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Sommersi da salvare – Il peculiare heavy rock dei primi King’s X

Metti che il tuo esordio non vada via come il pane (piazzamento migliore nella classifica di “Billboard” un numero 144: poca cosa pure in un’era in cui i dischi si vendevano eccome, altro che streaming) e che però venga eletto “album dell’anno” da “Kerrang!”, testata di riferimento per ogni metallaro del globo terracqueo. Metti che il seguito si comporti un po’ meglio commercialmente (negli USA un numero 123, cinquantaduesimo nel Regno Unito) senza per questo farti perdere i favori della critica (quarta migliore uscita per il giornale sunnominato e nelle playlist di innumerevoli altre riviste, inclusa una non strettamente di settore come “Sounds”). Metti che il disco dopo ancora allarghi la tua platea al punto di persuadere la major che fino ad allora si era limitata a distribuirti a ingaggiarti direttamente. E metti che giusto sul finire dell’anno di pausa che ti sei concesso una certa concezione e tradizione del rock “pesante” cui, pur vantando un sound di rimarchevole peculiarità, indubbiamente appartieni vengano spazzate via da una rivoluzione chiamata grunge, nel mentre pure il crossover sale sugli scudi e impazza. Nel mondo nuovo disegnato a cavallo fra il ’91 e il ’92 da “Nevermind”, “Ten”, “Badmotorfinger”, “Blood Sugar Sex Magik” (ma pure dal Doppio Nero dei Metallica) improvvisamente sei diventato obsoleto. Potresti in realtà ricavarti egualmente una tua nicchia, ma sei intellettualmente troppo onesto per corteggiare quel mercato particolarissimo, di cui molti ignorano persino l’esistenza ma che dà da vivere a tanti: quello del cosiddetto – gigantesca contraddizione in termini – christian rock. Ed ecco perché i King’s X non sono mai diventati “gli Stryper che vale la pena ascoltare”.

Lo ammetto: benché sia stato un loro cultore della prim’ora ignoravo che i King’s X fossero… siano ancora insieme e oltretutto nella formazione – Ty Tabor alla chitarra, Doug Pinnick al basso e nella maggior parte dei pezzi voce solista, Jerry Gaskill alla batteria – schierata nei dischi di una breve era semi-aurea e già rodatissima allora, visto che i tre nascevano come The Edge a Springfield, Missouri, addirittura nel 1979 e diventavano Sneak Preview quando quattro anni più tardi si trasferivano in Texas (sono rimasti lì), ragione sociale con la quale nell’84 pubblicavano  un omonimo 33 giri mai ristampato e che le rare volte che fa capolino su Discogs strappa dai duecento euro in su. Un po’ colpa loro: pubblicato lo scorso 2 settembre il loro tredicesimo lavoro in studio ha visto la luce a qualcosa come quattordici anni dal dodicesimo. Un po’ di più colpa mia ma pure sempre loro, giacché il debutto su Atlantic del ’92, omonimo, dei loro primi quattro album è nettamente il meno convincente e già “Faith Hope Love”, del ’90, li aveva visti in flessione rispetto ai primi due LP. Smettevo di seguirli e chissà se mi sono perso qualcosa. In compenso, fatti girare a decenni dall’ultima volta “Out Of The Silent Planet” e “Gretchen Goes To Nebraska”, usciti in origine entrambi su Megaforce rispettivamente nel febbraio 1988 e nel maggio 1989, mi sono sembrati belli come allora, non invecchiati affatto perché fuori dal tempo, appartenenti a una dimensione unicamente loro. Assolutamente da recuperare per chi non li conosce, da rispolverare per chi li ha in casa. Il primo è stato ristampato una sola volta, dalla Metal Blade nel 2017 e in formato doppio 12”, benché non duri che 43’32”. Non faticherete tuttavia a recuperarne una copia d’epoca e non dovreste pagarla più di venticinque-trenta euro (ma anche soltanto dieci su una bancarella dell’usato). Soldi in ogni caso ben spesi. Concept alquanto sui generis di argomento fantascientifico (il titolo omaggia un romanzo di C.S. Lewis), sistema in apertura un capolavoro di raga in scia ai Popol Vuh etnici che trasmuta in hard del più epico chiamato In The New Age e da lì a una Visions che suggella adombrando un thrash di impronta Voivod non smette mai di stupire: ad esempio innestando un riff degno degli AC/DC in una With A Hammer che, non contenta di mediare fra psichedelia e progressive, cala sul tavolo pure l’asso di una coralità gospel; con What Is This?, che indifferentemente farebbe un figurone nel catalogo dei Cream come in quello dei Guns N’Roses; con Shot Of Love, che sono dei Black Sabbath ossessionati dai Beatles. Sono cinque brani su dieci, mezzo programma, e non fosse che lo spazio va assottigliandosi li avrei citati tutti. Concept dalle origini meno nobili (un racconto scritto da Gaskill) ma narrativamente più coeso, il seguito vedrà i nostri eroi incredibilmente superarsi, aprendo nuovamente con un raga (la continuità rispetto al predecessore rimarcata dal fatto che come quello si intitola: Out Of The Silent Planet) e piazzando nel prosieguo meraviglie come Over My Head (i Queen alle prese con Jimi Hendrix), Everybody Knows A Little Bit Of Something (funk-metal da Living Colour al top), The Difference (quasi una outtake dell’immortale David Crosby di “If I Could Only Remember My Name”), Mission (novella Tales Of Brave Ulysses), Pleiades (bluesata e jangly) e The Burning Down (cavalcata hardelica fra l’onirico e il marziale). “Gretchen Goes To Nebraska” è stato appena riedito, su quattro facciate invece di due per incrementare la dinamica dei suoi 51’58”, dalla Music For Vinyl, in tiratura limitata e al prezzo onesto per il folle mercato odierno di quaranta euro. Regolatevi.

