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Il brutal prog dei Magma

È mai esistita una band più “di culto” dei Magma? Questione non solo di numeri, per quanto siano sempre stati modesti tolto il quinquennio inaugurato dalla pubblicazione dell’album, che era il terzo in studio e vedeva la luce nel 1973, riguardo al quale fra gli esegeti si registra una quasi unanimità di consensi: il loro capolavoro. È che il gruppo fondato nel 1969 dal batterista Christian Vander e tuttora attivo (conta poco con quale formazione incida o suoni dal vivo, essendo passati da quelle parti nei decenni e sin dall’inizio della sua storia musicisti a decine; se ci sono Christian e la ex-moglie Stella sono i Magma: punto) non soltanto si inventò un mondo alternativo, in questo simile a illustri alieni afroamericani quali Sun Ra e George Clinton, ma addirittura creò una lingua sua propria (da cui l’unicità) per raccontare le vicende là ambientate. Ed è immaginabile culto più devoto di quello i cui adepti studiandone i testi ─ impenetrabili e nondimeno puntualmente riportati nelle confezioni dei dischi ─ sono riusciti a ricostruire una grammatica, un vocabolario? E questo benché Vander, che dice il linguaggio kobaïano “puramente fonetico, con assonanze con vari idiomi slavi e germanici” ammonisca che, sebbene sia costruzione dotata di senso e regole, risulta non traducibile “parola per parola”. Tant’è.

Dal lontano 2003 sono fra i responsabili di questa rubrica e forse mai lo spazio pur ampio di un’intera pagina mi era parso così insufficiente allo scopo che si prefigge, che è quello di tracciare per tramite di uno o più LP da poco riediti un ritratto bastantemente preciso dell’opera di un solista o una band, idealmente istigando il lettore a non fermarsi a quello o a quegli. Devo correre. Ci provo. Nato a Parigi il 21 febbraio 1948, Christian Vander è figlio d’arte ma adottivo e ad adottarlo è stato Maurice Vanderschueren, pianista jazz di gran livello e fama. È un padre giovanissimo (è del 1929), radici ben salde nella tradizione del genere (ha suonato con Djiango Reinhardt) ma svelto ad abbracciare il bebop e le sue evoluzioni (si ritrovava così a fiancheggiare Kenny Clarke e Johnny Griffin) a trasmettere al ragazzo la passione per la musica. Christian come strumento non sceglie però né quello paterno né il sax dell’idolo John Coltrane e non è jazz bensì rhythm’n’blues lo stile che pratica con i primi complessini amatoriali. Lo affascinano poi sia la musica classica che un rock che si va facendo adulto proprio nel mentre pure lui entra nella maggiore età. A giudicare dalla ragione sociale del primo gruppo serio cui dà vita ─ Uniweria Zekt Magma Composedra Arguezdra: per fortuna quasi subito abbreviata come sapete ─ probabile abbia già in testa l’idea meravigliosa di una musica che superi in audacia la psichedelia dominante e il progressive incombente, fondendoli e nel contempo infondendovi elementi sia di jazz che della tradizione colta (né gli è estranea una certa temperie avanguardistica) europea. I tempi sono quelli che sono: aperti. La Philips ingaggia Vander e sodali per due album e quando a fronte di vendite insoddisfacenti non rinnoverà il contratto il dipartimento francese della Vertigo provvederà prontamente a rilevarlo. In “Magma” (1970) e “1001° centigrades” (’71), il nostro uomo comincia a narrare la saga che ha portato ai giorni nostri di un gruppo di terrestri che, in fuga da un pianeta reso invivibile da una catastrofe ecologica, ne scopre e raggiunge uno abitabile ma disabitato in una lontana galassia. Il novello eden non sarà più tale quando, generazioni dopo, altri coloni atterreranno su Kobaïa e fatalmente fra loro e i discendenti dei primi incomprensioni e contrasti sfoceranno presto in guerra aperta, siccome il sostantivo “paradiso” e l’aggettivo “terrestre” giusto nella Bibbia possono stare insieme e per qualche pagina appena prima che finisca male. Sono dischi di freschezza e spessore apprezzabili ma non originalissimi, in particolare un debutto di derivazione zappiana laddove il seguito se nella seconda facciata si limita a echeggiare i coevi Soft Machine jazz-rock nella prima adombra invece la rivoluzione che incombe con bruschi cambi di tempo e una densità strumentale inaudita. È qui che inizia a prendere forma un canone di cui qualcuno darà molto dopo una definizione geniale quanto, al suo meglio, il peculiarissimo sound della band: brutal prog. In negativo: c’è già l’enfasi tipica dei Magma, non ancora la fluidità. In positivo: in spartiti notevolmente complicati, nemmeno un sospetto di virtuosismo fine a se stesso. Da lì a due anni “Mekanïk Destruktïẁ Kommandöh” rappresenterà salto quantico, con le sue sette tracce che sfumano una nell’altra con afflato nel contempo liturgico in forza di un onnipresente coro chiaramente devozionale ─ il modello non potrebbe essere più lontano dal gospel: il Carl Orff dei Carmina Burana ─ e wagneriano. Si può provare a descriverlo con un ossimoro: un muro di suono in moto perpetuo, sospinto da un motore i cui ingranaggi sono costituiti da fanfare di ottoni e una ritmica implacabile, voci dal solenne al guizzante e chitarre scintillanti, pianoforti in loop e punteggiature e lamate d’organo, fra saliscendi vertiginosi, intrecci foschi di bordoni e brevi (r)accordi estatici. Da simili apici olimpicamente ultramondani non si potrà che scendere ma lo si farà con intelligenza, avendo inteso come replicare tale e quale sarebbe non soltanto impossibile ma insensato. Nemmeno nel successivo (1974; a separare i due dischi la colonna sonora “Ẁurdah Ïtah”, formalmente debutto da solista del leader) “Köhntarkösz” si proverà a offrire copia conforme, conservando l’effetto da trance ma smussando gli spigoli e alleggerendo le atmosfere.

