 pubblicò sei album ─ primo il monumentale “Freedom’s Goblin”, capolavoro personale che lo ha consegnato alla storia del rock ─ nel 2023 ha lasciato a bocca asciutta i cultori. O quasi visto che, se in proprio ha latitato, a nome C.I.A. ci ha inflitto la macelleria sonica di “Surgery Channel”: collaborazione con l’amatissima moglie Denée e scorgendo la firma di costei sotto cinque dei quindici brani (sessantacinque minuti: il blocco dello scrittore è un’altra cosa) di “Three Bells” qualche timore viene. Non bastasse, la penultima traccia si chiama Denée e chissà che film si saranno fatti i maligni che sostengono che costei stia a Ty come Yoko Ono a John Lennon. Errando.

Se fino a un certo punto di una fino a un certo punto prolificissima carriera iniziata quando aveva ventun anni (ne compirà a giugno trentasette) Segall si era caratterizzato come alfiere di un lo-fi che centrifugava ogni cosa Sixties o dei primi ’70 possa venirvi in mente, mischiando e accatastando materiali spesso pure compositivamente grezzi, dopo lo zibaldone definitivo di “Freedom’s Goblin” aveva fatto ulteriormente ordine concentrandosi in ogni album su uno stile. E allora nel 2019 “First Taste” era la sua opera più psichedelica, nel 2021 “Harmonizer” ammanniva hard sabbathiano infiltrato di synth e nel 2022 “Hello, Hi” era folk più che folk-rock. Con ulteriore capriola, e ribadendo che a furia di sovraincidersi il Nostro ha imparato a confezionare dischi che suonano anche bene, “Three Bells” senza abbandonare il folk ne fa giusto uno degli elementi di un sound di nuovo enciclopedico. Al punto che in qualche frangente si può azzardare un’etichetta che mai si sarebbe pensato di accostare all’artefice: progressive.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.462, marzo 2024.

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Una breve trattazione della produzione anni ’90 di Nick Cave

Si sa: la notte è più buia subito prima dell’alba. Da “The Good Son” emana un lucore che avvince e commuove. Il faulkneriano And The Ass Saw The Angel è stato finalmente pubblicato e accolto da ovazioni. In Brasile con i Bad Seeds per tre date trionfali, Cave ha conosciuto la stilista Viviane Carneiro e si è innamorato. E non solo di lei ma anche della tentacolare e cosmopolita Sao Paulo, in cui si trasferisce. L’album vede la luce il 17 aprile 1990, ventitré giorni prima del primogenito di Nick e Viviane, Luke, e che sia stato registrato in Brasile si sente. Non soltanto perché gli fa da incipit un adattamento dell’inno protestante locale Foi na cruz, che squisitamente riassume il costante intrecciarsi in esso di gioia e malinconia, ma per un gusto per la melodia assolutamente inedito. Il rock è racchiuso nella deliziosa chitarra surfeggiante di The Hammer Song e nella frenesia di una The Witness Song inondata pure di gospel. Il resto sono pianoforti romantici e profluvi di archi, pop che aspira alla perfezione e la raggiunge in una The Ship Song dopo la quale l’autore avrebbe potuto ritirarsi: è la canzone immortale che crede di non avere ancora scritto.

So di andare controcorrente, ché “The Good Son” già all’uscita fu disco che non metteva d’accordo e in ogni caso raramente viene citato fra i migliori di Cave: a me pare sia ─ per densità emotiva, sapienza degli arrangiamenti, qualità delle singole tracce e articolazione d’assieme ─ la sua raccolta autografa nettamente più memorabile.

