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The Ballad Of Delaney & Bonnie

Delaney Bramlett e Bonnie Lynn O’Farrell, bianchi neri dentro, si conoscono a fine 1967 a Los Angeles. Lui, ventottenne, è passato dai Champs prima di approdare agli Shindogs. Lei, ventitreenne, è stata la prima Ikette non di colore. Tempo una settimana e hanno messo su famiglia e una band coi fiocchi che comprende Bobby Whitlock alle tastiere e l’eccezionale sezione ritmica formata da Carl Radle al basso e Jim Gordon alla batteria. Li mette sotto contratto la Stax. Inciso con la crema dei turnisti di Memphis, “Home” esce nel maggio 1969 ed è sapidissimo pasticcio di soul e rock, blues e gospel, errebì e funky cucinato alla maniera sudista. Sfortunatamente vende quasi nulla. Tutto finito? Macché. Li ingaggia la Elektra e nel giro di due mesi l’al pari esuberante “The Original” è nei negozi. George Harrison ascolta un test pressing, si entusiasma e li arruola nei ranghi della Apple. Peccato che l’accordo venga invalidato dal fatto che Delaney & Bonnie sono ancora a libro paga dell’etichetta di Jac Holzman, contratto sciolto quando Delaney minaccia di morte Holzman. Dall’avere due case discografiche la coppia passa ad averne nessuna. Tutto finito? Macché. Si fa avanti la Atlantic, firmano per la succursale ATCO ed entro fine anno si ritrovano in tour di spalla ai Blind Faith, supergruppo appena nato e già sull’orlo del dissolvimento. Ben più che con la sua band Eric Clapton si diverte a suonare con i Nostri, che schierano una formazione ampliata a dismisura da una sontuosa sezione fiati, da Rita Coolidge ai cori, da un altro mostro sacro quale Dave Mason dei Traffic alla terza (!) chitarra.

Con in scaletta (ad aprirla) un solo brano dai due lavori in studio, l’esplosivo rhythm’n’blues Things Get Better, “On Tour” viene registrato nella tappa inglese del 7 dicembre. Quando vedrà la luce nel marzo 1970 risulterà prematuro testamento più che cronaca, visto che Slowhand porterà Whitlock, Radle e Gordon nei Derek & The Dominos, Harrison se ne farà fiancheggiare in “All Things Must Pass”, Leon Russell metterà la sola ritmica al servizio del Joe Cocker di “Mad Dogs And Englishmen”. Dagli amici mi guardi Iddio! Consolazione non da poco tuttavia che, oltre a vendere parecchio al tempo, “On Tour” resti nella considerazione generale uno dei più bei live della storia del rock. E della black no? Valga come paradigma l’incrocio di chitarre hard, ritmica funk, fiati soul e voci da chiesa di Comin’ Home.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.427, gennaio 2021.

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Dell’artista bifronte – Su John Cale

Scrivo queste righe alla fine di una settimana che ha visto John Cale protagonista di una manciata di date italiane in perfetta solitudine, seduto dinnanzi al piano o più raramente con una chitarra fra le mani. Null’altro fra lui e una ventina di splendide canzoni per la maggior parte vecchie quasi vent’anni oppure più ancora. La situazione ideale per ascoltare al meglio questo signore che da qui a pochissimo, accadrà il 9 marzo, compirà cinquantanove anni. Un’età giunti alla quale è in genere poco dignitoso roccare e rollare. Potrebbe osservare qualcuno che Lou Reed, antico compare del nostro uomo, compirà gli stessi anni sette giorni prima e tale problema non se l’è ancora posto. Osservazione giusta ma sbagliata. Benché il loro pur breve sodalizio sia stato fra i più fruttuosi e forse il più influente della storia del rock, i due non hanno granché in comune e anche a motivo di ciò le loro collaborazioni sono sempre durate poco, non soltanto perché entrambi sono prime donne. Diversa la formazione musicale, innanzitutto: se Lou si innamorava ragazzino del rock’n’roll e faceva subito i conti, da ghost writer per gruppi improbabili, con le sue strutture elementari, era un’infatuazione per Paganini a fare accostare John alla musica. Seguivano la frequentazione con il compositore Cornelius Cardew e la borsa di studio che gli consentiva di lasciare il natio Galles e andare a perfezionarsi presso il conservatorio di Tanglewood, Boston. Da lì, era la fine del 1963, si trasferiva a New York, aggregandosi immediatamente al Theatre Of Eternal Music di La Monte Young, formazione chiave per la scuola minimalista, tuttavia (per le egocentriche fisime del leader) pochissimo documentata a tutt’oggi discograficamente. Era la ripetitività di tali spartiti (intreccio di estenuanti bordoni), in fondo non dissimile da quella del rock più grezzo, a creare un terreno comune sul quale Cale e Reed, conosciutisi poco dopo l’arrivo del primo nella Grande Mela, poterono incontrarsi e dare vita alla creatura Velvet Underground.

Fisiologico che il rapporto si consumasse in fretta: al di là delle guerre di ego, il primo premeva per orientare la band verso musiche sperimentali, oltre l’epopea di frastuono e furore di Sister Ray; il secondo per raccontare il suo Grande Romanzo Americano con fulminanti paragrafi di due o tre elastici accordi.