Quasi in contemporanea con l’uscita di questo numero di “AR” l’olandese Music On Vinyl riporterà nei negozi proprio “Köhntarkösz”. La stessa etichetta ha già provveduto in febbraio a rimettere in circolazione il predecessore in una tiratura limitata a duemila copie numerate con copertina apribile e rifinita in lamina di rame. Buona cosa che non per questo il prezzo sia esoso, anzi. Pessima che pure il vinile sia colorato, moda deleteria cui pure i marchi più seri si stanno sciaguratamente piegando.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.442, maggio 2022.

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I migliori album del 2022 (1): Black Country, New Road – Ants From Up There (Ninja Tune) / black midi – Hellfire (Rough Trade)

Prossimi non solo in un’ideale libreria sistemata in ordine alfabetico i Black Country, New Road e i black midi: per chi scrive i due gruppi più notevoli espressi finora dal rock britannico dell’attuale decennio. Li accomunano reciproca stima, l’abitare territori musicalmente contigui, l’essere tutti giovanissimi, dallo scorso autunno una campagna concertistica americana che ha visto curiosamente i primi fare da spalla ai secondi nonostante vendano molto di più e, da ormai un anno, sfortunatamente pure questo: che mentre i black midi avevano perso il chitarrista Matt Kwasniewski-Kelvin appena prima di registrare il secondo album i Black Country, New Road annunciavano l’addio del cantante e chitarrista Isaac Wood il 31 gennaio, vale a dire quattro giorni prima che “Ants From Up There” raggiungesse i negozi e subito volasse al numero 3 della classifica UK, migliorando di una posizione il piazzamento dell’esordio “For The First Time”. Defezione dovuta incredibilmente alle stesse ragioni (problemi di salute mentale) ma presumibilmente destinata a pesare di più, visto che della band autorialmente e per la voce riconoscibilissima costui era il fulcro. Delittuoso sarebbe però se il pensiero che questo potrebbe essere un congedo (anche no, visto che nel tour negli USA hanno suonato solo brani inediti e nulla ─ nulla! ─ dai due album con Wood) ne sciupasse l’ascolto. Se non facesse godere fino in fondo di un disco di una bellezza abbagliante nelle cui dieci tracce (ma la prima è una breve Intro) per complessivi 58’46” un post-rock senza quasi rapporti con il post-punk si muove fra folk (il klezmer un’influenza vistosa) e minimalismo, progressive (versante Canterbury) e chamber pop. Ci troverete dentro i primi Arcade Fire e Arthur Russell, i Neutral Milk Hotel e Michael Nyman, Steve Reich, i Caravan, gli Slint. Cla-mo-ro-so.

