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Belle And Sebastian – Late Developers (Matador)

Gruppo per quasi venti peraltro splendidi anni piuttosto prevedibile gli scozzesi Belle And Sebastian, sin dacché “Tigermilk” nel 1996 delineava un canone di istantanea riconoscibilità. Elementi fondanti i Love di “Forever Changes” e i Velvet del terzo LP, Byrds, Smiths e Go-Betweens, Nick Drake, certa Motown, la Sarah. Naturalmente quella Postcard che tre lustri prima si era scelta negli anni ’60 gli stessi numi tutelari. Era la quintessenza del pop da cameretta e a fare la differenza era la qualità della scrittura: stellare. Sempre. E importava poco allora o nulla che i dischi si somigliassero un po’ tutti. Un’unica volta, ed era il 2002, i nostri eroi erano usciti dal seminato ma non faceva testo, siccome “Storytelling” nasceva come colonna sonora. Tutto ciò fino al 2015, quando “Girls In Peacetime Want To Dance” spiazzava muovendosi in massima parte fra, appunto, dance e new wave e sistemando giusto in apertura e chiusura quei due o tre brani che si sarebbero potuti confondere negli album prima. Mossa coraggiosa, disco divertente ma non granché a fuoco, un filo irrisolto.

Non contando “Days Of The Bagnold Summer” (un’altra colonna sonora), “A Bit Of Previous” gli dava un seguito soltanto nel 2022 stupendo di nuovo, stavolta con robuste iniezioni di synth-pop, e di nuovo lasciando perplessi. “Late Developers” arriva nei negozi appena otto mesi dopo. Che ne sembri il fratello gemello pare ovvio, inevitabile una volta appreso che le sue undici canzoni provengono dalle stesse sedute. Lavoro ancora più slegato, che si rifà indifferentemente a Donovan come ai Pet Shop Boys, ai Thin Lizzy o ai Miracles. Si giunge alla penultima traccia prima di riconoscere i Belle And Sebastian tanto amati. Il trucco c’è: è un pezzo scritto nel 1994.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.450, febbraio 2023.

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Il blues che era già rock’n’roll di Lightnin’ Hopkins

Come in tanti altri grandi del blues, in Lightnin’ Hopkins – nato Sam Hopkins il 15 marzo 1912, morto il 30 gennaio ’82 –  convivevano l’istintiva furbizia di chi, cresciuto in miseria, ha fatto un’arte del sapersi arrangiare e un’ingenuità disarmante. Pensate che per tutta la vita fu solito cedere per contanti le canzoni che scriveva, riuscendo così a campare sempre in maniera dignitosa ma perdendo una fortuna in diritti d’autore (i tanti brani, ad esempio, che sui suoi dischi sono firmati Bill Quinn sono in realtà autografi). Da cui, e non solo frutto di una straripante urgenza creativa, la consistenza abnorme della sua discografia: decine di LP e centinaia fra 45 e 78 giri usciti per un numero non meno esorbitante di etichette.

Il modo migliore e più economico per accostarsi all’opera di questo gigante delle dodici battute è mettersi in casa “Mojo Hand”, doppio CD Rhino in box corredato da un corposo libretto. È probabilmente la migliore raccolta possibile del Nostro in sole quaranta canzoni e l’unica che copra la sua vicenda artistica per intero e, grosso modo, in ordine cronologico, dalle prime registrazioni per la Alladin del novembre ’46 all’album per la Sonet del 1974. Arrivato a incidere già trentaquattrenne e con uno stile perfettamente formato nel quale si era consumata la transizione dal blues rurale insegnatogli da Blind Lemon Jefferson a una forma più urbana, nella sua trentennale carriera Hopkins non si discostò mai più di tanto (un peccato, ché gli accenti jazz di brani come I’ll Be Gone e Shaggy Dad fanno intravvedere esaltanti possibilità che rimasero inesplorate) dal nucleo primigenio della sua musica. Play With Your Poodle, incisa nel 1947 in trio con il pianista Thunder Smith e un batterista sconosciuto, esemplifica codesto stile come nessun altro dei più di mille titoli registrati: blues elettrico caratterizzato dal timbro acre della chitarra e da peculiari accenti boogie che lo fanno rock’n’roll molti anni prima che il termine entrasse in uso.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.21, primavera 2006.