Non dirò altro dei Velvet. Non è questa la sede e confido che anche il più inesperto fra i lettori sia edotto al riguardo quanto basta. Quello che mi preme sottolineare qui è che se Lou Reed è, come dichiara il titolo di un suo celeberrimo live, il rock’n’roll animal per antonomasia, al contrario per John Cale il rock è (stato) un qualcosa che ha imparato ma che non gli è mai appartenuto totalmente. Non una faccenda di istinto, insomma. Ecco perché, se a Lou Reed si può perdonare di suonare ancora Sweet Jane (se ne può persino essere felici), di un John Cale rockista non si avverte più da tantissimo – da quando diede alle stampe l’inquietante e meraviglioso “Music For A New Society”, AD 1982 – il bisogno. Ben superiori sono i risultati quando si esprime in una forma che ha più in comune, per dire, con Rimsky Korsakov che con Chuck Berry.

Da subito scissa fra afflato neoclassico ed elettricità la vicenda solistica del Nostro. Defenestrato dai Velvet nel ’68, si prendeva una biennale vacanza di lavoro dedicandosi alla produzione dell’ex-compagna di banda Nico e dell’epocale debutto degli Stooges (altro esempio di opposti che si attraggono), confezionando quindi nel 1970, a distanza di poche settimane l’uno dall’altro, ben due 33 giri. Usciva prima quello registrato per secondo e che dunque le discografie inevitabilmente indicano come debutto, vale a dire “Vintage Violence”.

Prosegue per altre 6.568 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.430, 20 febbraio 2001. John Cale compie oggi ottantun anni. Li ha festeggiati in anticipo pubblicando lo scorso 20 gennaio “Mercy”, suo diciassettesimo album in studio collaborazioni e colonne sonore escluse. Incredibilmente, uno dei suoi più belli di sempre.

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Il canto libero di Lucio Battisti

Sono passati quarant’anni e un numero imprecisato di mesi ─ le tante biografie non riescono a mettersi d’accordo sulla data del debutto in proprio: era l’aprile del ’66 oppure il luglio? ─ dacché Lucio Battisti esordiva a 45 giri. Etichetta Ricordi, copertina ammiccante a Dylan anche se probabilmente al tempo se ne accorsero in dieci, a riascoltarlo oggi Per una lira/Dolce di giorno non pare questa gran cosa. Sono due bittarelli con un sentore di soul freschi e graziosi ma in fondo non così diversi da tante produzioni coeve, a parte che i testi osano qualcosa di più in malizia. E un po’ scandalizzarono difatti: la prima nella versione byrdsiana e più lenta dei Ribelli, cui l’aveva girata Celentano dopo che i due autori invano avevano provato a convincerlo a inciderla lui; la seconda in quella dei Dik Dik, che la sistemarono sul retro di un successone chiamato Sognando la California. Poche migliaia viceversa gli esemplari andati via (forse addirittura poche centinaia) del singolo di Lucio e dunque niente per un’epoca in cui i dischi si vendevano eccome, altro che oggi. Per darvi un’idea: quando nel 1968 l’Equipe 84 totalizzerà mezzo milione di copie di Nel cuore, nell’anima si griderà al fallimento, quasi al disastro, visto che il 45 giri prima, 29 settembre, era arrivato a superare il milione. Ehi! Due pezzi di Battisti/Mogol i suddetti, che all’altezza del glorioso “insuccesso” di Vandelli e soci ne avevano già piazzato un’altra mezza dozzina a una piccola folla di interpreti ottenendo puntualmente riscontri commerciali importanti. Se il Battisti autore sembrava già inarrestabile e una miniera d’oro per l’industria, stentava a decollare il cantante: ritirato il secondo sette pollici, centomila copie vendute del terzo (poca roba, avrete inteso), nemmeno entrato in classifica il quarto, di modesto impatto il quinto benché supportato da una partecipazione a Sanremo. La svolta era segnata nella primavera del 1969 dal sesto, Acqua azzurra, acqua chiara sul lato A, Dieci ragazze sul retro, un terzo posto e quasi cinque mesi di permanenza in graduatoria. A quel punto la rivoluzione inscenata nella musica italiana da Battisti e Mogol era in pieno essere. Durerà dieci abbondanti anni ancora. Per dieci abbondanti anni non ci sarà praticamente settimana senza almeno una canzone della coppia di Re Mida in classifica, cantata da Lucio Battisti oppure no. E a distanza di due decenni e mezzo ancora, adesso che quando vendi diecimila copie di qualcosa nel Bel Paese i discografici si sfregano le mani tutti soddisfatti e stappano bottiglie, annualmente di dischi di Battisti se ne vendono in media un trecentomila. Fa quasi mille al giorno. Ne avete minimo uno in casa pure voi. Tiratelo fuori. Suonatelo. Ecco, potete scommettere che in questo preciso istante altri stanno facendo la stessa cosa. Non ci si libererà mai da quei due, grazie a dio.