Il 19 luglio 2022 a Londra il termometro ha segnato 40.3°, la temperatura più alta mai registrata da quelle parti. Un incubo per tutti fuorché i black midi, che quando decisero di chiamare il terzo album “Hellfire” non potevano certo immaginare che quattro giorni dopo una pubblicazione involontariamente tempestiva i quotidiani avrebbero titolato a proposito dell’ondata di caldo che ha colpito il Regno Unito come il resto d’Europa usando proprio quella parola: “Hellfire”. Di tale pubblicità gratuita hanno approfittato affittando un furgone e girando per la capitale britannica vendendo oltre al disco e al relativo merchandising… gelati. Di un sense of humour formidabile quanto la maestria tecnica dei Fantastici Tre e non più Quattro danno d’altronde testimonianza, e non per la prima volta, anche i crediti del disco, laddove Geordie Greep, Cameron Picton e Morgan Simpson satirizzano il vecchio prog, loro che sono ormai considerati i massimi alfieri di uno nuovo sul serio, attribuendosi rispettivamente trentatré, trentatré e ventisei diversi strumenti. Parecchi invero improbabili. Elencano in qualità di turnisti settantaquattro nomi, venticinque dei quali si sarebbero prestati nel terzo di dieci brani, Eat Men Eat, a produrre “burps”, “rutti”. Qualcuno ha detto “Frank Zappa”? A riascoltarli è un’influenza che, sebbene in misura minore, si coglie pure in predecessori ─ “Schlagenheim” (2019) e “Cavalcade” (2021) ─ per i quali sono stati chiamati in causa King Crimson, Van Der Graaf Generator, Scott Walker, Gang Of Four, Wire, Fall, P.I.L., Pere Ubu, Sonic Youth, Butthole Surfers, Primus, Shellac, June Of 44, Battles. Se volete a questo giro aggiungete Captain Beefheart e Naked City. Non cambierà, tirando le somme, il risultato: nessuno ha mai suonato così. Nessuno.

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Misunderstood (per Tony Hill)

Uno dei più grandi chitarristi della storia del rock se n’è andato venerdì scorso nell’indifferenza generale. Non un articolo, non un trafiletto a ricordarlo. Giusto qualche post su Facebook.

The Misunderstood Before The Dream Faded (Cherry Red, 1982; antologia)

Una delle mille ragioni che abbiamo per idolatrare John Peel è questa: senza di lui i Misunderstood avrebbero avuto ancora meno della poca fortuna che ebbero e si sarebbero forse persi senza lasciare traccia alcuna. Era il 1966 quando le strade del gruppo e del dj (che non aveva ancora assunto il nome d’arte con il quale diverrà celebre e dunque girava come John Ravenscroft) si incrociavano. Acceso di sacro fuoco dalla ultraelettrica (con tanto di feedback come nei ’60 oseranno giusto i Velvet) e acidissima interpretazione del blues inscenata dai nostri eroi, Peel li convinceva a trasferirsi dalla California a Londra e tanto brigava che la Fontana si interessava a loro. Veniva registrato un demo con sei brani, due uscivano a 45 giri (il secondo per l’ensemble dopo uno pubblicato in patria) e i Misundestood – presenza scenica micidiale – divenivano dei beniamini del pubblico del Marquee. Attimo fuggente dopo il quale tutto andrà a ramengo. Restano due album postumi (il secondo è “Golden Glass”, uno Stood Still dell’84) a documentarne la grandezza ammannendo martellamenti selvaggi (Children Of The Sun, la feroce My Mind, una I’m Not Talking degna di Beefheart), spastiche dilatazioni (Who Do You Love) e ogni tanto un incantesimo alato (I Can’t Take You To The Sun) o uno scherzo (il gioioso beat Like I Do).