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The Ballad Of Delaney & Bonnie

Delaney Bramlett e Bonnie Lynn O’Farrell, bianchi neri dentro, si conoscono a fine 1967 a Los Angeles. Lui, ventottenne, è passato dai Champs prima di approdare agli Shindogs. Lei, ventitreenne, è stata la prima Ikette non di colore. Tempo una settimana e hanno messo su famiglia e una band coi fiocchi che comprende Bobby Whitlock alle tastiere e l’eccezionale sezione ritmica formata da Carl Radle al basso e Jim Gordon alla batteria. Li mette sotto contratto la Stax. Inciso con la crema dei turnisti di Memphis, “Home” esce nel maggio 1969 ed è sapidissimo pasticcio di soul e rock, blues e gospel, errebì e funky cucinato alla maniera sudista. Sfortunatamente vende quasi nulla. Tutto finito? Macché. Li ingaggia la Elektra e nel giro di due mesi l’al pari esuberante “The Original” è nei negozi. George Harrison ascolta un test pressing, si entusiasma e li arruola nei ranghi della Apple. Peccato che l’accordo venga invalidato dal fatto che Delaney & Bonnie sono ancora a libro paga dell’etichetta di Jac Holzman, contratto sciolto quando Delaney minaccia di morte Holzman. Dall’avere due case discografiche la coppia passa ad averne nessuna. Tutto finito? Macché. Si fa avanti la Atlantic, firmano per la succursale ATCO ed entro fine anno si ritrovano in tour di spalla ai Blind Faith, supergruppo appena nato e già sull’orlo del dissolvimento. Ben più che con la sua band Eric Clapton si diverte a suonare con i Nostri, che schierano una formazione ampliata a dismisura da una sontuosa sezione fiati, da Rita Coolidge ai cori, da un altro mostro sacro quale Dave Mason dei Traffic alla terza (!) chitarra.

Con in scaletta (ad aprirla) un solo brano dai due lavori in studio, l’esplosivo rhythm’n’blues Things Get Better, “On Tour” viene registrato nella tappa inglese del 7 dicembre. Quando vedrà la luce nel marzo 1970 risulterà prematuro testamento più che cronaca, visto che Slowhand porterà Whitlock, Radle e Gordon nei Derek & The Dominos, Harrison se ne farà fiancheggiare in “All Things Must Pass”, Leon Russell metterà la sola ritmica al servizio del Joe Cocker di “Mad Dogs And Englishmen”. Dagli amici mi guardi Iddio! Consolazione non da poco tuttavia che, oltre a vendere parecchio al tempo, “On Tour” resti nella considerazione generale uno dei più bei live della storia del rock. E della black no? Valga come paradigma l’incrocio di chitarre hard, ritmica funk, fiati soul e voci da chiesa di Comin’ Home.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.427, gennaio 2021.

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Sweet De La Soul Music (r.i.p. Trugoy The Dove, 21/9/1968-12/2/2023)

Totalizzano cinquantasette anni in tre Posdnous, Trugoy The Dove e P.A. Pasemaster Mase quando, con il fondamentale apporto dello stetsasonico Prince Paul, mettono mano a “3 Feet High And Rising”. Vengono da Amityville, cittadina nei pressi di New York resa famosa dieci anni prima da una pellicola culto per ogni amante del cinema horror, ma nel loro esordio (su Tommy Boy, 1989) non disegnano gli scenari gotici che nell’hip hop faranno irruzione solo con il Wu-Tang Clan. Tutt’altro. La copertina tempestata di fiori abbozzati con tratto à la Haring e il vecchio simbolo hippie del “fate l’amore, non la guerra” iscritto nella “o” di “Soul” annunciano che, mentre a Los Angeles gli N.W.A si apprestano a fare conoscere al mondo come vanno le cose a Compton e da New York la CNN del Nemico Pubblico trasmette comunicati guerreschi, altra musica nera è pronta, vent’anni dopo la funkadelia, a mandare giù e a far salire su zuccherini all’acido. Senza flirt con il rock però.