Un argomento è rimasto in sospeso. Al tempo si sapeva i King’s X ferventi cristiani ma si apprezzava il loro vivere la fede senza darsi al proselitismo e anzi in maniera problematica: da cui, ad esempio, il duro attacco ai telepredicatori in Mission e l’omaggio a Galileo Galilei in Pleiades. Avendo sempre esternato il dubbio che fra quanti la proclamano stentoreamente (tipo gli Stryper, ecco) molti lo facciano con vili secondi fini, dalla scena christian rock venivano da subito guardati con sospetto. Ne subiranno la scomunica quando nel ’98 Pinnick farà coming out. Oggi costui si dice agnostico e Gaskill lo stesso. Solamente Tabor pare frequenti ancora la chiesa, ma conservando per i bigotti del sano disprezzo.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.454, giugno/luglio 2023.

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I migliori album del 2023 (7): Squid – O Monolith (Warp)

È una distanza che non si misura in chilometri quella dalla sala d’incisione di Dan Carey, produttore dei primi black midi come dei Geese e dell’intera discografia dei Fontaines D.C., ricavata a Londra da un ufficio postale, ai Real World Studios di Peter Gabriel, che dal 1989 (nessuno degli Squid era ancora nato) rappresentano lo stato dell’arte della registrazione e occupano una quantità spropositata di spazio nella campagna dello Wiltshire. Forti del riscontro commerciale (un numero 4 UK) oltre che di critica ottenuto nel 2021 da “Bright Green Field” il cantante e batterista Ollie Judge, i chitarristi Louis Borlase e Anton Pearson, il tastierista e violinista Arthur Leadbetter e il bassista e trombettista Laurie Nankivell hanno persuaso la Warp a pagare un conto ovviamente più salato, Carey a lavorare fuori dalla sua comfort zone. Ne è valsa la pena, per quanto le vendite si segnalino in immeritato calo.

È una distanza che non si misura in anni quella che separa “O Monolith” (titolo invero fuorviante) dal predecessore e dire che i ragazzi ci mettevano mano appena terminato il tour di quello. Da un post-punk pur peculiare nell’ambito di una scena che va invecchiando in fretta si passa a ciò che non si può che definire progressive, a patto di aver chiaro che è tutta questione di attitudine e zero di revival. Qui i Talk Talk più bucolici si fondono con i King Crimson più esagitati (Devil’s Den), i Pink Floyd di “Atom Heart Mother” vengono presi in ostaggio dai black midi di “Schlagenheim” (Siphon Song), i Devo collidono coi Defunkt (Undergrowth), i Radiohead vanno a lezione dai This Heat (The Blades). Stupefacente. E ancora non siete arrivati all’impressionistico, meditativo gran finale (“If You Had Seen The Bull’s…”).

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.456, settembre 2023.

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Area – Spartiti per il proletariato elettrico

Chiedi chi erano gli Area e potrei cominciare a risponderti usando parole non mie, quelle con le quali nel numero del 14 aprile 1974 di “Ciao 2001” Renato Marengo raccontava il gran finale del concerto di presentazione, al Teatro Quartiere di Milano, del secondo 33 giri del quintetto. Come il disco lo spettacolo si chiudeva con Lobotomia ed ecco: “Gli Area scendono in mezzo al pubblico, o ‘individuano’ gli spettatori, restando sul palco, con dei faretti, delle pile con le quali rompono l’incognita della situazione tradizionale: spettatore, nascosto nel suo posto, al buio, che dal suo angolo applaude, fischia, protesta o acconsente, che comunque è in una situazione diversa da chi opera sul palco. Rendendo così protagonista-partecipe al concerto lo spettatore stesso, lobotomizzato dalla musica ad altissimo volume del brano, che reagisce nei modi più disparati: o inveendo contro l’indiscreto fascio di luce che rompe la sua anonimia, che mette ‘in luce’ i suoi complessi; o inventando un gesto o comunque una reazione; o ostentando indifferenza, e così via”.