Narrativamente gli anni ’90 di Nick Cave offrono materiale infinitamente meno interessante degli ’80, essendo la vita domestica faccenda non eccitante da raccontare quanto la vita spericolata. È un Cave sempre più rispettabile e rispettato che li traversa raccogliendo riconoscimenti da ogni dove, chiudendo con rimpianti e dolcezza la relazione con Viviane e avviandone una fugace con Polly Jean Harvey, lasciandosi alle spalle il Brasile e cominciando a chiamare “casa” Londra. Incontra un nuovo grande e possibilmente definitivo amore nella modella Susie Bick, che gli darà due gemelli, e infine si riconcilia con la memoria del padre, colui che l’ha iniziato alla letteratura, morto giovane in un incidente automobilistico (poco più che adolescente, il figlio apprese la notizia in una stazione di polizia in cui era in stato di fermo). Musicalmente, regalano al contrario dischi ancora capaci di generare controversie. Magari non “Henry’s Dream”, del ’92, che riprende le atmosfere di “The Good Son” scurendole appena e vanta canzoni superbe ─ una Papa Won’t Leave You, Henry dal ritornello saporoso di Irlanda, la lugubre Loom Of The Land (i Walkabouts ne offriranno una versione stellare in “Satisfied Mind”) e la tesa e minacciosa Jack The Ripper ─ ma è danneggiato dalla produzione inusualmente piatta di David Briggs (Neil Young; alcuni brani faranno ben migliore figura nel bellissimo “Live Seeds”). Magari non “Let Love In”, del ’94, che un tantino in effetti si adagia in una routine di classe ma è divertente nella vorticosa Jangling Jack e nella garagista Thirsty Dog e, alle prese con il delicato tema della pedofilia, appiccica al muro e fa il cuore a brandelli con Do You Love Me?. Di sicuro “Murder Ballads”, del ’96, album a tema che finirà per essere di gran lunga l’articolo più venduto del catalogo (oltre un milione di copie), grazie a un duetto con PJ Harvey e soprattutto a uno con Kylie Minogue, nell’incantata e crudele Where The Wild Roses Grow. È un disco che non ho mai amato particolarmente, pur apprezzandone l’umorismo che non molti hanno colto, una Henry Lee che evoca congiuntamente Leonard Cohen e Jennifer Warnes, l’orroroso vaudeville di The Curse Of Millhaven, la tenerezza blues di The Kindness Of Strangers e, più che altro, la liturgica Death Is Not The End, in cui al nostro uomo riesce di nuovo il trucco di migliorare Bob Dylan, sebbene un Dylan di seconda o terza categoria. Fatto è però che in “Murder Ballads” fatico a individuare la consueta messa a nudo dell’anima e quello che scorgo è un bravo attore. In tanti lo hanno detto capolavoro, ma mi permetto di dissentire.

Se un capolavoro va individuato nella produzione dei ’90 è piuttosto “The Boatman’s Call”, che usciva nel 1997 e raccontava la fine di un amore e anzi due con una sincerità bruciante fino all’imbarazzo e toccante. Raccolta di ballate prevalentemente pianistiche, è il più scarno e intimo fra gli album di Nick Cave e davvero dopo brani di intensità indicibile come Into My Arms e People Ain’t No Good ci si può chiedere, con il titolo di un’altra canzone che tuffandosi in una tempesta di sentimenti non vi pesca che dolore: Where Do We Go Now But Nowhere?.

Tratto da Nick Cave – Nel ventre della bestia. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.9, primavera 2003. Ristampato in Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. “The Good Son” arrivava nei negozi trentaquattro anni fa a oggi.

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Da giovani rampanti a rockstar – L’unico live degli U2 ha quarant’anni

Fa strano annotarlo per un gruppo sulle scene da così tanto: l’unico live degli U2 è questo e si deve insomma ricordare al lettore che è sobbalzato andando con la memoria a “Rattle And Hum” che quel doppio dove Bono e soci in più frangenti risultavano macchiettistici, già a Las Vegas tre decenni e mezzo prima di andare colà a spiaggiarsi, è inciso per meno di metà dal vivo. L’unico live per un gruppo che pubblicava il primo 45 giri nel settembre 1979 e il primo LP un anno e un mese dopo è datato 1983 e con i suoi otto brani per complessivi trentacinque minuti ─ due dagli acerbi singoli pre-Island, altrettanti dallo scintillante debutto “Boy”, uno dall’ambizioso con esiti altalenanti “October” e tre da “War”, che era l’album che i Dublinesi stavano portando in tour e li stava rendendo enormi ─ è oltretutto un mini. Registrato perlopiù (la seconda facciata per intero) in una serata tedesca, due sole le canzoni tratte dallo spettacolo al Red Rocks Amphitheatre di Morrison, Colorado, che vedrà la luce l’anno dopo in VHS e, epico pure per cornice ambientale, darà un ben più consistente apporto alla trasformazione dei suoi protagonisti da giovani rampanti a rockstar di prima e mitologica grandezza.

Per celebrare il quarantennale di “Under A Blood Red Sky” il disco, che cadeva lo scorso 21 novembre, la Universal avrebbe potuto esagerare come si usa oggidì e per una volta non sarebbe stato un troppo che stroppia. Poteva trasformarlo in un doppio aggiungendo i tredici pezzi (pazienza se così due sarebbero stati doppioni) della VHS, o addirittura allestire un triplo recuperando l’integrale in DVD (diciassette le tracce) del 2008, replicando il tal modo la Deluxe digitale mandata nei negozi quell’anno. Si è limitata ad aggiungere un poster (laddove la ristampa ancora facilmente rintracciabile del venticinquennale più generosamente offriva un inserto di sedici pagine), a rendere apribile una copertina in origine chiusa, a sfoggiare un vinile coreograficamente (ovviamente) di un rosso sgargiante. Chi bada al sodo noterà in compenso un remastering che esalta la sezione ritmica. È allora un’occasione mancata ma anche e nettamente l’edizione meglio suonante di sempre. La più… live.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.461, febbraio 2024.