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.15, autunno 2004.

High Tide Sea Shanties (Liberty, 1969)

Immancabilmente citati fra i padri fondatori dell’hard come fra i massimi esponenti di una psichedelia disposta a farsi laterale rispetto al suo stesso essere – costituzionalmente – eccentrica, i britannici High Tide del cantante e chitarrista Tony Hill e del violinista Simon House altrettanto sacrosantamente finiscono per figurare in ogni trattazione che si rispetti del progressive. Questione oltre che di suono – compatto eppure articolato, in qualche inspiegabile maniera gradevole una volta violatane l’apparente impenetrabilità – di attitudine, di disponibilità a osare quanto all’epoca era inaudito e che di rado sarà replicato con efficacia e intensità paragonabili. “Sea Shanties” e il successivo di un anno “High Tide” restano fra gli esempi più memorabili di sempre di gotico in musica.

Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.

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black midi – Hellfire (Rough Trade)

Lo scorso 19 luglio a Londra il termometro ha segnato 40.3°, la temperatura più alta mai registrata da quelle parti. Un incubo per tutti fuorché i black midi, che quando decisero di chiamare il terzo album “Hellfire” non potevano certo immaginare che quattro giorni dopo una pubblicazione incredibilmente quanto involontariamente tempestiva i quotidiani avrebbero titolato a proposito dell’ondata di caldo che ha colpito il Regno Unito come il resto d’Europa usando proprio quella parola: “Hellfire”. Di tale pubblicità gratuita hanno approfittato affittando un furgone e girando per la capitale britannica vendendo oltre al disco e al relativo merchandising… gelati. Di un sense of humour formidabile quanto la maestria tecnica dei nostri giovani eroi danno d’altronde testimonianza (non per la prima volta) anche i crediti del disco, laddove Geordie Greep, Cameron Picton e Morgan Simpson satirizzano il vecchio prog, loro che sono ormai considerati i massimi alfieri di uno nuovo sul serio, attribuendosi rispettivamente trentatré, trentatré e ventisei diversi strumenti. Parecchi invero improbabili. Elencano in qualità di turnisti settantaquattro nomi, venticinque dei quali si sarebbero prestati nella terza di dieci tracce, Eat Men Eat, a produrre “burps”, “rutti”. Qualcuno ha detto “Frank Zappa”?

A riascoltarli, è un’influenza che sebbene in misura minore si coglie pure in predecessori per i quali sono stati chiamati in causa King Crimson, VDGG, Scott Walker, Gang Of Four, Wire, Fall, P.I.L., Pere Ubu, Sonic Youth, Butthole Surfers, Primus, Slint, Shellac, June Of 44, Battles. Se volete a questo giro aggiungete Captain Beefheart e Naked City. Non cambierà, tirando le somme, il risultato: nessuno ha mai suonato così. Nessuno.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.445, settembre 2022.

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Black Country, New Road – Ants From Up There (Ninja Tune)

Prossimi non solo in un’ideale libreria sistemata in ordine alfabetico per autore i Black Country, New Road e i black midi: per chi scrive i due gruppi più notevoli espressi dal rock britannico all’incrocio fra lo scorso e il nuovo decennio. Li accomunano reciproca stima, l’abitare territori musicalmente contigui (in “Cavalcade”, l’ultimo black midi, un paio di brani che potrebbero confondersi in “Ants From Up There”), l’essere tutti giovanissimi, l’avere gli uni e gli altri due lavori in studio all’attivo e ora sfortunatamente anche questo: che mentre i black midi perdevano il chitarrista Matt Kwasniewski-Kelvin appena prima di registrare il secondo album i Black Country, New Road hanno annunciato l’addio del cantante e chitarrista Isaac Wood quattro giorni prima che “Ants From Up There” raggiungesse i negozi e subito volasse, migliorando di una posizione il piazzamento di “For The First Time”, al numero 3 della classifica UK. Defezione dovuta incredibilmente alle stesse ragioni (problemi di salute mentale) ma purtroppo destinata a pesare molto di più, visto che della band, autorialmente e per la voce riconoscibilissima, Wood era il fulcro.