Chiedi chi erano gli Area e potrei rimandarti a un filmato che eterna la loro esecuzione de L’Internazionale al festival organizzato, sempre a Milano, il 14 giugno 1979 per raccogliere fondi per pagare le cure di Demetrio Stratos. Cittadino del mondo fino all’ultimo, il cantante era morto a New York il giorno prima e si può immaginare con quale spirito i compagni di tante avventure si ritrovarono ad affrontare la ribalta. Assai poco hendrixiano rispetto alla lettura da disco e di cento e cento altri spettacoli, l’inno socialista si dipana marziale e con un che, al di là di ogni suggestione, di luttuoso. Sul subito pare allora singolarmente incongruo, su quel palco caratterizzato dalla presenza di un’assenza, che sulla faccia del tastierista Patrizio Fariselli si stampi a un certo punto un sorriso. Forse si è fatto prendere, nonostante tutto, dal piacere della musica. Oppure gli è tornato alla memoria qualche momento felice. O magari quel frammento di Menandro celebre grazie a Leopardi che recita che “muor giovane colui ch’al cielo è caro”. “Hon oi theoi philusin apothn_skei neos”, per dirla nella lingua madre di quella madre di Efstratios Demetriou.

Chiedi chi erano gli Area e potrei tirare fuori dei fogli timbrati da una Procura della Repubblica nei quali, al punto h, si accusano “Capiozzo Giulio, Dalla Porta Paolino e Fariselli Patrizio” di avere “in concorso tra loro ed in qualità di componenti del gruppo musicale ‘Area’ con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso ed in tempi diversi all’interno del luogo aperto al pubblico denominato ‘Centro Sociale Leoncavallo’” tenuto “un pubblico spettacolo senza avere previamente ottenuto la prescritta licenza”. Qualche riga più giù si precisa e rincara: “in concorso tra loro con le qualità e la condotta e nel luogo descritti al capo h) dell’imputazione abusavano di strumenti musicali e cagionavano delle emissioni rumorose intollerabili e in tempo di notte disturbavano il riposo e le occupazioni delle persone abitanti negli immobili vicini… Fatti commessi in Milano il 17 e 18 gennaio 1997”. Abusavano di strumenti musicali.

Chiedi chi erano gli Area e io adesso proverò, indegnamente, a raccontarlo.

Prosegue per altre 40.273 battute su Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.34, estate 2010.

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(Hats Off To) Roy Harper

I Led Zeppelin lo omaggiarono con un pezzo nel loro terzo LP. I Pink Floyd lo invitarono a cantare in “Wish You Were Here”. Paul McCartney è ospite nel brano con il quale rischiò di divenire famoso davvero. Più recentemente, Joanna Newsom lo ha imposto come ospite in un suo tour. Ma chi è Roy Harper e perché tutti quanti dovremmo toglierci il cappello dinnanzi a lui?

Metto mano a queste due paginette proprio mentre i giornali inglesi – no, non la stampa specializzata: i quotidiani – si riempiono di recensioni come minimo riverenti e in qualche caso estatiche di un concerto con il quale, alla londinese Royal Festival Hall, Harper ha festeggiato un compleanno importante, il settantesimo. Con un certo ritardo (gli anni li ha in effetti compiuti lo scorso 12 giugno), con alle viste una ristampa integrale (curata personalmente e per un’etichetta di sua proprietà) di tutto il catalogo storico ed essendo già stato ampiamente celebrato negli ultimi mesi con modalità anche eclatanti. Ad esempio: in copertina sul numero di luglio di “The Wire” e dentro un articolo-intervista di otto pagine che, oltre a ricostruirne la vicenda biografica e artistica, ne sottolinea l’attualità in anni in cui di folk più o meno weird si è discettato tantissimo. Non sempre degni della sua lezione gli innumerevoli figli putativi (quello vero, Nick, lo è eccome) e nondimeno apprezzabili per la buona volontà che ci mettono, per l’entusiasmo. In fondo, mica colpa loro se la vita l’hanno appresa dai dischi e non dalla vita stessa.