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Alcune cose che ho scritto sugli Sparklehorse, a quattordici anni dalla morte di Mark Linkous

E così adesso Mark Linkous, l’uomo meglio noto come Sparklehorse, ha qualcos’altro in comune con Vic Chesnutt. A parte la collaborazione in “Dark Night Of The Soul”. A parte la malinconia che permea un catalogo decisamente meno cospicuo (quattro album “veri” in tutto). A parte una carrozzella, cui il nostro uomo era costretto per qualche tempo a metà ’90 essendo rimasto svenuto per quattordici ore in una posizione improbabile in una stanza d’albergo londinese, dopo avere mischiato valium con altre schifezze chimiche che pretenderebbero di curare i mali dell’anima. Ma dalla quale, diversamente dal povero Vic, riusciva dopo una serie di operazioni chirurgiche e tanta fisioterapia ad alzarsi. Adesso Vic Chesnutt e Mark Linkous condividono anche di avere posto fine volontariamente a delle vite gloriose e disperate. Il secondo ha giusto scelto un modo più spettacolare, sparandosi in pieno petto. Ci lascia un gruzzoletto di canzoni fragili e ispide come lui, qualcuna splendida a un crocevia sul quale convergevano Neil Young e Tom Waits, Johnny Cash e Skip Spence. Ci lascia un senso di inquietudine per l’incapacità di una generazione, che è poi quella di chi scrive e di non pochi fra i lettori, di diventare adulta – nel bene oltre che nel male – fino in fondo. Il terzo album degli Sparklehorse veniva intitolato nel 2001 “It’s A Wonderful Life”, come un classico di Frank Capra del ’46: quello in cui un angelo di serie B viene spedito sulla terra a guadagnarsi una promozione salvando un uomo dal suicidio. Nessun angelo girava purtroppo dalla parti di Knoxville il pomeriggio dello scorso 6 marzo.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.669, aprile 2010.

Vivadixiesubmarinetransmissionplot (Capitol, 1995)

Dal sottobosco del rock americano, fertile anche in momenti di oggettiva stanca quale è quello che stiamo vivendo, emerge un talento di cui potremmo sentir parlare a lungo. Si chiama Mark Linkous e da alcuni mesi è confinato su una sedia a rotelle a causa di un singolare incidente che non raccontiamo per ragioni di spazio (tanto ne avrete già letto, o ne leggerete in futuro, altrove). Ma se il suo corpo è storpio (tornerà a camminare ma resterà zoppo) lo spirito di Mark è forte e vola alto. L’esordio dei suoi Sparklehorse è un disco di quelli che magari non ti colpiscono di primo acchito ma che finisci poi per riascoltare ossessivamente. Lavoro di maturità stupefacente per un autore giovane quale è il Nostro che, nel mentre richiama alla memoria tanti altri artisti, conserva sempre una sua peculiarità.

Qualche riferimento, allora, tanto per chiarire di cosa parliamo quando parliamo del nostro amore per questo figlio di minatori della Virginia. Pensate a dei Pavement più lineari e ai R.E.M. più suadenti, ai Big Star del terzo LP, a un nuovo Johnny Cash salito alla ribalta dopo il punk. Immaginate Neil Young accompagnato non dai Crazy Horse ma ora dai Pixies, ora dalle Throwing Muses. Scarnificate il tutto e immergetelo in una malinconia quasi morbosa. Heart Of Darkness sembra uscire da “Berlin”, capolavoro di Lou Reed datato 1973. Someday I Will Treat You Good da “Everybody Know This Is Nowhere”, Neil Young, 1968. Sono invece due delle più belle canzoni in cui possiate imbattervi in questo 1996, due delle tante memorabili offerteci da “Vivadixiesubmarinetransmissionplot”.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.164, ottobre 1996.

It’s A Wonderful Life (Capitol, 2001)

Stesso titolo di un classico di Frank Capra del 1946, quello in cui un angelo di seconda categoria viene spedito sulla terra a cercare di guadagnarsi una promozione salvando un uomo dal suicidio, per il nuovo album della creatura di Mark Linkous. Scrivo queste righe basandomi su un’edizione provvisoria priva di note e senza un’anche minima cartella stampa e ignoro dunque se si tratti di una citazione, o se sia al contrario casuale. Quel che è certo è che pare evidente una certa affinità fra quella pellicola, una delle più problematiche e indubbiamente delle meno ottimistiche del grande regista americano, e l’amarognola visione della vita espressa dal nostro uomo in precedenza in piccoli capolavori chiamati “Vivadixiesubmarinetransmissionplot” e “Good Morning Spider”. Dischi che lo hanno collocato nella serie A e nelle zone alte di classifica di quel nuovo cantautorato a stelle e strisce che ha fra i suoi massimi alfieri Will Oldham e Bill Callahan.