Io vivrò senza te

Naturalmente ricordo benissimo il modo in cui Lucio Battisti uscì dalla mia ─ dalla nostra ─ vita. Lo smarrimento che mi colse quando alle tredici del 9 settembre 1998, accesa la TV per guardare uno dei principali TG nazionali, mi trovai davanti uno schermo nero con giusto una scritta di saluto a campeggiare e sotto le note di Emozioni. Mi pare che la mandarono per intero, quattro minuti e quarantaquattro secondi senza una parola dello speaker, una cosa mai vista e insomma anche uscendo di scena il Lucio da Poggio Bustone riusciva a essere inaudito. Si fossero fermati lì! A quello straordinario pezzo di televisione indimenticabile di suo. Si fossero limitati a dare la notizia, che arrivava inattesa nonostante si fosse capito che, per uscire da un eremitaggio durato oltre tre lustri ed entrare in un ospedale pubblico, qualcosa di serio l’artista reatino doveva averlo. Sin dal 29 agosto gli inviati delle televisioni erano accampati davanti al San Paolo di Milano e voci incontrollabili si rincorrevano senza che nulla di ufficiale venisse detto. Poi un comunicato stampa, venticinque parole. Si fossero fermati lì! A un servizio di cinque minuti, di dieci, magari a un’edizione del telegiornale dedicata integralmente alla notizia, per poi spegnere le luci e fare calare un rispettoso silenzio su una persona che dello stare in silenzio, lasciando che a parlare fossero le canzoni, aveva fatto uno stile di vita. E invece no. Si avviava sgangherato il carrozzone delle celebrazioni pelose con aggrappati individui di ogni risma. Facevano a botte per una comparsata sotto i riflettori illustri nullità e fra esse, puntuali, quanti sul nostro uomo non avevano mai esitato a spalar maldicenze. Era tutta una gara al “io che lo conoscevo bene”, “io che senza di me”, “io… io… io…”: miserabili accattoni di polvere di stelle. Partiva il karaoke e vai con le dieci ragazze che per me potranno bastare. Un programma via l’altro e l’auditel impazzita con numeri da finale di coppa del mondo di calcio, perché poi la gente ─ quella vera ─ a Lucio voleva bene sul serio e, pur schifato, non potevi fare a meno di guardare. Fino e oltre alle esequie, avvenute il 12 in presenza di quelle venti persone che avevano diritto di stare lì, soltanto gli affetti intimi, i più cari. Fino e oltre a quel primo 29 settembre senza Battisti, con le auto della polizia di ronda intorno a un cimitero sotto assedio, mentre altre volanti facevano il possibile per impedire che nella villa al Dosso da lungi loro ritiro privilegiato il riservatissimo lutto della donna che gli era stata accanto per quasi tre decenni venisse disturbato.

Non ricordo invece come fu che ci entrò Lucio Battisti, nella mia vita. In verità mi sembra ci sia sempre stato e che fosse dappertutto, con quelle canzoni così orecchiabili che le poteva cantare un bambino e difatti le cantavo a squarciagola con gli altri e mi pareva di capirle, più o meno. Perché oltre il cancello della colonia estiva l’uomo che passava con il carretto e gridava “Gelati!” c’era e, allo stesso modo, all’uscita di scuola i ragazzi vendevano i libri e io restavo a guardarli cercando il coraggio per imitarli. Però mi piace pensare che anche all’altezza dei miei nove, dieci, undici anni qualcosa mi lasciasse perplesso, mi facesse riflettere. Come potevano le malinconie (dolcissime poi!) correre nelle praterie? Che ci azzeccavano i tarli con la mente? E si sono mai visti appassire dei fiori stampati su un vestito? Le canzoni degli altri non ti facevano arrovellare così. Poi è arrivata l’adolescenza e Battisti era immancabile nei pomeriggi tristissimi passati facendo tappezzeria alle feste di altri e altre, chiedendomi perché mi avessero invitato e soprattutto perché ci fossi andato, che tanto non c’era niente da fare, io con quella tipa lì non sarei mai riuscito a spiccicare una parola. Una consolazione che ci fosse lui a inframmezzare una se no mortale colonna sonora rigorosamente a base di Baglioni e Bee Gees, Sorrenti e “Dark Side Of The Moon”. Mi sarebbe piaciuto di più ascoltare quegli altri di Pink Floyd, quelli di “The Piper At The Gates Of Dawn”, che però sembrava garbassero solo a me, oppure Bob Marley ma da noi se lo filavano ancora in pochi. I Clash o Lou Reed, appena scoperti, erano fuori discussione. Però, dai, Battisti non era malaccio in fondo. Anche quei pezzi lì con la cassa in quattro da discoteca e che però se paragonati ai successi dance che imperversavano avevano una fluidità tutta loro, e un’italianità, e non sapevano di plastica, e che belle le parole, sempre. Si mormora che Battisti sia fascista. Lo fosse, dovrei cambiare stazione (dura trovarne una che non lo manda mai) ogni volta che lo trasmettono alla radio e fargli propaganda contro? Ma in fondo a dirlo sono i medesimi che hanno dato del nazista a Lou Reed, dimenticandosi che è ebreo, portando a prove i capelli corti e ossigenati e i Ray-Ban, e mi sa proprio che non è vero. Se lo è me ne frego. Ecco, mi sono appena fatto una battuta da solo, posso sgattaiolare via senza salutare e in ogni caso non se ne accorgerà nessuno.