Cerco di cavarmela in fretta per raccontare come mai il nostro eroe arrivi così tardi per l’epoca, già venticinquenne, a pubblicare il primo disco. Ha vissuto un casino. Orfano di madre da neonato, ossessionato da una matrigna testimone di Geova (ne ricaverà uno spregio assoluto per la religione), ribelle che, quindicenne, ha scritto in vernice rossa sul muro di una chiesa che sarà “hungry forever” e per questo ha rischiato il riformatorio. Un’insegnante gli ha fatto conoscere i poeti romantici, un teppista la letteratura beat e le droghe e da questa scoperta, quell’altra e quell’altra ancora non si riprenderà mai, per fortuna. Arruolatosi nella RAF per sfuggire famiglia e suburbia, suona skiffle, tira di boxe e poi decide che il servizio militare non fa per lui e per farsi congedare si finge matto. Lo rinchiudono in un ospedale psichiatrico e matto per poco non lo diventa sul serio, ma la sfanga. Passa anni picareschi, fra criminalità spicciola, brevi soggiorni nelle patrie galere, lunghi vagabondaggi europei. Dalla Danimarca lo espellono per spaccio di stupefacenti ma non prima che abbia fatto amicizia con Albert Ayler. Il 1965 lo sorprende a Londra. Hanno da poco aperto un folk club chiamato Les Cousins. Lui comincia suonando tre canzoni ogni sera e finisce che presto ha una sera tutta sua. Altri che calcano quel palcoscenico: Davey Graham, Bert Jansch, Paul Simon, Tom Rush, Dave Van Ronk, Jackson C. Frank, una appena costituitasi Incredible String Band. Il folk sta diventando una cosa decisamente “altra” e questo in “Sophisticated Beggar”, esordio a 33 giri che vede la luce nel ’66 per la minuscola Strike, ben si coglie e non soltanto in quel paio di brani elettrici e con un gruppo (non accreditato vi suona tal Ritchie Blackmore) che facilmente potrebbero confondersi in qualunque raccolta psych del tempo.

Prosegue per altre 4.195 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.689, dicembre 2011. Roy Harper compie oggi ottantadue anni.

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Il brutal prog dei Magma

È mai esistita una band più “di culto” dei Magma? Questione non solo di numeri, per quanto siano sempre stati modesti tolto il quinquennio inaugurato dalla pubblicazione dell’album, che era il terzo in studio e vedeva la luce nel 1973, riguardo al quale fra gli esegeti si registra una quasi unanimità di consensi: il loro capolavoro. È che il gruppo fondato nel 1969 dal batterista Christian Vander e tuttora attivo (conta poco con quale formazione incida o suoni dal vivo, essendo passati da quelle parti nei decenni e sin dall’inizio della sua storia musicisti a decine; se ci sono Christian e la ex-moglie Stella sono i Magma: punto) non soltanto si inventò un mondo alternativo, in questo simile a illustri alieni afroamericani quali Sun Ra e George Clinton, ma addirittura creò una lingua sua propria (da cui l’unicità) per raccontare le vicende là ambientate. Ed è immaginabile culto più devoto di quello i cui adepti studiandone i testi ─ impenetrabili e nondimeno puntualmente riportati nelle confezioni dei dischi ─ sono riusciti a ricostruire una grammatica, un vocabolario? E questo benché Vander, che dice il linguaggio kobaïano “puramente fonetico, con assonanze con vari idiomi slavi e germanici” ammonisca che, sebbene sia costruzione dotata di senso e regole, risulta non traducibile “parola per parola”. Tant’è.