Ulteriormente delittuoso sarebbe però se il pensiero che questo potrebbe essere un prematuro congedo ne sciupasse l’ascolto. Se non facesse godere fino in fondo di un disco di una bellezza abbagliante nelle cui dieci tracce (ma la prima è una breve Intro) per complessivi 58’46” un post-rock senza quasi rapporti con il post-punk si muove fra folk (il klezmer un’influenza vistosa) e minimalismo, progressive (versante Canterbury) e chamber pop. Ci troverete dentro i primi Arcade Fire e Arthur Russell, i Neutral Milk Hotel e Michael Nyman, Steve Reich, i Caravan, gli Slint. Cla-mo-ro-so.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.440, marzo 2022.

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I migliori album del 2021 (1): black midi – Cavalcade (Rough Trade)

Lo avevano promesso quando “Schlagenheim” – uno dei più eccitanti debutti degli anni ’10: capolavoro fatto e finito, altro che “acerbo ma promettente” come da cliché sovente sono pure gli esordi migliori – era nei negozi da pochi giorni: tempo due anni e saremo tutta un’altra cosa. Hanno mantenuto, con il paradossale esito che mentre l’universo mondo si spellava le mani applaudendolo (l’album era acclamato come uno dei dieci migliori del 2019 da “Mojo” come da “The Quietus” e dal “New York Times”) e loro se ne dichiaravano viceversa già insoddisfatti il successore è piaciuto agli autori, al sottoscritto e a ben pochi altri, recensioni in verità mediamente alquanto positive seguite però da una subitanea svalutazione e dalla peggiore delle condanne: l’oblio. È finito in pochissime liste di fine anno e quanto al pubblico, e al netto di un’ingenuità che ha impedito che venissero conteggiate le copie vendute dell’edizione in vinile nero, un numero 64 nella classifica UK. Come dire il nulla nell’anno in cui gli amici (ma amici sul serio e genuini estimatori: vagheggiano di incidere prima o poi qualcosa tutti assieme) Black Country, New Road andavano con “For The First Time” al numero 4. Un disastro, un suicidio. Un trionfo, artisticamente.

La grande differenza fra il primo e il secondo black midi sta nel manico. Quello nasceva in studio come frutto di jam furiose cui solo l’eccezionale valenza di strumentisti dei quattro ragazzi e un’intesa telepatica impediva di deragliare. Questo i tre (vittima nel frattempo di un esaurimento nervoso, il chitarrista Matt Kwasniewski-Kelvin ha offerto un apporto alle fasi preparatorie ma non ha poi partecipato alle registrazioni e chissà se tornerà in squadra o lo abbiamo già perso) lo hanno scrupolosamente pianificato, facendosi poi dare una mano in sala di incisione da un tastierista e da un sassofonista che li avevano affiancati in tour. Al tempo dell’uscita annotai che rispetto a “Schlagenheim” più che superiore “Cavalcade” è diverso. Molti ascolti dopo mi scopro completamente d’accordo con me stesso a metà: diverso sì, superiore anche. Se il predecessore era un ossimoro di monolite perennemente cangiante il seguito può essere detto una suite e d’altronde “progressive” non è mai stato una parolaccia applicato a questo gruppo essendo i referenti nell’ambito i più nobili: i King Crimson da subito, i Van Der Graaf Generator soprattutto ora che c’è pure un sax. Un filo nero tutt’altro che invisibile lega una Intro minimale (aggettivo che mai si sarebbe pensato di potere accostare ai Londinesi), sinuosa e rombante alla conclusiva Ascending Forth, gemma abbacinante e insieme oscura (altra congiura di opposti) di avant-folk in transito dal pacificato al solenne e per il tempo di qualche battuta un valzer, addirittura. Fungono da fantasmagorico tramite una John L che nel titolo cita gli Ash Ra Tempel o i P.I.L., o entrambi, e nello spartito si inventa (immagina, puoi) dei Fall non digiuni di fusion, la ballata elettroacustica pregna di jazz Marlene Dietrich, una Chondromalacia Patella (mi viene in soccorso Wikipedia: è un’infiammazione delle cartilagini del ginocchio) ipotesi di Primus con Robert Fripp in squadra e la sua appendice Slow. E ancora: l’estatica, onirica, cinematografica Diamond Stuff; la scottwalkeriana (quasi ogni Scott Walker possibile più uno inaudito: into the groove) Dethroned; una Hogwash And Balderdash che con il suo moto perpetuo unica si riallaccia al debutto facendone fulminea (2’32”) sintesi. Alla fine una certezza: nessuno ha mai suonato esattamente così.