Eppure credo di essere arrivato ai trent’anni senza avere un disco di Lucio Battisti. È che mi sembrava di conoscerli già tutti a memoria ed era un’ottima scusa per non comprarli. Tanto erano solo canzonette, no? Non so come mai a un certo punto ho cominciato a mettermeli in casa uno dopo l’altro. Forse per nostalgia di un tempo, remoto come un sogno, in cui la sottilissima linea che separa l’essere un giovane promettente da un fallito di mezza età era lontana all’orizzonte. Forse perché, essendomi conquistato del rock tutto o quasi lo scibile imprescindibile, potevo cominciare, fra questa e quella esplorazione dei suoi perimetri esterni, a togliermi qualche sfizio. È stato allora con qualcosa di assai simile allo sbalordimento che ho iniziato a rendermi conto di quanto fossero complesse e geniali nella loro costruzione le canzonette di cui sopra, piene di deviazioni subitanee e intarsi, modernissime. Istantanee nel loro porgersi e tuttavia al centesimo ascolto differenti da come erano apparse al novantanovesimo. Degne di essere pronunciate nello stesso respiro affamato di ineffabile con cui esali la litania Ray Davies, Brian Wilson, Arthur Lee, Bob Dylan, Lennon/McCartney, Burt Bacharach, Phil Spector.

Prosegue per altre 60.345 battute su Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.23, autunno 2006. Fosse ancora fra noi, Lucio Battisti compirebbe oggi ottant’anni.

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Il mio disco preferito dei Fall

Esisterà un felice possessore dell’intero catalogo dei Fall? Trentuno album in studio, altrettanti (!) dal vivo, più cinque registrati parte in studio e parte in concerto, più una quarantina (!!!) di raccolte alcune delle quali tornano comode per recuperare molti dei brani usciti su una miriade di EP e di singoli, ma non tutti. Probabilmente nemmeno Mark E. Smith possedeva l’integrale di Mark E. Smith, anche per via di un rapporto altamente conflittuale (nel contesto di un rapporto altamente conflittuale con il mondo) con l’industria discografica. Per la più parte non approvati dal leader del combo mancuniano i troppi live, idem le antologie. È tutto un po’ “troppo” nell’universo di un gruppo che il cultore numero uno, John Peel, descriveva come “sempre diverso, ma sempre uguale”. Erano i suoi preferiti, tanto che proprio nell’ultima intervista, facendo un bilancio della sua vita inconsapevole di essere in vista del traguardo diceva: “Cascassi morto domani mattina, non potrei lamentarmi di nulla. A parte che mi perderei il nuovo album dei Fall”. Se n’è persi otto.

Io un po’ di più, nel senso che ne ho una dozzina, più la raccolta monstre dei 45 giri per la Rough Trade, e arriverò prossimamente a sfiorare la quindicina con un paio di classici “minori” che, sull’onda dell’emozione per la dipartita del nostro uomo, mi sono affrettato a fermare presso il mio spacciatore di fiducia di vinile usato. I classici “maggiori” (“Live At The Witch Trials”, “Grotesque”, “Code: Selfish”…) li ho già. E poi c’è “Bend Sinister”. Il terzo, massimo il quarto a entrarmi in casa, certamente il primo a venire acquistato in diretta (usciva il 29 settembre 1986), senza nemmeno attendere le recensioni come si usava allora. Per due ragioni. Seconda: contiene una strepitosa cover di uno degli inni del garage USA dei ’60, Mr. Pharmacist degli Other Half. Se possibile più contundente dell’originale. Prima: la foto di Brix al tempo Smith (nata Laura Elisse Salenger) sul retro di copertina. Solo in seguito la visione del videoclip proprio del pezzo in questione me la farà scoprire una normale splendida donna. Sul retro di copertina di “Bend Sinister” è la più incantevole che sia mai esistita. Per me. Era allora nel perfetto mezzo di un matrimonio durato sei anni con Mark E., la bella e la bestia tanto per ossequiare uno stereotipo. Con il senno del poi fu comunque quella un’età aurea per i Fall, cinque dei loro dischi migliori uno dopo l’altro e giusto il congedo dalla band e dal matrimonio di Brix, “I Am Kurious Oranj”, sottotono, un mezzo passo falso. Così, semiunanime, una giurisprudenza che per quanto ho ascoltato, e cioè solamente in questo periodo quasi tutto, mi trova d’accordo a parte che no, non ci sto a considerare “Bend Sinister” l’altro anello debole della catena. Nonostante il produttore John Leckie – che da lì a tre anni firmerà con l’omonimo debutto degli Stones Roses uno dei capolavori di sempre del pop UK – ricordi con orrore il momento in cui Mark E. si presentava in sala con una cassettina che aveva fatto girare all’infinito su un walkman e la richiesta di masterizzare alcune canzoni partendo da lì, pretesa che si vedeva respingere a brutto muso e per una volta trovava uno più testardo di lui. Sarà magari anche a ragione di ciò che in seguito liquiderà l’album sdegnandone la patina psichedelica applicatavi da Leckie. Salvo conservare per trent’anni Mr. Pharmacist fra i pochi brani pressoché immancabili nelle scalette dei concerti.