Dal lontano 2003 sono fra i responsabili di questa rubrica e forse mai lo spazio pur ampio di un’intera pagina mi era parso così insufficiente allo scopo che si prefigge, che è quello di tracciare per tramite di uno o più LP da poco riediti un ritratto bastantemente preciso dell’opera di un solista o una band, idealmente istigando il lettore a non fermarsi a quello o a quegli. Devo correre. Ci provo. Nato a Parigi il 21 febbraio 1948, Christian Vander è figlio d’arte ma adottivo e ad adottarlo è stato Maurice Vanderschueren, pianista jazz di gran livello e fama. È un padre giovanissimo (è del 1929), radici ben salde nella tradizione del genere (ha suonato con Djiango Reinhardt) ma svelto ad abbracciare il bebop e le sue evoluzioni (si ritrovava così a fiancheggiare Kenny Clarke e Johnny Griffin) a trasmettere al ragazzo la passione per la musica. Christian come strumento non sceglie però né quello paterno né il sax dell’idolo John Coltrane e non è jazz bensì rhythm’n’blues lo stile che pratica con i primi complessini amatoriali. Lo affascinano poi sia la musica classica che un rock che si va facendo adulto proprio nel mentre pure lui entra nella maggiore età. A giudicare dalla ragione sociale del primo gruppo serio cui dà vita ─ Uniweria Zekt Magma Composedra Arguezdra: per fortuna quasi subito abbreviata come sapete ─ probabile abbia già in testa l’idea meravigliosa di una musica che superi in audacia la psichedelia dominante e il progressive incombente, fondendoli e nel contempo infondendovi elementi sia di jazz che della tradizione colta (né gli è estranea una certa temperie avanguardistica) europea. I tempi sono quelli che sono: aperti. La Philips ingaggia Vander e sodali per due album e quando a fronte di vendite insoddisfacenti non rinnoverà il contratto il dipartimento francese della Vertigo provvederà prontamente a rilevarlo. In “Magma” (1970) e “1001° centigrades” (’71), il nostro uomo comincia a narrare la saga che ha portato ai giorni nostri di un gruppo di terrestri che, in fuga da un pianeta reso invivibile da una catastrofe ecologica, ne scopre e raggiunge uno abitabile ma disabitato in una lontana galassia. Il novello eden non sarà più tale quando, generazioni dopo, altri coloni atterreranno su Kobaïa e fatalmente fra loro e i discendenti dei primi incomprensioni e contrasti sfoceranno presto in guerra aperta, siccome il sostantivo “paradiso” e l’aggettivo “terrestre” giusto nella Bibbia possono stare insieme e per qualche pagina appena prima che finisca male. Sono dischi di freschezza e spessore apprezzabili ma non originalissimi, in particolare un debutto di derivazione zappiana laddove il seguito se nella seconda facciata si limita a echeggiare i coevi Soft Machine jazz-rock nella prima adombra invece la rivoluzione che incombe con bruschi cambi di tempo e una densità strumentale inaudita. È qui che inizia a prendere forma un canone di cui qualcuno darà molto dopo una definizione geniale quanto, al suo meglio, il peculiarissimo sound della band: brutal prog. In negativo: c’è già l’enfasi tipica dei Magma, non ancora la fluidità. In positivo: in spartiti notevolmente complicati, nemmeno un sospetto di virtuosismo fine a se stesso. Da lì a due anni “Mekanïk Destruktïẁ Kommandöh” rappresenterà salto quantico, con le sue sette tracce che sfumano una nell’altra con afflato nel contempo liturgico in forza di un onnipresente coro chiaramente devozionale ─ il modello non potrebbe essere più lontano dal gospel: il Carl Orff dei Carmina Burana ─ e wagneriano. Si può provare a descriverlo con un ossimoro: un muro di suono in moto perpetuo, sospinto da un motore i cui ingranaggi sono costituiti da fanfare di ottoni e una ritmica implacabile, voci dal solenne al guizzante e chitarre scintillanti, pianoforti in loop e punteggiature e lamate d’organo, fra saliscendi vertiginosi, intrecci foschi di bordoni e brevi (r)accordi estatici. Da simili apici olimpicamente ultramondani non si potrà che scendere ma lo si farà con intelligenza, avendo inteso come replicare tale e quale sarebbe non soltanto impossibile ma insensato. Nemmeno nel successivo (1974; a separare i due dischi la colonna sonora “Ẁurdah Ïtah”, formalmente debutto da solista del leader) “Köhntarkösz” si proverà a offrire copia conforme, conservando l’effetto da trance ma smussando gli spigoli e alleggerendo le atmosfere.

Quasi in contemporanea con l’uscita di questo numero di “AR” l’olandese Music On Vinyl riporterà nei negozi proprio “Köhntarkösz”. La stessa etichetta ha già provveduto in febbraio a rimettere in circolazione il predecessore in una tiratura limitata a duemila copie numerate con copertina apribile e rifinita in lamina di rame. Buona cosa che non per questo il prezzo sia esoso, anzi. Pessima che pure il vinile sia colorato, moda deleteria cui pure i marchi più seri si stanno sciaguratamente piegando.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.442, maggio 2022.

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I migliori album del 2022 (1): Black Country, New Road – Ants From Up There (Ninja Tune) / black midi – Hellfire (Rough Trade)