Eppure è proprio il pubblico bianco che si entusiasma di più, facendosi per la prima volta conquistare da una posse senza che questa ricorra ai riff dell’hard (i Run-DMC) o a posture clashiane (i Public Enemy). Piacciono il passo flemmatico, l’ironia, i campionamenti assurdi (la lezione di francese di Transmitting Live From Mars), le melodie insidiose anche quando oblique ma a volte talmente semplici (The Magic Number) da rasentare la filastrocca da asilo. Dopo il quasi fallimentare (artisticamente, non commercialmente) “De La Soul Is Dead” i Nostri faranno ancora belle cose, rimanendo però confinati in un ambito di genere che agli esordi avevano saputo trascendere. Il paradossale problema sarà esattamente l’abbraccio del pubblico del rock. Di lì la diffidenza dei neri. Di lì il tentativo di emanciparsi dall’immagine floreale e conquistarsi una credibilità stradaiola. Di lì l’accentuazione degli spigoli, l’inturgidirsi dei suoni, il venire meno dell’onirica magia di un debutto che il trascorrere del tempo non ha offeso.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.26, estate 2007.

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Il mio disco preferito dei Fall

Esisterà un felice possessore dell’intero catalogo dei Fall? Trentuno album in studio, altrettanti (!) dal vivo, più cinque registrati parte in studio e parte in concerto, più una quarantina (!!!) di raccolte alcune delle quali tornano comode per recuperare molti dei brani usciti su una miriade di EP e di singoli, ma non tutti. Probabilmente nemmeno Mark E. Smith possedeva l’integrale di Mark E. Smith, anche per via di un rapporto altamente conflittuale (nel contesto di un rapporto altamente conflittuale con il mondo) con l’industria discografica. Per la più parte non approvati dal leader del combo mancuniano i troppi live, idem le antologie. È tutto un po’ “troppo” nell’universo di un gruppo che il cultore numero uno, John Peel, descriveva come “sempre diverso, ma sempre uguale”. Erano i suoi preferiti, tanto che proprio nell’ultima intervista, facendo un bilancio della sua vita inconsapevole di essere in vista del traguardo diceva: “Cascassi morto domani mattina, non potrei lamentarmi di nulla. A parte che mi perderei il nuovo album dei Fall”. Se n’è persi otto.

Io un po’ di più, nel senso che ne ho una dozzina, più la raccolta monstre dei 45 giri per la Rough Trade, e arriverò prossimamente a sfiorare la quindicina con un paio di classici “minori” che, sull’onda dell’emozione per la dipartita del nostro uomo, mi sono affrettato a fermare presso il mio spacciatore di fiducia di vinile usato. I classici “maggiori” (“Live At The Witch Trials”, “Grotesque”, “Code: Selfish”…) li ho già. E poi c’è “Bend Sinister”. Il terzo, massimo il quarto a entrarmi in casa, certamente il primo a venire acquistato in diretta (usciva il 29 settembre 1986), senza nemmeno attendere le recensioni come si usava allora. Per due ragioni. Seconda: contiene una strepitosa cover di uno degli inni del garage USA dei ’60, Mr. Pharmacist degli Other Half. Se possibile più contundente dell’originale. Prima: la foto di Brix al tempo Smith (nata Laura Elisse Salenger) sul retro di copertina. Solo in seguito la visione del videoclip proprio del pezzo in questione me la farà scoprire una normale splendida donna. Sul retro di copertina di “Bend Sinister” è la più incantevole che sia mai esistita. Per me. Era allora nel perfetto mezzo di un matrimonio durato sei anni con Mark E., la bella e la bestia tanto per ossequiare uno stereotipo. Con il senno del poi fu comunque quella un’età aurea per i Fall, cinque dei loro dischi migliori uno dopo l’altro e giusto il congedo dalla band e dal matrimonio di Brix, “I Am Kurious Oranj”, sottotono, un mezzo passo falso. Così, semiunanime, una giurisprudenza che per quanto ho ascoltato, e cioè solamente in questo periodo quasi tutto, mi trova d’accordo a parte che no, non ci sto a considerare “Bend Sinister” l’altro anello debole della catena. Nonostante il produttore John Leckie – che da lì a tre anni firmerà con l’omonimo debutto degli Stones Roses uno dei capolavori di sempre del pop UK – ricordi con orrore il momento in cui Mark E. si presentava in sala con una cassettina che aveva fatto girare all’infinito su un walkman e la richiesta di masterizzare alcune canzoni partendo da lì, pretesa che si vedeva respingere a brutto muso e per una volta trovava uno più testardo di lui. Sarà magari anche a ragione di ciò che in seguito liquiderà l’album sdegnandone la patina psichedelica applicatavi da Leckie. Salvo conservare per trent’anni Mr. Pharmacist fra i pochi brani pressoché immancabili nelle scalette dei concerti.