Ho appena scoperto, mettendo mano a questo pezzo, che il mio “Bend Sinister” in vinile è orbo dei 4’35” di un’undicesima traccia, Living Too Late, e dei 4’51” di una dodicesima, Auto-Tech Pilot, presenti come bonus soltanto nell’edizione in digitale e per inciso era questo il primo album dei Fall a venire pubblicato pure in CD (la cassetta ne offre anche una tredicesima che azzardo pletorica, registrata dal vivo). Me ne cruccio relativamente, giacché mi pare che la chiusa ideale per il disco non possa essere che la ripresa di quella Shoulder Pads che sul primo lato va dietro, sferragliantemente velvetiana, a un’ipotesi di Joy Division primordiali chiamata R.O.D. e alla danza sbilenca di Dktr. Faustus e precede la cover degli Other Half. Prima che Gross Chapel-British Grenadiers suggelli la facciata con i suoi 7’20” diversamente memorabili di ritmica marziale, chitarre acidule e tastiere rarefatte. Shoulder Pads a mio avviso è uno dei brani-simbolo dei Fall epoca Brix: qui si incontrano precisamente a metà via il gusto pop in precedenza inaudito introdotto dalla ragazza e l’enfasi declamatoria di un consorte giustamente sbigottito dalla convivenza forzata con chi “non distingue Doug Yule da Lou Reed”. Ma è l’intero secondo lato a pareggiare gli apici più apici della torrenziale produzione del gruppo, dall’industrial krautfunk di U.S. 80’s-90’s al vertiginoso rimpattino fra il sospeso e il vorticoso di Riddler!, passando per l’abbozzo di punk-beat Terry Waite Sez e una Bournemouth Runner che rolla ossianica, decolla furiosa, atterra sgangherata. E la morale di questa storia è: sempre farsi traviare da due begli occhi e fattezze d’angelo.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.238, marzo 2018.

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Il suono degli anni ’60 (ovvero: di quando l’America si innamorò dei Beatles)

Si potrebbe ad esempio partire da una data che per l’Occidente segna un punto di demarcazione rilevante come quello messo dagli attentati dell’11 settembre 2001. Il 22 novembre 1963 a Dallas viene assassinato John Fitzgerald Kennedy. Non è la prima volta che mani omicide colgono la vita di un presidente americano, ma questo è il XX secolo e c’è la diretta televisiva che moltiplica esponenzialmente l’emozione. Per tutto ciò che Kennedy aveva simboleggiato ─ la presa del potere da parte di una generazione giovane e per di più rappresentata da un membro di una minoranza; la ventata di aria fresca, l’ondata di ottimismo e cambiamenti che avevano accompagnato il suo insediamento e fino a quel momento il mandato ─, la sua morte violenta infligge alla psiche della nazione ferite le cui cicatrici sono tutt’oggi visibili. C’è un “prima” e c’è un “dopo” e nel dopo l’idea del Sogno Americano appassisce. È come se gli anni ’60, che da quasi tutti i punti di vista nemmeno sono iniziati se non per il calendario, morissero in culla. E morirebbero, non fosse che… Quello stesso 22 novembre i quattro di Liverpool pubblicano il loro secondo LP, “With The Beatles”, che in Gran Bretagna va subito in classifica al numero uno rilevando il debutto “Please Please Me”, che quella posizione occupava sin dall’uscita, nel marzo precedente (insieme, i due album tennero il primo posto per cinquantuno settimane consecutive). Direte voi: d’accordo, un interessante caso, ma pur sempre un caso. Niente affatto. Negli Stati Uniti i Beatles sono lungi dal rappresentare il fenomeno di costume che già sono in patria, un po’ perché da poco alla ribalta, un po’ perché non li hanno ancora visitati, un po’ perché la loro etichetta americana (al momento la Vee Jay; da qui in poi sarà la Capitol) non ha forza distributiva adeguata e infine l’era della comunicazione globale modello MTV è lontana due decenni. Ma un paese gettato nel lutto dagli spari di Dallas si scopre confortato dalle loro solari, apparentemente innocue canzoncine e li abbraccia con entusiasmo. Quando il 7 febbraio 1964 i quattro giovincelli vi pongono piede per la prima volta…

Pensate agli anni ’60: quale il suono che vi viene in mente? Il frizzante beat e poi la raffinata psichedelia frammista a vaudeville dei Beatles stessi, il ruggente errebì bianco dei Rolling Stones, il Bob Dylan di Blowin’ In The Wind o quello di Like A Rolling Stone, il jingle-jangle dei Byrds, le ballate soul di Otis Redding, il distorto ululare della chitarra di Jimi Hendrix? O ancora Janis Joplin che canta il blues, o i ritratti di decadenza dei Velvet Underground ma in questo caso è una memoria falsa, elaborata a posteriori, ché dei Velvet in vita pochissimi si accorsero. Tutto vero, tutto giusto, tutto bello. Però è un altro, secondo me, il suono-simbolo del decennio favoloso per antonomasia e non è musica, ma un urlo, l’urlo altissimo, immortalato in tele- e cinegiornali che da allora capita di continuo di rivedere, che sortì dalle gole dei cinquemila ragazzi e soprattutto ragazzine che quel fatidico 7 febbraio (avanguardia dei settantatré milioni che due sere dopo li seguiranno all’“Ed Sullivan Show”) accolsero la discesa dei Beatles dalla scaletta del volo PA-101 della Pan-Am, atterrato all’aeroporto di New York che già si chiamava Kennedy.