Prossimi non solo in un’ideale libreria sistemata in ordine alfabetico i Black Country, New Road e i black midi: per chi scrive i due gruppi più notevoli espressi finora dal rock britannico dell’attuale decennio. Li accomunano reciproca stima, l’abitare territori musicalmente contigui, l’essere tutti giovanissimi, dallo scorso autunno una campagna concertistica americana che ha visto curiosamente i primi fare da spalla ai secondi nonostante vendano molto di più e, da ormai un anno, sfortunatamente pure questo: che mentre i black midi avevano perso il chitarrista Matt Kwasniewski-Kelvin appena prima di registrare il secondo album i Black Country, New Road annunciavano l’addio del cantante e chitarrista Isaac Wood il 31 gennaio, vale a dire quattro giorni prima che “Ants From Up There” raggiungesse i negozi e subito volasse al numero 3 della classifica UK, migliorando di una posizione il piazzamento dell’esordio “For The First Time”. Defezione dovuta incredibilmente alle stesse ragioni (problemi di salute mentale) ma presumibilmente destinata a pesare di più, visto che della band autorialmente e per la voce riconoscibilissima costui era il fulcro. Delittuoso sarebbe però se il pensiero che questo potrebbe essere un congedo (anche no, visto che nel tour negli USA hanno suonato solo brani inediti e nulla ─ nulla! ─ dai due album con Wood) ne sciupasse l’ascolto. Se non facesse godere fino in fondo di un disco di una bellezza abbagliante nelle cui dieci tracce (ma la prima è una breve Intro) per complessivi 58’46” un post-rock senza quasi rapporti con il post-punk si muove fra folk (il klezmer un’influenza vistosa) e minimalismo, progressive (versante Canterbury) e chamber pop. Ci troverete dentro i primi Arcade Fire e Arthur Russell, i Neutral Milk Hotel e Michael Nyman, Steve Reich, i Caravan, gli Slint. Cla-mo-ro-so.

Il 19 luglio 2022 a Londra il termometro ha segnato 40.3°, la temperatura più alta mai registrata da quelle parti. Un incubo per tutti fuorché i black midi, che quando decisero di chiamare il terzo album “Hellfire” non potevano certo immaginare che quattro giorni dopo una pubblicazione involontariamente tempestiva i quotidiani avrebbero titolato a proposito dell’ondata di caldo che ha colpito il Regno Unito come il resto d’Europa usando proprio quella parola: “Hellfire”. Di tale pubblicità gratuita hanno approfittato affittando un furgone e girando per la capitale britannica vendendo oltre al disco e al relativo merchandising… gelati. Di un sense of humour formidabile quanto la maestria tecnica dei Fantastici Tre e non più Quattro danno d’altronde testimonianza, e non per la prima volta, anche i crediti del disco, laddove Geordie Greep, Cameron Picton e Morgan Simpson satirizzano il vecchio prog, loro che sono ormai considerati i massimi alfieri di uno nuovo sul serio, attribuendosi rispettivamente trentatré, trentatré e ventisei diversi strumenti. Parecchi invero improbabili. Elencano in qualità di turnisti settantaquattro nomi, venticinque dei quali si sarebbero prestati nel terzo di dieci brani, Eat Men Eat, a produrre “burps”, “rutti”. Qualcuno ha detto “Frank Zappa”? A riascoltarli è un’influenza che, sebbene in misura minore, si coglie pure in predecessori ─ “Schlagenheim” (2019) e “Cavalcade” (2021) ─ per i quali sono stati chiamati in causa King Crimson, Van Der Graaf Generator, Scott Walker, Gang Of Four, Wire, Fall, P.I.L., Pere Ubu, Sonic Youth, Butthole Surfers, Primus, Shellac, June Of 44, Battles. Se volete a questo giro aggiungete Captain Beefheart e Naked City. Non cambierà, tirando le somme, il risultato: nessuno ha mai suonato così. Nessuno.

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Misunderstood (per Tony Hill)

Uno dei più grandi chitarristi della storia del rock se n’è andato venerdì scorso nell’indifferenza generale. Non un articolo, non un trafiletto a ricordarlo. Giusto qualche post su Facebook.

The Misunderstood Before The Dream Faded (Cherry Red, 1982; antologia)

Una delle mille ragioni che abbiamo per idolatrare John Peel è questa: senza di lui i Misunderstood avrebbero avuto ancora meno della poca fortuna che ebbero e si sarebbero forse persi senza lasciare traccia alcuna. Era il 1966 quando le strade del gruppo e del dj (che non aveva ancora assunto il nome d’arte con il quale diverrà celebre e dunque girava come John Ravenscroft) si incrociavano. Acceso di sacro fuoco dalla ultraelettrica (con tanto di feedback come nei ’60 oseranno giusto i Velvet) e acidissima interpretazione del blues inscenata dai nostri eroi, Peel li convinceva a trasferirsi dalla California a Londra e tanto brigava che la Fontana si interessava a loro. Veniva registrato un demo con sei brani, due uscivano a 45 giri (il secondo per l’ensemble dopo uno pubblicato in patria) e i Misundestood – presenza scenica micidiale – divenivano dei beniamini del pubblico del Marquee. Attimo fuggente dopo il quale tutto andrà a ramengo. Restano due album postumi (il secondo è “Golden Glass”, uno Stood Still dell’84) a documentarne la grandezza ammannendo martellamenti selvaggi (Children Of The Sun, la feroce My Mind, una I’m Not Talking degna di Beefheart), spastiche dilatazioni (Who Do You Love) e ogni tanto un incantesimo alato (I Can’t Take You To The Sun) o uno scherzo (il gioioso beat Like I Do).