Ho appena scoperto, mettendo mano a questo pezzo, che il mio “Bend Sinister” in vinile è orbo dei 4’35” di un’undicesima traccia, Living Too Late, e dei 4’51” di una dodicesima, Auto-Tech Pilot, presenti come bonus soltanto nell’edizione in digitale e per inciso era questo il primo album dei Fall a venire pubblicato pure in CD (la cassetta ne offre anche una tredicesima che azzardo pletorica, registrata dal vivo). Me ne cruccio relativamente, giacché mi pare che la chiusa ideale per il disco non possa essere che la ripresa di quella Shoulder Pads che sul primo lato va dietro, sferragliantemente velvetiana, a un’ipotesi di Joy Division primordiali chiamata R.O.D. e alla danza sbilenca di Dktr. Faustus e precede la cover degli Other Half. Prima che Gross Chapel-British Grenadiers suggelli la facciata con i suoi 7’20” diversamente memorabili di ritmica marziale, chitarre acidule e tastiere rarefatte. Shoulder Pads a mio avviso è uno dei brani-simbolo dei Fall epoca Brix: qui si incontrano precisamente a metà via il gusto pop in precedenza inaudito introdotto dalla ragazza e l’enfasi declamatoria di un consorte giustamente sbigottito dalla convivenza forzata con chi “non distingue Doug Yule da Lou Reed”. Ma è l’intero secondo lato a pareggiare gli apici più apici della torrenziale produzione del gruppo, dall’industrial krautfunk di U.S. 80’s-90’s al vertiginoso rimpattino fra il sospeso e il vorticoso di Riddler!, passando per l’abbozzo di punk-beat Terry Waite Sez e una Bournemouth Runner che rolla ossianica, decolla furiosa, atterra sgangherata. E la morale di questa storia è: sempre farsi traviare da due begli occhi e fattezze d’angelo.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.238, marzo 2018.

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Archers Of Loaf – Reason In Decline (Merge)

Una volta “reunion” era una parolaccia, l’ultimo rifugio di musicisti che, avendo assaggiato lo stardom con un gruppo e fallito nel mantenerlo con altri sodali o da solisti, vellicavano la nostalgia di chi era stato giovane quando erano giovani loro. Erano considerate una roba patetica. Ancora suonate rock a… quarant’anni?!? Oggi che anche ai concerti di band di ventenni molti degli astanti hanno il doppio o il triplo degli anni di chi è sul palco nulla è più comune del tentare un secondo o terzo giro per gruppi che al primo magari ebbero successo e fecero la Storia, magari non raccolsero quanto avrebbero meritato e sono poi stati rivalutati, magari avrebbero potuto risparmiarci già il primo. Tuttavia: spesso con esiti sorprendentemente buoni e si potrebbero fare enne esempi.

Al chilometrico elenco si aggiungono gli Archers Of Loaf, da quella Chapel Hill, North Carolina, che nei primi Novanta sistemò sulla mappa del più pregiato indie USA loro e altre due band strepitose quali i Superchunk (mai sciolti) e i Polvo (di nuovo insieme dal 2008). Erano come una versione più rumorosa ma melodicamente al pari insidiosa dei Pavement, gli Archers Of Loaf. Pubblicarono fra il ’93 e il ’98 quattro splendidi album su Alias (a un certo punto li aveva messi nel mirino la Maverick di Madonna, ma non cedettero alle sue lusinghe) e poi ciao. Dopo una manciata di concerti nel 2012 tornano con un lavoro in studio e sono come li si ricordava, eppure sottilmente diversi. Più lirici, più… centrati. Più ascolti pezzi come Saturation And Light (una delle loro cose più pop di sempre), Breaking Even (degli Hüsker Dü in fregola Byrds) o la pianistica War Is Wide Open e meno il pensiero che sia questo il loro disco migliore ti pare blasfemo.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.448, dicembre 2022.