Domanda ─ Vi è piaciuto questo benvenuto?

Ringo ─ Così, questa è l’America. Sembrano tutti pazzi.

Domanda ─ Vi spaventa la folla che vi viene incontro urlando?

John ─ A Dallas più che altrove.

Domanda ─ Cosa fareste se i fans superassero lo sbarramento della polizia?

George ─ Moriremmo ridendo.

Rifletto sugli anni ’60 e quello che vedo sono le bocche spalancate di quelle ragazzette, i poliziotti che le soccorrono quando svengono in intere comitive, altri che le placcano quando superano gli sbarramenti. Può sembrare stupidità. A me pare un’innocenza meravigliosa, irripetibile. In quelle immagini scorgo la fine del più lungo dopoguerra conosciuto dall’umanità e, nonostante la più parte siano in bianco e nero, un mondo che improvvisamente diventa a colori. È un grido di liberazione, è il detonatore di tutto quanto gli anni ’60 saranno in positivo. Dopo, più nulla lo stesso. È il suono di una rivoluzione. Se poi qualcuno vi dirà che in fondo quelle dei Beatles erano più o meno solo canzonette, lasciatelo parlare. Siamo in democrazia: essere imbecilli è un diritto.

Tratto da Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.10, estate 2003.

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Archers Of Loaf – Reason In Decline (Merge)

Una volta “reunion” era una parolaccia, l’ultimo rifugio di musicisti che, avendo assaggiato lo stardom con un gruppo e fallito nel mantenerlo con altri sodali o da solisti, vellicavano la nostalgia di chi era stato giovane quando erano giovani loro. Erano considerate una roba patetica. Ancora suonate rock a… quarant’anni?!? Oggi che anche ai concerti di band di ventenni molti degli astanti hanno il doppio o il triplo degli anni di chi è sul palco nulla è più comune del tentare un secondo o terzo giro per gruppi che al primo magari ebbero successo e fecero la Storia, magari non raccolsero quanto avrebbero meritato e sono poi stati rivalutati, magari avrebbero potuto risparmiarci già il primo. Tuttavia: spesso con esiti sorprendentemente buoni e si potrebbero fare enne esempi.

Al chilometrico elenco si aggiungono gli Archers Of Loaf, da quella Chapel Hill, North Carolina, che nei primi Novanta sistemò sulla mappa del più pregiato indie USA loro e altre due band strepitose quali i Superchunk (mai sciolti) e i Polvo (di nuovo insieme dal 2008). Erano come una versione più rumorosa ma melodicamente al pari insidiosa dei Pavement, gli Archers Of Loaf. Pubblicarono fra il ’93 e il ’98 quattro splendidi album su Alias (a un certo punto li aveva messi nel mirino la Maverick di Madonna, ma non cedettero alle sue lusinghe) e poi ciao. Dopo una manciata di concerti nel 2012 tornano con un lavoro in studio e sono come li si ricordava, eppure sottilmente diversi. Più lirici, più… centrati. Più ascolti pezzi come Saturation And Light (una delle loro cose più pop di sempre), Breaking Even (degli Hüsker Dü in fregola Byrds) o la pianistica War Is Wide Open e meno il pensiero che sia questo il loro disco migliore ti pare blasfemo.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.448, dicembre 2022.

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A Brief History Of Gang Of Four

I Gang Of Four sono stati il primo gruppo rock con il quale sono riuscito sul serio a rapportarmi, il primo che mi fece andare via di testa e sentire parte di un qualcosa di unico e figo. Il primo che ad ascoltarlo mi veniva voglia di ballare e scopare. Rammento ancora l’effetto che mi fece ‘Entertainment!’, con i suoi ritmi affilati come un rasoio e quella copertina che dava in culo all’uomo bianco. Guardarla ed esplodere in una danza spastica fu un tutt’uno. Mi spazzò via. Rovesciò completamente la prospettiva da cui osservavo il rock e mi indusse a prendere in mano un basso elettrico.

“‘Entertainment!’ fece a pezzi qualunque cosa fosse uscita prima. I Gang Of Four avevano il senso dello swing. Ho rubato un sacco da loro.”