Rispetto a quelli “It’s A Wonderful Life” paga il venir meno della gradita sorpresa indotta dalla scoperta prima e dalla conferma poi di un talento fuori dal comune. Linkous non cambia registro e la sua scrittura, devota a Neil Young come a Johnny Cash e a Tom Waits, fluisce in un alveo di quieta classicità facendo slalom, per la maggior parte del tempo e almeno per ora, fra le sabbie mobili degli stereotipi. Due scarti avvincenti: una Dog Door che trasloca Captain Beefheart nell’era del downtempo; il cigolante congedo Babies On The Sun. Vette di un lavoro che vanta ancora un discreto gruzzolo di canzoni coi fiocchi: l’incantato carillon che lo inaugura e intitola, l’incontro fra Dinosaur Jr. e Byrds di Piano Fire, il romanticismo in punta di dita di Apple Bed. Sarebbero pure belle, e parecchio Experiences, Little Fat Baby e Comfort Me, non fosse la devozione che esibiscono per il Neil Young di “After The Gold Rush” invero troppo marcata.

Ecco: a suscitare perplessità è che Linkous sembri accontentarsi di essere fra i prosecutori di una tradizione, quando inizialmente era parso intenzionato piuttosto a rinnovarla.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.447, giugno 2001.

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New York a Londra – Una notte perfetta con Lou Reed

È passato a momenti un quarto di secolo da “Rock’n’Roll Animal” e il gruzzoletto di LP dal vivo di Lou Reed ha assunto una consistenza quasi deadiana, con oscillazioni dal francamente superfluo (“Live In Italy”) all’oltraggiosamente indispensabile (“Take No Prisoners”: di rado titolo fu tanto programmatico). “Perfect Night Live In London” non ricade né in una categoria né nell’altra. Niente affatto inutile, esibisce come massima provocazione un arrangiamento molto scarno (senza gli archi che la fecero kitsch e meravigliosa) di Perfect Day nel momento in cui, a venticinque anni dall’uscita, diventava inopinatamente una hit.

È un Lou Reed inedito quello che emerge da “Perfect Night” e converrete che per un artista in circolazione dalla metà degli anni ’60 l’impresa è di per sé non da poco: raffinato e tendente all’acustico senza che ciò lo renda, vivaddio, un altro Eric Clapton. Ascoltate come Vicious, spogliata dall’elettricità glam dell’originale, suoni un bel po’ più perversa e minacciosa. È la punta di un album che spazia su tutta la carriera solistica del Nostro, regala tre inediti di buona grana e ha il merito di ricordarci che Coney Island Baby è la sua migliore ballata di sempre.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.6, luglio/agosto 1998. Lewis Allan Reed compirebbe oggi ottantadue anni non fosse che…

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About A Boy – Il testamento di Kurt Cobain

Al produttore dello show che, richiesto di addobbare il palco con gigli, candele nere e un candeliere di cristallo, gli domandava perplesso “come se fosse un funerale?”, Kurt Cobain rispondeva con quattro parole soltanto: “Esattamente. Come un funerale”. Il che fa pensare che già sei mesi prima di porre fine alla sua vita tormentata il leader dei Nirvana avesse preso una decisione in tal senso. E come non ricordare che, in una session fotografica per un giornale francese durante il tour dell’appena uscito “In Utero”, mimò il suicidio con un’arma giocattolo? Successe poco prima o dopo lo spettacolo che MTV registrava il 18 novembre 1993, mandava in onda per la prima volta in dicembre e replicava un numero infinito di volte dopo quel tragico 8 aprile ’94 in cui un elettricista con un appuntamento per installare un sistema di allarme nella villa del musicista lo trovava cadavere. Mixato in 5.1 surround, con due brani espunti in origine dalla trasmissione televisiva e aggiunte alcune interviste e cinque canzoni tratte dal soundcheck, “MTV Unplugged In New York” vedrà la luce in DVD solo nel 2007. A trasformarlo in un album la Geffen ci aveva messo molto meno: lo pubblicava in CD e vinile (singolo, nonostante una durata sopra i venticinque minuti a facciata) il 1° novembre 1994. E chissà come fece a non venire in mente a nessuno quanto sarebbe sembrata di cattivo gusto un’uscita alla vigilia del giorno dei morti. Una settimana prima o dopo, no? Tant’è. Se Cobain voleva che quello che è rimasto il più inconvenzionale degli “Unplugged” risultasse testamentario (e non poteva non immaginare che sarebbe stata la prima delle pubblicazioni postume), ebbene, in nessun modo il suo congedo dal mondo sarebbe potuto risultare più pregnante. Se intendeva accrescere a dismisura il rimpianto per ciò che sarebbe potuto essere e non è stato – una sua carriera da solista in veste di cantautore folk-rock, un’evoluzione dei Nirvana un po’ alla R.E.M.; più in là non è possibile andare – gli è riuscito anche meglio. E significherà qualcosa se, ancora più che immaginarselo vivo e con ormai quasi il doppio degli anni che aveva quando ci lasciò, risulta arduo pensare che invecchiando avrebbe perso – come un Bill Corgan qualunque – il tocco magico. Più facile proiettarsi ancora più avanti nel tempo, ipotizzare che sarebbe stato invece un altro Neil Young. Un cavallo pazzo sempre e comunque, anche a settant’anni, fuori dagli schemi nel bene e nel male. Se, se, se…