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I migliori album del 2022 (2): The Comet Is Coming – Hyper-Dimensional Expansion Beam (Impulse!)

In un’intervista del 2016 il batterista Max Hallett (Betamax) raccontava così la genesi, tre anni prima, del progetto The Comet Is Coming: “Io e Danalogue the Conqueror (il tastierista Dan Leaves, NdA) avevamo messo insieme un duo psichedelico chiamato Soccer96. Ci esibivamo in giro per Londra e una sera questo spilungone con un sax in mano ci ha raggiunti sul palco. Quando ha attaccato a suonare con noi ha innescato un’esplosione di energia che ci ha lasciato sbalorditi. Un paio di settimane dopo King Shabaka (il sassofonista Shabaka Hutchings, NdA) mi telefona: ‘Facciamo un disco’. Abbiamo prenotato tre giorni in studio e alla fine ci siamo trovati con ore e ore di jam totalmente improvvisate. Da lì è partito un paziente lavoro di ‘taglia e cuci’”. Anticipato l’anno prima dal mini “Prophecy”, tratto dalle medesime sedute, nel 2016 “Channel The Spirits” scoperchiava crani esponendo la passione condivisa dai tre per “Sun Ra, Jimi Hendrix, John e Alice Coltrane, Can, Mahavishnu Orchestra, techno, house, grime e hip hop futurista”. Seguiva una candidatura ai Mercury Prize. Seguivano nel 2017 un altro EP, “Death To The Planet”, e nel 2019 l’accoppiata formata dal secondo album “Trust In The Lifeforce Of The Deep Mystery” e dal mini “The Afterlife”, entrambi già su Impulse!, etichetta assurta alla storia maggiore del jazz dando asilo alle sue avanguardie.

A incidere le basi di “Hyper-Dimensional Expansion Beam” i Nostri hanno impiegato (presso i Real World Studios di Peter Gabriel) un giorno in più di quelli che dedicarono al debutto. Dall’immersione in quanto registrato hanno poi estratto undici tracce pazzesche, sistemando fra la kosmische afro-dance di Code e la collisione fra hard bop e jungle di Mystik di tutto e di più, intervallando a momenti febbrili altri tendenti all’atmosferico nell’ampio iato dal sognante al fosco. Teo Macero avrebbe approvato, Sun Ra pure. Qui, forse, il solo jazz realmente moderno oggi.

Pubblicato per la prima volta in una versione più breve su “Audio Review”, n.447, novembre 2022.

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I migliori album del 2022 (3): Danger Mouse & Black Thought – Cheat Codes (BMG)

Le presentazioni… Oltre che metà dei Gnarls Barkley e musicista in proprio (spesso in coppia con altri: Jemini The Gifted One, Sparklehorse, Daniele Luppi, Karen O), Danger Mouse (newyorkese quarantacinquenne nato Brian Burton) è soprattutto produttore a 360°. CV che include fra gli altri Gorillaz, Rapture, Black Keys, Beck, Norah Jones, John Cale, U2, Adele, Iggy Pop, Michael Kiwanuka, Red Hot Chili Peppers, Parquet Courts. Ventiquattro a oggi le sue candidature in varie vesti e categorie ai Grammy, sei quelli portati a casa. Nel 2009 “Esquire” lo incluse in una lista delle 75 persone più influenti di inizio secolo. Con Black Thought (da Philadelphia, quarantanovenne, nato Tarik Trotter) me la cavo più rapidamente: rapper formidabile e inconfondibile, cofondatore dei Roots e solo superstite con il batterista Questlove della prima formazione, con costoro ha congegnato alcuni dei migliori esempi di hip hop trasversale degli ultimi trent’anni. Classiconi nella storia della black quali “Do You Want More?!!!??!”, “Illadelph Halflife”, “Things Fall Apart”, “Phrenology”…

Resta poco spazio per “Cheat Codes” e di nuovo me la cavo in fretta. Se quest’anno avevate intenzione di comprare un solo disco hip hop, fate che sia questo. Se in casa ne avete venti in tutto, che questo sia il ventunesimo. Dieci? L’undicesimo. Funkissimo, poppissimo, stilosissimo, è un ideale manifesto di tutto ciò che è l’hip hop al suo meglio: riassunto e superamento di quanto accaduto in precedenza nella musica afroamericana, in un costante dialogo con il passato che non si limita a quella (qui in un brano un campionamento dei nostrani Biglietto per l’Inferno!) e capace nel contempo di incidere in ogni senso sul presente. Capolavoro?