Pubblicato lo scorso 28 maggio, “Cavalcade” era stato però registrato fra giugno e agosto dell’anno prima. Il migliore album del 2021 di VMO è in realtà un disco del 2020. Chissà dove si trovano i black midi, cosa si stanno inventando ora che si è fatto il 2022.

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I migliori album del 2021 (9): Black Country, New Road – For The First Time (Ninja Tune)

Se ti occupi professionalmente di musica non puoi non avere una preferenza per l’articolo. Più o meno lungo che sia, si tratti di una monografia o dell’investigazione di una scena o un fenomeno, di racconto storiografico o cronaca. Hai agio di ascoltare e soprattutto riascoltare, documentarti, meditare. Va da sé: dovrai dedicarci tempo e sarà faticoso, però alla fine appagante. Tutt’altra faccenda le recensioni, che ti piombano fra capo e collo e con una data di consegna che è in genere ieri e, insomma, per quanta esperienza tu possa avere il rischio di sopravvalutare o sottovalutare (può essere peggio: metti che quell’album da lì a qualche anno sia ritenuto unanimemente un capolavoro) anche grossolanamente un disco è sempre in agguato. Sola consolazione che ne escano così tanti, e che l’attenzione del pubblico sia di conseguenza volatile come non mai, che difficilmente qualcuno se ne ricorderà. Ora: al netto di una solidarietà di categoria, da semplice appassionato non mi capacito che sulle colonne di una testata di grande autorevolezza quale “The Independent” l’esordio dei Black Country, New Road sia stato definito “noioso e prevedibile”. Perché se “For The First Time” non ti è piaciuto, ed è legittimo, puoi semmai attaccarlo con motivazioni esattamente opposte: dicendolo artefatto a ragione di un moto perpetuo che può essere inteso come vuota esibizione di enciclopedismo e/o virtuosismo, trovando sul lungo prevedibile proprio la sua imprevedibilità. Ma… noioso? Mi pare una topica imperdonabile e però lo affermo avendo avuto una tantum il privilegio, non essendomi toccato recensirlo, di assaggiarlo appena al momento dell’uscita lo scorso 5 febbraio per poi tornarci su con ascolti distanti anche mesi che gli hanno permesso di sedimentarsi. Nondimeno: posso onestamente affermare che mi ha entusiasmato da subito.