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.15, autunno 2004.

High Tide Sea Shanties (Liberty, 1969)

Immancabilmente citati fra i padri fondatori dell’hard come fra i massimi esponenti di una psichedelia disposta a farsi laterale rispetto al suo stesso essere – costituzionalmente – eccentrica, i britannici High Tide del cantante e chitarrista Tony Hill e del violinista Simon House altrettanto sacrosantamente finiscono per figurare in ogni trattazione che si rispetti del progressive. Questione oltre che di suono – compatto eppure articolato, in qualche inspiegabile maniera gradevole una volta violatane l’apparente impenetrabilità – di attitudine, di disponibilità a osare quanto all’epoca era inaudito e che di rado sarà replicato con efficacia e intensità paragonabili. “Sea Shanties” e il successivo di un anno “High Tide” restano fra gli esempi più memorabili di sempre di gotico in musica.

Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.

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black midi – Hellfire (Rough Trade)

Lo scorso 19 luglio a Londra il termometro ha segnato 40.3°, la temperatura più alta mai registrata da quelle parti. Un incubo per tutti fuorché i black midi, che quando decisero di chiamare il terzo album “Hellfire” non potevano certo immaginare che quattro giorni dopo una pubblicazione incredibilmente quanto involontariamente tempestiva i quotidiani avrebbero titolato a proposito dell’ondata di caldo che ha colpito il Regno Unito come il resto d’Europa usando proprio quella parola: “Hellfire”. Di tale pubblicità gratuita hanno approfittato affittando un furgone e girando per la capitale britannica vendendo oltre al disco e al relativo merchandising… gelati. Di un sense of humour formidabile quanto la maestria tecnica dei nostri giovani eroi danno d’altronde testimonianza (non per la prima volta) anche i crediti del disco, laddove Geordie Greep, Cameron Picton e Morgan Simpson satirizzano il vecchio prog, loro che sono ormai considerati i massimi alfieri di uno nuovo sul serio, attribuendosi rispettivamente trentatré, trentatré e ventisei diversi strumenti. Parecchi invero improbabili. Elencano in qualità di turnisti settantaquattro nomi, venticinque dei quali si sarebbero prestati nella terza di dieci tracce, Eat Men Eat, a produrre “burps”, “rutti”. Qualcuno ha detto “Frank Zappa”?

A riascoltarli, è un’influenza che sebbene in misura minore si coglie pure in predecessori per i quali sono stati chiamati in causa King Crimson, VDGG, Scott Walker, Gang Of Four, Wire, Fall, P.I.L., Pere Ubu, Sonic Youth, Butthole Surfers, Primus, Slint, Shellac, June Of 44, Battles. Se volete a questo giro aggiungete Captain Beefheart e Naked City. Non cambierà, tirando le somme, il risultato: nessuno ha mai suonato così. Nessuno.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.445, settembre 2022.

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Black Country, New Road – Ants From Up There (Ninja Tune)

Prossimi non solo in un’ideale libreria sistemata in ordine alfabetico per autore i Black Country, New Road e i black midi: per chi scrive i due gruppi più notevoli espressi dal rock britannico all’incrocio fra lo scorso e il nuovo decennio. Li accomunano reciproca stima, l’abitare territori musicalmente contigui (in “Cavalcade”, l’ultimo black midi, un paio di brani che potrebbero confondersi in “Ants From Up There”), l’essere tutti giovanissimi, l’avere gli uni e gli altri due lavori in studio all’attivo e ora sfortunatamente anche questo: che mentre i black midi perdevano il chitarrista Matt Kwasniewski-Kelvin appena prima di registrare il secondo album i Black Country, New Road hanno annunciato l’addio del cantante e chitarrista Isaac Wood quattro giorni prima che “Ants From Up There” raggiungesse i negozi e subito volasse, migliorando di una posizione il piazzamento di “For The First Time”, al numero 3 della classifica UK. Defezione dovuta incredibilmente alle stesse ragioni (problemi di salute mentale) ma purtroppo destinata a pesare molto di più, visto che della band, autorialmente e per la voce riconoscibilissima, Wood era il fulcro.