Quel che è certo è che quando venne loro proposto a nessuno dei Nirvana, non soltanto al leader, piaceva l’idea di aggiungere il proprio nome al già lungo elenco di solisti e gruppi che, dal novembre 1989, si erano prestati a suonare in acustico nello show ideato dai produttori Robert Small e Jim Burns: il più popolare dei (oggi si direbbe) format della televisione al tempo in grado di decidere, trasmettendo o no un video e a seconda di quanti passaggi gli concedeva, il decollo di un disco o una carriera. Assai più della stampa e delle radio, commerciali o dei college che fossero. Piccolo dettaglio: molto più interessata MTV a fare comparire nel programma la band che con “Nevermind”, aveva cambiato per sempre l’approccio dell’industria discografica maggiore a quello che veniva chiamato underground, e da allora viene etichettato “alternative”, che viceversa. “Avevamo visto altre puntate e per la maggior parte non ci erano piaciute, perché quasi tutti quelli coinvolti si presentavano come se si trattasse di un normale concerto rock, però al Madison Square Garden, però in acustico”, ricorda il batterista Dave Grohl. E allora quando, dopo lunga trattativa, si decideva di accettare l’invito conditio sine qua non era che tutto si sarebbe dovuto fare secondo i desiderata di Cobain. Non del tutto convinto, a torto, che il fragoroso repertorio del gruppo potesse rendere ad amplificatori spenti (uno per sé in realtà lo terrà acceso, pur rinunciando alla chitarra elettrica). E determinato a non proporre, come quasi tutti quelli passati da quelle parti, la solita banale scaletta a base di successi, pezzi già ben noti al pubblico semplicemente riproposti in una veste più spoglia. Per quanto sia MTV che la Geffen potessero esserne scontente. Alla casa discografica in realtà andrà di lusso, perché si troverà così fra le mani un album pieno di brani altrimenti inediti (tutte le cover: ben sei) e con un resto di programma peculiare perché non soltanto in acustico ma con una scelta di canzoni fra le meno frequentate del repertorio, sole hit presenti Come As You Are e All Apologies. Di fatto, il quarto capitolo di una vicenda esauritasi troppo rapidamente e senza lasciare grandi margini a speculazioni postume, visto che i cassetti già erano stati svuotati con “Incesticide”. Con l’ulteriore punto a favore di rispolverare, e proprio in apertura, quell’unica canzone dell’esordio “Bleach”, About A Girl, in cui i Nirvana già erano i NIRVANA. Non a caso sarà il singolo.

A venticinque anni dall’uscita originale DGC e Universal hanno riportato nei negozi “MTV Unplugged In New York” in una speciale edizione in vinile con un enorme pregio e un brutto difetto. Partiamo dal primo: già il semplice fatto che i 53’50” che nel ’94 vennero compressi in due facciate si trovino ora distribuiti su tre fa suonare meglio il tutto, ma bisogna toccare con orecchio, alzando il volume il giusto, per rendersi conto quanto, e senza nemmeno bisogno di un remastering. La collocazione sul palco dei musicisti è di precisione impressionante e ogni minima sfumatura – dai saliscendi emotivi della voce al discreto armeggiare del violoncello, dallo scivolare delle dita sulle corde di a volte anche tre chitarre contemporaneamente al gioco di fino di una batteria capace di esserci senza mai esserci troppo – si coglie meravigliosamente. Il difetto? È che ci sia una quarta facciata, con le stesse bonus del DVD di cui sopra, prove sgangherate e costantemente sull’orlo di una crisi di nervi. Da ascoltare una volta, con imbarazzo, e mai più. Quando tutto il resto è a suo modo perfetto pure quando la piccola imprecisione scappa. “Anche io andrò dove spira il vento freddo”, canta Cobain nella conclusiva Where Did You Sleep Last Night, da Leadbelly, e un groppo sale in gola. Scatta l’applauso. Proprio come a un funerale.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.415, dicembre 2019. Non avesse scelto di smettere di intrattenerci, Kurt Cobain compirebbe oggi cinquantasette anni.