Hanno facce belle e sorridenti da ventenni quali sono i sette componenti (quattro ragazzi, tre ragazze) del combo londinese e già che si tratti di una formazione inusualmente numerosa e che all’armamentario di ordinanza del rock – due chitarre, basso, batteria e tastiere – aggiunge strumenti meno usati quali violino e sassofono mette sull’avviso riguardo all’originalità della proposta. E non potrebbe essere più esplicito in tal senso un brano inaugurale didascalicamente intitolato Instrumental: una trentina di secondi di attacco solo percussivo che fa da incipit a una sarabanda klezmer (“musica da festa che suona triste”, osserva Lewis Evans) infiltrata dai rintocchi di una chitarra psych e con un’anima intimamente free jazz. Questo bisognerebbe chiamare post-punk piuttosto che le rimasticature più o meno creative con le quali dobbiamo di continuo confrontarci. Che poi pure i Black Country, New Road abbiano studiato è evidente, ma vivaddio non gli stessi testi di quasi tutti gli altri (anche quelli, sì, ma aggiungendone di poco o punto frequentati) e che bello che per una volta si possa scrivere di un gruppo giovane senza citare i Fall (ecco, li ho appena citati). Che ascoltando Isaac Wood venga in mente non quel rissoso, irascibile, carissimo e compianto cazzone di Mark E. Smith bensì la nobiltà altera di un Peter Hammill. Ecco: sarà che siamo italiani ma leggiucchiando qui e là mi pare che solo nel Bel Paese siano state colte assonanze – più che altrove lampanti in Science Fair e in una Sunglasses laddove il post-rock incrocia un’epicità prog che il porgersi ossessivo salva dalla prosopopea – con i Van Der Graaf Generator. Al di là della presenza del sax per la foschia che ne avvolge grattuggiamenti, vortici e schiamazzi. Se rimandando ancora più esplicitamente agli Slint e alla loro rivoluzione Athens, France finisce per risultare paradossalmente la traccia più convenzionale delle appena sei che compongono il disco (per quanto: che delizia il sentimento pastorale che la impregna prima che si lasci andare a un riffeggiare di radici hardcore e math), Track X scarta dal massimalismo al minimalismo in ogni senso (mettiamola così: i Radiohead alle prese con Steve Reich). Fungono da congedo i saliscendi vertiginosi di Opus, riallacciandosi a Instrumental ma inserendovi momenti distensivi.

Il 4 febbraio (anniversario quasi esatto) vedrà la luce il seguito, “Ants From Up There”. Prevedibili i fucili puntati. Io attendo fiducioso.

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black midi – Cavalcade (Rough Trade)

Non è che frequentare la BRIT School For Performing Arts & Technology ti porterà per forza a seguire le orme di chi come Adele, Amy Winehouse, Katie Melua e King Krule passato da quelle aule ha poi venduto dischi a decine di milioni. Ciò che l’istituzione londinese ti garantisce è che ne uscirai con una preparazione nel settore scelto di primissimo ordine. A te farla fruttare. I giovanissimi black midi ─ a stento totalizzavano ottant’anni in quattro quando nel 2019 debuttavano con lo strepitoso “Schlagenheim” ─ lo stanno facendo eccome. Modesti finora i riscontri commerciali, quasi insignificanti a fronte di recensioni che pure a questo giro spargono stelle e superlativi, e nondimeno si può affermarlo senza remore: se anche non vedranno mai le zone alte delle classifiche oggi come oggi non c’è in circolazione gruppo rock più entusiasmante.

Severi con se stessi i ragazzi, che nel frattempo hanno quasi perso per strada causa stress uno dei due chitarristi, Matt Kwasniewski-Kelvin, e hanno rimediato in parte facendosi dare una mano in studio dal tastierista e dal sassofonista che li avevano affiancati in tour: del predecessore, frutto di un approccio improvvisativo, si dicono annoiati. In sala di incisione sono entrati con un obiettivo: “stavolta combiniamo qualcosa di buono sul serio”. Rispetto a “Schlagenheim” più che superiore “Cavalcade” è diverso: più strutturato e vario (dal resto del programma si staccano la ballata elettroacustica pregna di jazz Marlene Dietrich e l’oscura epopea post-folk Ascending Forth), più progressivo nell’accezione nobile del termine. Parte dai King Crimson e dai VDGG per arrivare via Primus a Slint e June Of 44. O viceversa. Ma nessuno ha mai suonato esattamente così.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.433, luglio/agosto 2021.