Ulteriormente delittuoso sarebbe però se il pensiero che questo potrebbe essere un prematuro congedo ne sciupasse l’ascolto. Se non facesse godere fino in fondo di un disco di una bellezza abbagliante nelle cui dieci tracce (ma la prima è una breve Intro) per complessivi 58’46” un post-rock senza quasi rapporti con il post-punk si muove fra folk (il klezmer un’influenza vistosa) e minimalismo, progressive (versante Canterbury) e chamber pop. Ci troverete dentro i primi Arcade Fire e Arthur Russell, i Neutral Milk Hotel e Michael Nyman, Steve Reich, i Caravan, gli Slint. Cla-mo-ro-so.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.440, marzo 2022.

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I migliori album del 2021 (1): black midi – Cavalcade (Rough Trade)

Lo avevano promesso quando “Schlagenheim” – uno dei più eccitanti debutti degli anni ’10: capolavoro fatto e finito, altro che “acerbo ma promettente” come da cliché sovente sono pure gli esordi migliori – era nei negozi da pochi giorni: tempo due anni e saremo tutta un’altra cosa. Hanno mantenuto, con il paradossale esito che mentre l’universo mondo si spellava le mani applaudendolo (l’album era acclamato come uno dei dieci migliori del 2019 da “Mojo” come da “The Quietus” e dal “New York Times”) e loro se ne dichiaravano viceversa già insoddisfatti il successore è piaciuto agli autori, al sottoscritto e a ben pochi altri, recensioni in verità mediamente alquanto positive seguite però da una subitanea svalutazione e dalla peggiore delle condanne: l’oblio. È finito in pochissime liste di fine anno e quanto al pubblico, e al netto di un’ingenuità che ha impedito che venissero conteggiate le copie vendute dell’edizione in vinile nero, un numero 64 nella classifica UK. Come dire il nulla nell’anno in cui gli amici (ma amici sul serio e genuini estimatori: vagheggiano di incidere prima o poi qualcosa tutti assieme) Black Country, New Road andavano con “For The First Time” al numero 4. Un disastro, un suicidio. Un trionfo, artisticamente.

La grande differenza fra il primo e il secondo black midi sta nel manico. Quello nasceva in studio come frutto di jam furiose cui solo l’eccezionale valenza di strumentisti dei quattro ragazzi e un’intesa telepatica impediva di deragliare. Questo i tre (vittima nel frattempo di un esaurimento nervoso, il chitarrista Matt Kwasniewski-Kelvin ha offerto un apporto alle fasi preparatorie ma non ha poi partecipato alle registrazioni e chissà se tornerà in squadra o lo abbiamo già perso) lo hanno scrupolosamente pianificato, facendosi poi dare una mano in sala di incisione da un tastierista e da un sassofonista che li avevano affiancati in tour. Al tempo dell’uscita annotai che rispetto a “Schlagenheim” più che superiore “Cavalcade” è diverso. Molti ascolti dopo mi scopro completamente d’accordo con me stesso a metà: diverso sì, superiore anche. Se il predecessore era un ossimoro di monolite perennemente cangiante il seguito può essere detto una suite e d’altronde “progressive” non è mai stato una parolaccia applicato a questo gruppo essendo i referenti nell’ambito i più nobili: i King Crimson da subito, i Van Der Graaf Generator soprattutto ora che c’è pure un sax. Un filo nero tutt’altro che invisibile lega una Intro minimale (aggettivo che mai si sarebbe pensato di potere accostare ai Londinesi), sinuosa e rombante alla conclusiva Ascending Forth, gemma abbacinante e insieme oscura (altra congiura di opposti) di avant-folk in transito dal pacificato al solenne e per il tempo di qualche battuta un valzer, addirittura. Fungono da fantasmagorico tramite una John L che nel titolo cita gli Ash Ra Tempel o i P.I.L., o entrambi, e nello spartito si inventa (immagina, puoi) dei Fall non digiuni di fusion, la ballata elettroacustica pregna di jazz Marlene Dietrich, una Chondromalacia Patella (mi viene in soccorso Wikipedia: è un’infiammazione delle cartilagini del ginocchio) ipotesi di Primus con Robert Fripp in squadra e la sua appendice Slow. E ancora: l’estatica, onirica, cinematografica Diamond Stuff; la scottwalkeriana (quasi ogni Scott Walker possibile più uno inaudito: into the groove) Dethroned; una Hogwash And Balderdash che con il suo moto perpetuo unica si riallaccia al debutto facendone fulminea (2’32”) sintesi. Alla fine una certezza: nessuno ha mai suonato esattamente così.

Pubblicato lo scorso 28 maggio, “Cavalcade” era stato però registrato fra giugno e agosto dell’anno prima. Il migliore album del 2021 di VMO è in realtà un disco del 2020. Chissà dove si trovano i black midi, cosa si stanno inventando ora che si è fatto il 2022.

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