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Rock The Country – Il primo Joe Ely

Altamente improbabile che vi sia qualche lettore, per quanto disinteressato al country e con una presenza minima di cantautori USA negli scaffali, per cui Joe Ely è uno sconosciuto. Almeno il nome, se non altro perché rientra fra quelli recensiti di default su queste pagine, lo avrà orecchiato. Ma è assolutamente impossibile che non lo abbia mai ascoltato cantare. Avete presente Should I Stay Or Should I Go? La più rollingstoniana delle canzoni dei Clash era il terzo singolo tratto nell’82 da “Combat Rock”, a seguire l’exploit di Rock The Casbah, che non eguagliava ma comunque avvicinava. Sarà uno spot per una marca di jeans a trasformarla, di lì a dieci anni, nel più grande successo di sempre di una band a quel punto da lungi sciolta e a renderla inamovibile nel novero di quei cento-duecento pezzi fissi nelle rotazioni di un certo tipo di radio. Nel catalogo Clash Should I Stay Or Should I Go è un’anomalia, uno dei pochissimi brani in cui è Mick Jones la voce solista, con Joe Strummer a fare i cori. Non da solo. Con Joe Ely, che così arrivava a dividere uno studio con un gruppo per il quale aveva aperto innumerevoli date nel Regno Unito come oltre Atlantico, società di mutua ammirazione che aveva toccato un duplice apice nel 1980 con l’uscita di “Live Shots”, immortalato a Londra proprio in una serata di spalla a Strummer e soci, e nell’omaggio tributatogli da costoro in If Music Could Talk, quinta traccia della terza facciata del triplo “Sandinista!”: “There ain’t no better blend than Joe Ely and his Texas Men”. Se non vi fidate del sottoscritto…

Earle R. Ely nasce ad Amarillo il 9 febbraio 1947 e si trasferisce dodicenne in quella Lubbock che ancora oggi chiama casa. È una performance di Jerry Lee Lewis a fargli decidere cosa farà da grande anche se, non potendosi permettere un piano, imbraccia un violino prima, poi una chitarra. Fra lui e il sogno si frappone, quando ha quattordici anni, la tragica realtà della prematura scomparsa del padre e di un conseguente crollo nervoso della madre che fa sì che lui e un fratello debbano soggiornare per diversi mesi presso dei parenti. Abbandonati prematuramente gli studi contribuisce al bilancio domestico con il più umile dei lavori, lavapiatti. Lasciato quando il primo complesso semiprofessionale, tali Twilights dei quali non ci è giunto che il nome, comincia a rimediare abbastanza ingaggi da garantirgli introiti più dignitosi. Lasciati a loro volta, i Twilights, per una vita da vagabondo beat che lo porta in California, poi a New York, quindi (al seguito di una compagnia teatrale) in Europa. Torna a Lubbock nel 1971 e fa comunella – inizio di un felicissimo ménage à trois giunto ai giorni nostri – con Butch Hancock e Jimmie Dale Gilmore. Dei tre Joe è l’anima rock’n’roll, Butch quella folk, Jimmie Dale un’enciclopedia deambulante della country music. Si battezzano Flatlanders e rimediano un contratto con un’etichetta, la Plantation, che ha vissuto giorni di gloria ma è ormai in disarmo. Che è la ragione per la quale l’album che registrano nel 1972 – “All American Music” il programmatico titolo – non vedrà la luce che nel ’73. Luce? Quale luce? Esce solo in stereo 8 (!) e insomma fino al 1980, quando lo riediterà a 33 giri la britannica Charly smentendo quanti lo ritenevano una leggenda, non lo ascolterà nessuno. L’anno dopo ancora il nostro uomo si gioca la carta della carriera solista. Passando di mano in mano un demo arriverà nel 1976 fra quelle di un componente della band di Jerry Jeff Walker, che lo girerà al principale, che lo girerà a un dirigente della sua casa discografica, la MCA.