Parole di Flea dei Red Hot Chili Peppers le prime, di Michael Stipe dei R.E.M. le seconde, spese quando nel 1995 una ristampa espansa del primo, epocale album riaccese i riflettori sul quartetto di Leeds. Flea osservava anche che l’influenza esercitata da Andy Gill su The Edge degli U2 e dal gruppo tutto su complessi a loro volta seminali come Fugazi e Jane’s Addiction era alle sue orecchie evidentissima. E come non essere d’accordo? Mentre Tad Doyle, fra i vessilliferi del grunge alla testa della quasi omonima formazione, dal canto suo raccontava di avere avuto la vita cambiata, e con lui Kurt Cobain, da un concerto della Banda dei Quattro a Seattle. Esperienza analoga a quella di cui riferisce la penna più celebre e aguzza del giornalismo rock americano dacché Lester ci ha lasciati, vale a dire il decano Greil Marcus, che vide i ragazzi in azione a San Francisco nel 1979. Spalla dei Buzzcocks. A tal punto esaltanti che lasciò la sala senza assistere all’esibizione dei Mancuniani, affinché la magia dell’attimo non avesse a sciuparsi. Reazioni: Doyle dava vita a una cover band, Red Set, dedita al rifacimento integrale di “Entertainment!”; Marcus scriveva sui Gang Of Four pagine fra le più memorabili della sua opera tutta (nulla più definitivo al riguardo che In The Fascist Bathroom). A nove anni dall’ondata di omaggi che salutò la ripubblicazione di un album uscito in origine nel settembre 1979, c’è di nuovo un pretesto per discettare dei leedsiani: torna nei negozi, identica però a com’era e non si capisce bene quale il senso dell’operazione, “A Brief History Of The Twentieth Century”, buon compendio per il neofita con i suoi venti brani per settantasette minuti. Non-evento che viene comunque buono per contare al giovin lettore il perché e il percome i Gang Of Four furono e sono così importanti e aggiornare l’elenco degli epigoni: Liars, Interpol, Yeah Yeah Yeahs. In misura minore gli Strokes. Per certo riffarama che deve decisamente di più ad Anthrax che al Sabba Nero, i Queens Of The Stone Age. Eccetera.

Prosegue per altre 6.491 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.566, 17 febbraio 2004. Ricorre oggi il terzo anniversario della scomparsa, sessantaquattrenne, del chitarrista Andy Gill.

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I migliori album del 2022 (1): Black Country, New Road – Ants From Up There (Ninja Tune) / black midi – Hellfire (Rough Trade)

Prossimi non solo in un’ideale libreria sistemata in ordine alfabetico i Black Country, New Road e i black midi: per chi scrive i due gruppi più notevoli espressi finora dal rock britannico dell’attuale decennio. Li accomunano reciproca stima, l’abitare territori musicalmente contigui, l’essere tutti giovanissimi, dallo scorso autunno una campagna concertistica americana che ha visto curiosamente i primi fare da spalla ai secondi nonostante vendano molto di più e, da ormai un anno, sfortunatamente pure questo: che mentre i black midi avevano perso il chitarrista Matt Kwasniewski-Kelvin appena prima di registrare il secondo album i Black Country, New Road annunciavano l’addio del cantante e chitarrista Isaac Wood il 31 gennaio, vale a dire quattro giorni prima che “Ants From Up There” raggiungesse i negozi e subito volasse al numero 3 della classifica UK, migliorando di una posizione il piazzamento dell’esordio “For The First Time”. Defezione dovuta incredibilmente alle stesse ragioni (problemi di salute mentale) ma presumibilmente destinata a pesare di più, visto che della band autorialmente e per la voce riconoscibilissima costui era il fulcro. Delittuoso sarebbe però se il pensiero che questo potrebbe essere un congedo (anche no, visto che nel tour negli USA hanno suonato solo brani inediti e nulla ─ nulla! ─ dai due album con Wood) ne sciupasse l’ascolto. Se non facesse godere fino in fondo di un disco di una bellezza abbagliante nelle cui dieci tracce (ma la prima è una breve Intro) per complessivi 58’46” un post-rock senza quasi rapporti con il post-punk si muove fra folk (il klezmer un’influenza vistosa) e minimalismo, progressive (versante Canterbury) e chamber pop. Ci troverete dentro i primi Arcade Fire e Arthur Russell, i Neutral Milk Hotel e Michael Nyman, Steve Reich, i Caravan, gli Slint. Cla-mo-ro-so.

Il 19 luglio 2022 a Londra il termometro ha segnato 40.3°, la temperatura più alta mai registrata da quelle parti. Un incubo per tutti fuorché i black midi, che quando decisero di chiamare il terzo album “Hellfire” non potevano certo immaginare che quattro giorni dopo una pubblicazione involontariamente tempestiva i quotidiani avrebbero titolato a proposito dell’ondata di caldo che ha colpito il Regno Unito come il resto d’Europa usando proprio quella parola: “Hellfire”. Di tale pubblicità gratuita hanno approfittato affittando un furgone e girando per la capitale britannica vendendo oltre al disco e al relativo merchandising… gelati. Di un sense of humour formidabile quanto la maestria tecnica dei Fantastici Tre e non più Quattro danno d’altronde testimonianza, e non per la prima volta, anche i crediti del disco, laddove Geordie Greep, Cameron Picton e Morgan Simpson satirizzano il vecchio prog, loro che sono ormai considerati i massimi alfieri di uno nuovo sul serio, attribuendosi rispettivamente trentatré, trentatré e ventisei diversi strumenti. Parecchi invero improbabili. Elencano in qualità di turnisti settantaquattro nomi, venticinque dei quali si sarebbero prestati nel terzo di dieci brani, Eat Men Eat, a produrre “burps”, “rutti”. Qualcuno ha detto “Frank Zappa”? A riascoltarli è un’influenza che, sebbene in misura minore, si coglie pure in predecessori ─ “Schlagenheim” (2019) e “Cavalcade” (2021) ─ per i quali sono stati chiamati in causa King Crimson, Van Der Graaf Generator, Scott Walker, Gang Of Four, Wire, Fall, P.I.L., Pere Ubu, Sonic Youth, Butthole Surfers, Primus, Shellac, June Of 44, Battles. Se volete a questo giro aggiungete Captain Beefheart e Naked City. Non cambierà, tirando le somme, il risultato: nessuno ha mai suonato così. Nessuno.