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I migliori album del 2019 (4): Rustin Man – Drift Code (Domino)

Triste coincidenza che “Drift Code” abbia visto la luce appena prima che quel genio dispettoso di Mark Hollis ci lasciasse. Quel Mark Hollis che guidò i Talk Talk dal techno-pop di Such A Shame all’acquerellistico post-rock ante litteram di “Spirit Of Eden” e “Laughing Stock”, salvo poi sciogliere la compagnia per non produrre da solista che un omonimo capolavoro: rarefatto fino all’astrazione, emozionante fino all’indicibile. Dei Talk Talk Rustin Man, nato Paul Webb, fu il bassista fino al penultimo album e vanta il primato di avere firmato l’unico brano in catalogo non di Hollis. Formava poi con il compagno di sezione ritmica Lee Harris gli O.rang, durati il tempo di dare alle stampe due curiose collezioni di elettronica nutrita a dub e world, e come Rustin Man, con Beth Gibbons dei Portishead, pubblicava il favoloso “Out Of Season”, opera nel solco della migliore tradizione folk-rock albionica. Era il 2002. Attendevamo da allora un seguito e come non temere che, similmente a “Mark Hollis”, un successore non lo avrebbe mai avuto?

Io non so di cosa viva (dubito possa campare di diritti d’autore) Webb, ma per quanto possa dispiacere che ci abbia messo tanto trovo bellissimo che esistano artisti così, disposti a passare anni su un’opera, fin quando non la ritengono degna di venire al mondo. Tanto lungo il concepimento, tanto quietamente spettacolare un affresco di pastorale britannica per un verso collocabile in un’epoca ben delimitata – diciamo fra i tardi ’60 di una Judgment Train fra blues psichedelico e raga e del folk progressivo di una Our Tomorrows molto Caravan e i medi ’70 dell’hammilliana Brings Me Joy e di una The World’s In Town alla Wyatt – e per un altro di trascenderla totalmente. Proiettandosi negli spazi cosmici dell’ultimo Bowie.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.408, aprile 2019.

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I migliori album del 2019 (6): black midi – Schlagenheim (Rough Trade)

Quasi un equivalente britannico del DAMS con la differenza che forma alunni e alunne dai quattordici ai diciannove anni laddove da noi trattasi di corsi di laurea breve, la londinese BRIT School dacché è stata fondata nel 1992 si è rivelata cruciale passaggio propedeutico alla fama per un numero di allievi impressionante. Limitandosi alla musica e a un poker di assi sono passati/passate da lì Adele, Amy Winehouse, Katie Melua e King Krule. Si può trasformarlo in scala reale con i black midi (loro preferiscono si scriva così), ottant’anni scarsi in quattro ma non lo diresti guardando il video di ventisei minuti di una performance “live on KEXP” dello scorso novembre che in otto mesi ha totalizzato su YouTube oltre mezzo milione di visite e millecinquecento commenti. In particolare, a uno dei due chitarristi ne daresti tredici, di anni. “Poppetto”, immaginerà il lettore cui è finora sfuggito uno dei casi mediatici del 2019. Non potrebbe essere più distante dalla realtà di un gruppo che sta mettendo d’accordo tipologie di pubblico che a loro volta non potrebbero essere più lontane: vecchi cultori del prog che ne ammirano la valenza strumentale (il batterista Morgan Simpson è semplicemente mo-struo-so) e chi vede in loro un proseguimento con altri mezzi della guerriglia culturale scatenata da quei fenomeni di nicchia che furono no- e now-wave. Il rock (?) più estremo di sempre.

In nove brani dall’impossibilmente schizofrenico e articolato all’iperminimalista (bmbmbm gira su un riff di basso di una nota) i ragazzini buttano in un frullatore impazzito King Crimson (di varie epoche) e Gang Of Four, Fall e Shellac, Pere Ubu, Wire, Sonic Youth, Butthole Surfers, Slint, Battles… Giurano che tempo due anni saranno tutta un’altra cosa. Vedremo. Ascolteremo. Stordenti. Eccitantissimi.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.413, ottobre 2019.

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