Stentavo a crederci, giacché è di un autore e interprete stratosferico universalmente annoverato fra i precursori del cosiddetto alt-country che stiamo parlando, ma le ristampe rimasterizzate pubblicate lo scorso 17 febbraio dallo stesso marchio che le portò nei negozi illo tempore di “Joe Ely” (1977), “Honky Tonk Masquerade” (1978) e “Down On The Drag” (1979) sono, per l’esordio e il suo seguito, le prime in vinile dal 1980 e, per quanto attiene il terzo LP, addirittura la prima in analogico. Se per un verso si potrebbe paradossalmente dirle inutili, giacché le copie d’epoca si trovano ancora con facilità e a un prezzo che è una frazione di quello scandaloso (attorno ai cinquanta euro!) richiesto per queste, e suonano già piuttosto bene, per un altro quantomeno offrono il destro, nell’attesa che pure il summenzionato “Live Shots”, “Musta Gotta Notta Lotta” (1981) e “Hi-Res” (1984) subiscano in ogni senso analogo trattamento, per spendere qualche riga per un debutto brillante, un classico totale e un buon lavoro di transizione. Decida chi ne è sprovvisto se farsi rapinare o rivolgersi al mercato dell’usato. Tutti e tre gli album hanno dieci canzoni in scaletta e in tutti e tre il titolare ne firma la metà, pescando parecchio per il resto nel repertorio di Butch Hancock (ben undici brani) e offrendo inoltre sue versioni di due pezzi di Jimmie Dale Gilmore (a trenta si arriva con un’esuberante resa di Honky Tonkin’ di Hank Williams e una bluesata di B.B.Q. & Foam di Ed Vizard). In tutti e tre danno man forte al titolare, oltre a una folla di turnisti, Lloyd Manes alla steel guitar, Jesse Taylor alle chitarre sia acustiche che elettriche, Gregg Wright al basso e Steve Keaton alla batteria, con Ponty Bone che si aggiunge a piano e fisarmonica a partire dal secondo. Gruppo tosto ed eclettico, ruspante e raffinato. Apici… Di “Joe Ely”: la travolgente I Had My Hopes Up High, il cajun Mardi Gras Waltz, il western swing All My Love. Ma, soprattutto, la meravigliosa ballata da border She Never Spoke Spanish To Me. Di “Honky Tonk Masquerade” (incluso nel 2005 nel delizioso 1001 Albums You Must Hear Before You Die): l’honky tonk Cornbread Moon, l’accorata con brio Boxcars, la squisitamente sentimentale title track, una I’ll Be Your Fool che sarebbe stata perfetta per Elvis, il rock’n’roll Fingernails. Di “Down On The Drag”: la dolente Fools Fall In Love, lo swamp-rock Crawdad Train, il valzer She Leaves You Were You Are. Tempo di scoprire Joe Ely, se per voi finora era solo un nome.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.453, maggio 2023. Il cantautore americano preferito dei Clash compie oggi settantasette anni.

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Curami! Curami! Curami! I Therapy? di “Troublegum”

“Ma allora non si sono mai sciolti…”, constato con un senso quasi di smarrimento scoprendo che non solo i Therapy? ancora suonano dal vivo e pubblicano dischi (del che ero vagamente conscio), ma che mai in un quarto di secolo hanno smesso di farlo. Il che può ben dare la misura di quanto la compagine nordirlandese sia diventata irrilevante quando ci fu un tempo – intorno alla metà degli anni ’90, quando uscivano questi due album appena ripubblicati in edizioni più monstre che Deluxe – in cui era sulla bocca di tutti. E il bello è che il Vostro affezionato Andy Cairns e soci li seguiva senza perderne una mossa e fa fede che in casa si ritrovi una discografia fino a un certo punto quasi completa, con tanto di singoli in vinile in ogni formato possibile. Era l’epoca del grunge e al grunge i Therapy offrirono un controcanto personale (talvolta in bilico su precipizi noise) come forse nessuno fuori dagli USA. Senza complessi di inferiorità, senza mai temere di risultare troppo alternative per il pubblico del metal o viceversa. Li premiavano entrambe le platee e se non ne derivava uno stardom alla Nirvana/Pearl Jam/Soundgarden dischi ne vendevano subito abbastanza da garantirsi, dopo due mini per l’indipendente Wiiija, un approdo al colosso A&M.

Secondo frutto maggiore, nel 1994, del sodalizio, “Troublegum” è l’album clamoroso che ricordavo: una sequenza di colpi da KO dopo i quali tuttavia si resta sempre in piedi, esilarati, un senso per la melodia micidiale quanto quello per il riff, una potenza straripante coniugata a un istinto pop raro. Che si viaggi solo veloce e più veloce, che in tre quarti d’ora (non inganni la durata del CD, gli ultimi ventidue minuti sono di rumore di vinile che fruscia) non ci sia un istante di tregua invece che stancare esalta. I Black Sabbath in collisione con i Motörhead di Stop It You’re Killing Me, gli Hüsker Dü resuscitati in Die Laughing, i Metallica apocrifi (come da allora non li abbiamo più sentiti) di Lunacy Booth gli apici di un classico un po’ negletto (disco dell’anno per “Kerrang!”, se può interessarvi) da recuperare assolutamente. I due CD aggiunti (molti remix, un po’ di demo e di registrazioni live) non aggiungono nulla di davvero indispensabile eccettuata una versione per archi (!) della summenzionata Lunacy Booth, ma praticamente non li pagate e dunque…

Anche “Infernal Love”, che raggiungeva i negozi nel ’95, è l’album che ricordavo: coraggioso e non completamente riuscito. Qui per la prima volta i ragazzi provavano a togliere ogni tanto il piede dall’acceleratore (esemplare una A Moment Of Clarity che parte come una ballata rarefatta), a variare gli arrangiamenti (riecco gli archi), addirittura a spegnere gli amplificatori (accade in Diane). Non tutto funziona, qualcosa (ad esempio una Bowels Of Love che fa il verso agli Smashing Pumpkins più melò) sfiora la ruffianeria e nondimeno, dovendo dare un voto, mai potrebbe essere meno di 7. Che diventa 7+ in forza di un secondo dischetto in larga parte acustico.