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I migliori album del 2022 (5): Fontaines D.C. – Skínty Fía (Partisan)

Niente di più difficile in musica che ripetersi senza ripetersi ed è l’impresa che è riuscita ai dublinesi più che mai (benché attualmente quattro risiedano a Londra e uno negli Stati Uniti) Fontaines D.C.: che a un debutto di strepitosa freschezza e travolgente energia quale “Dogrel” (aprile 2019) davano seguito appena quindici mesi dopo con l’al pari trascinante ma maggiormente variegato e di più spiccato lirismo “A Hero’s Death”. Triplice la sfida che si trovava ad affrontare la compagine irlandese con il “difficile terzo album”: restare riconoscibile senza trasformarsi in un cliché; sfilarsi dalla foltissima truppa di quanti dagli Interpol in poi sono stati sistemati alla voce “post-punk revival”; staccarsi l’etichetta di “nuovi U2”, che se arrivi da dove arrivano loro e hai il potenziale per riempire gli stadi ti tocca indipendentemente da cosa e come suoni. Oltretutto un marchio di infamia dacché Bono e soci sono diventati delle macchiette, due abbondanti decenni, e ciò pesa sulla percezione di un gruppo che in precedenza fu per quasi altrettanto viceversa inafferrabile, non esente da cadute ma a suo modo grandioso persino in quelle.

Per intanto i Fontaines D.C. sono grandiosi e stop e in un catalogo ormai di una quarantina di articoli si stenta a trovarne di anche vagamente accostabili a quegli altri dublinesi là (qui e forzando un po’ una Roman Holiday in una terra di mezzo fra “War” e “The Unforgettable Fire”). Per intanto ribadiscono di essere una band calata in ogni senso nel presente al di là del fatto che la new wave è classic rock da ancor prima che, appiattendone la prospettiva storica, YouTube e i servizi di streaming modificassero irreversibilmente il continuum spazio-temporale della popular music. Per intanto piazzano subito prima del post-grunge della traccia omonima, ottava di dieci, l’inaudito folk per sole fisarmonica e voce di The Couple Across The Way, avendo certificato essere il loro fin la meraviglia già con l’inaugurale In Ar Groithe Go Deo, liturgica con tanto di coro angelicato prima di un indefinito montare di tensione che la fa esplosiva. E da lì a Nabokov, che suggella porgendosi come una How Soon Is Now riscritta dai Sonic Youth, non ne sbagliano una. Forse si scioglieranno domani. Forse da qui a dieci anni saranno pure loro delle macchiette, ma oggi è oggi e oggi pochi scrivono canzoni della forza di Big Shot (dei Joy Division che scelgono la vita), How Cold Love Is? (da un tempo e un universo alternativi dove a capitanare gli Smiths è Robert Smith: immagina, puoi) o Bloomsday (ritmica strascicata, chitarre surf). Teniamoceli stretti, per intanto.

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I migliori album del 2022 (6): King Hannah – I’m Not Sorry, I Was Just Being Me (City Slang)

Che bello potersi entusiasmare per un semi-esordio (pubblicato nel dicembre 2020, con i suoi sei brani per complessivi trenta minuti “Tell Me Your Mind And I’ll Tell You Mine” in altri decenni sarebbe stato considerato debutto in lungo) quale è questo dei King Hannah, duo domiciliato a Liverpool formato dalla cantante e chitarrista gallese Hannah Merrick e dal chitarrista Craig Whittle. È che trasmette una freschezza che sconfina nell’innocenza che inevitabilmente intenerisce. È che la scaletta è benissimo congegnata, con due interludi che sono in realtà introduzioni ai brani in cui sfumano e le dieci canzoni vere che lo compongono che alternano sapientemente atmosfere ed emozioni creando un fluire armonioso. Spostane una e non è che verrebbe giù tutto ma ecco, pur restando un ottimo album “I’m Not Sorry, I Was Just Being Me” non sembrerebbe più il piccolo miracolo che è. Giacché i dettagli sono parte integrante della grandezza. Sempre.

A non essere un dettaglio è come mettendo a nudo i loro cuori ragazza e ragazzo risultino disarmanti anche per il più cinico dei navigatori di lungo corso dei mari del pop. Il che fa sì che l’elenco delle influenze non si trasformi nel solito argomento del “tutto già sentito”. Perché no, perché persino nell’omaggio smaccato ai Portishead di “Dummy” di Foolius Caesar i King Hannah riescono a essere unici. Lo sono a maggior ragione quando squadernano il blocchetto degli appunti: distillando doom dalla prima PJ Harvey in A Well Made Woman, evocando lo Springsteen devoto ai Suicide in Big Big Baby, gettando un ponte fra il Neil Young di On The Beach e quello di Cortez The Killer in The Moods That I Get In, giocando nella traccia omonima lui a far Nick Cave, lei Kylie Minogue.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.441, aprile 2022.

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