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.446, ottobre 2022.

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I migliori album del 2022 (4): Ibibio Sound Machine – Electricity (Merge)

Un’Eno c’entra sempre ma in questo caso (da cui l’apostrofo) trattasi non di Brian bensì di Eno Williams, anglo-nigeriana voce e frontwoman dell’attualmente settetto (completano la formazione un chitarrista, un bassista, un percussionista e tre fiatisti che – ahem – si sdoppiano fra tromba, trombone, sax e sintetizzatori) londinese, giunto con “Electricity” al quarto album: a oggi il più variegato, compiuto, entusiasmante. Impossibile non pensare ai Talking Heads dell’incredibile trittico prodotto giustappunto da Brian Eno fra il ’78 e l’80 ascoltando il vorticoso, implacabile funk Protection From Evil, che lo inaugura. Come una outtake da quel “Remain In Light” che a quarantadue anni dall’uscita suona ancora modernissimo. Laddove più avanti 17 18 19 rimanda piuttosto al disco precedente di Byrne e soci, “Fear Of Music” (fra l’altro contenente una canzone che prima di venire ribattezzata Drugs si intitolava… Electricity), e la più pop Something Will Remember sa smaccatamente di Tom Tom Club.

Grave errore sarebbe però ridurre gli Ibibio Sound Machine (nella ragione sociale un rimando alle origini della cantante: ibibio è una delle lingue che si parlano in Nigeria) a pur talentuosi epigoni. È questo l’approdo di un percorso che li ha visti aggiungere influssi electro (una Truth No Lie da urlo, con bonus di ottoni errebì e chitarrona rock), post-punk e qui pure (in una traccia omonima incrostata anche di dancehall) elementi di dub poetry all’iniziale miscela di afrobeat e highlife (le ultime gemme si chiamano Afo Ken Doko Mien e Oyoyo), disco e drum’n’bass. Per la prima volta si sono affidati a dei produttori esterni, gli Hot Chip (la cui mano si avverte particolarmente in All That You Want), e hanno fatto bene.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.442, maggio 2022.

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I migliori album del 2022 (6): King Hannah – I’m Not Sorry, I Was Just Being Me (City Slang)

Che bello potersi entusiasmare per un semi-esordio (pubblicato nel dicembre 2020, con i suoi sei brani per complessivi trenta minuti “Tell Me Your Mind And I’ll Tell You Mine” in altri decenni sarebbe stato considerato debutto in lungo) quale è questo dei King Hannah, duo domiciliato a Liverpool formato dalla cantante e chitarrista gallese Hannah Merrick e dal chitarrista Craig Whittle. È che trasmette una freschezza che sconfina nell’innocenza che inevitabilmente intenerisce. È che la scaletta è benissimo congegnata, con due interludi che sono in realtà introduzioni ai brani in cui sfumano e le dieci canzoni vere che lo compongono che alternano sapientemente atmosfere ed emozioni creando un fluire armonioso. Spostane una e non è che verrebbe giù tutto ma ecco, pur restando un ottimo album “I’m Not Sorry, I Was Just Being Me” non sembrerebbe più il piccolo miracolo che è. Giacché i dettagli sono parte integrante della grandezza. Sempre.

A non essere un dettaglio è come mettendo a nudo i loro cuori ragazza e ragazzo risultino disarmanti anche per il più cinico dei navigatori di lungo corso dei mari del pop. Il che fa sì che l’elenco delle influenze non si trasformi nel solito argomento del “tutto già sentito”. Perché no, perché persino nell’omaggio smaccato ai Portishead di “Dummy” di Foolius Caesar i King Hannah riescono a essere unici. Lo sono a maggior ragione quando squadernano il blocchetto degli appunti: distillando doom dalla prima PJ Harvey in A Well Made Woman, evocando lo Springsteen devoto ai Suicide in Big Big Baby, gettando un ponte fra il Neil Young di On The Beach e quello di Cortez The Killer in The Moods That I Get In, giocando nella traccia omonima lui a far Nick Cave, lei Kylie Minogue.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.441, aprile 2022.

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