Il pubblico apprezzava ancora, ma meno che in precedenza. Il declino sarà subitaneo, la scomparsa dai radar quella raccontata al principio. Per la cronaca: ho provato a dare un’ascoltata al disco più recente (di due anni fa), “A Brief Crack Of Light”, e non mi è sembrato affatto male. Picchiano, ancora e di nuovo, come fabbri.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.192, maggio 2014. “Troublegum” arrivava nei negozi esattamente trent’anni fa.

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I migliori album del 2023 (1): Blur – The Ballad Of Darren (Parlophone)

Bello a volte venire smentiti. In apertura di una lunga disamina che dedicavo proprio su VMO a “The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows”, secondo lavoro da solista di Damon Albarn e secondo a occupare… ahem… il secondo posto nella mia lista dei migliori dischi di un anno che era per quello il 2021 ed era stato per il debutto “Everyday Robots” il 2014, scrivevo che per i Blur, che non davano a quel punto notizie da sei anni “riaffacciarsi alla ribalta sarebbe più esercizio di vanità (scommessa sul settimo numero uno consecutivo nella classifica UK degli album) che un fare di improbabile urgenza creativa virtù: appartengono ai ’90, li rappresentano come pochi (in patria nessuno), riposino in pace.” Pubblicato il 21 luglio un po’ a sorpresa (un po’ sorpresi gli artefici stessi, come del resto era accaduto per il predecessore del 2015 “The Magic Whip”, dalla genesi per un verso analoga e un altro diversissima, di trovarsi di nuovo insieme in sala di incisione), è andato subito a occupare la vetta delle classifiche patrie (pareggiati così i conti con i rivali di gioventù Oasis, ne mancano a questo punto due ai nostri Fab Four per eguagliare anche il record di quegli altri Fab Four là) e probabilmente si sarebbe inerpicato fin lì se anche non avesse potuto sfruttare l’abbrivio di due concerti sold out al Wembley Stadium. Ma questo, lo dicevo, era quasi scontato. Non lo era per nulla che risultasse una collezione di canzoni oltre che magnifiche così… mature. Se naturalmente rimane vero che degli anni ’90 britannici i Blur furono i cantori più rappresentativi, a “The Ballad Of Darren” riesce meglio che ai soli due altri lavori in studio dati alle stampe da costoro in questo secolo – “Think Tank” prima, molto prima (2003) del summenzionato “The Magic Whip” – l’impresa di collocarsi nel suo tempo ma fuori dal tempo. Che tanto ne sia trascorso da Girls & Boys ne sono ben consci Damon e soci. Uomini, oggi. Ultracinquantenni (Rowntree va in verità per i sessanta) che non si sviliscono né ci prendono in giro facendo finta di essere (giocando a fare ancora) i monelli che furono.

Iniziare bene un disco è importante. Abbozzata sin dal 2003 (che fosse all’epoca Half A Song lo dichiarava già il titolo), The Ballad provvede con accenti lennoniani e un’accoratezza esultante che più avanti caratterizzerà pure il carillon su ritmica rotolante Goodbye Alert. Congedarsi memorabilmente lo è altrettanto e ci pensa, dopo un attacco di chitarre battenti e un passaggio dal sinuoso al marziale, il finale caotico e fragoroso di The Heights. L’edizione standard ci lascia così, esaltati e sottilmente insoddisfatti perché mai i Blur erano stati così parchi nel concedersi, dieci brani soltanto per complessivi trentasei minuti (che fa in ogni caso uno in più di “Rubber Soul” come di “Revolver”). È una chiusa perfetta e lo resta pure dopo avere scoperto che la versione Deluxe di “The Ballad Of Darren” aggiunge come bonus due canzoni a dir poco strepitose – The Rabbi nientemeno che il power pop più indimenticabile del 2023; The Swan un babà pepperiano – che giusto dei pazzi di genio potevano permettersi di scartare, come un’altra dozzina di pezzi che ci si augura di potere ascoltare prima o poi. E ci sta, perché lo svolgimento del programma fila com’è e si sarebbe corso il rischio di sciuparlo a provare a inserirle a ogni costo. Dove le mettevi? Fra un revival di Song 2 chiamato St. Charles Square e l’art-rock che incontra il britpop di Barbaric? Fra il valzer Far Away Island e una Avalon un po’ Bacharach e un po’ Brian Wilson? Disfavi il trittico sublime costituito dalla lounge cinematica di Russian Strings tallonata dall’omaggio a Cohen The Everglades (For Leonard) a sua volta seguito da una The Narcissist scelta come singolo apripista e tutta in crescendo? A farlo, paradossalmente l’album non sarebbe forse stato il capolavoro che è. Voi però mettetevi in casa l’edizione – si fa per dire: 42’30” – lunga.

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