Metti che il tuo esordio non vada via come il pane (piazzamento migliore nella classifica di “Billboard” un numero 144: poca cosa pure in un’era in cui i dischi si vendevano eccome, altro che streaming) e che però venga eletto “album dell’anno” da “Kerrang!”, testata di riferimento per ogni metallaro del globo terracqueo. Metti che il seguito si comporti un po’ meglio commercialmente (negli USA un numero 123, cinquantaduesimo nel Regno Unito) senza per questo farti perdere i favori della critica (quarta migliore uscita per il giornale sunnominato e nelle playlist di innumerevoli altre riviste, inclusa una non strettamente di settore come “Sounds”). Metti che il disco dopo ancora allarghi la tua platea al punto di persuadere la major che fino ad allora si era limitata a distribuirti a ingaggiarti direttamente. E metti che giusto sul finire dell’anno di pausa che ti sei concesso una certa concezione e tradizione del rock “pesante” cui, pur vantando un sound di rimarchevole peculiarità, indubbiamente appartieni vengano spazzate via da una rivoluzione chiamata grunge, nel mentre pure il crossover sale sugli scudi e impazza. Nel mondo nuovo disegnato a cavallo fra il ’91 e il ’92 da “Nevermind”, “Ten”, “Badmotorfinger”, “Blood Sugar Sex Magik” (ma pure dal Doppio Nero dei Metallica) improvvisamente sei diventato obsoleto. Potresti in realtà ricavarti egualmente una tua nicchia, ma sei intellettualmente troppo onesto per corteggiare quel mercato particolarissimo, di cui molti ignorano persino l’esistenza ma che dà da vivere a tanti: quello del cosiddetto – gigantesca contraddizione in termini – christian rock. Ed ecco perché i King’s X non sono mai diventati “gli Stryper che vale la pena ascoltare”.
Lo ammetto: benché sia stato un loro cultore della prim’ora ignoravo che i King’s X fossero… siano ancora insieme e oltretutto nella formazione – Ty Tabor alla chitarra, Doug Pinnick al basso e nella maggior parte dei pezzi voce solista, Jerry Gaskill alla batteria – schierata nei dischi di una breve era semi-aurea e già rodatissima allora, visto che i tre nascevano come The Edge a Springfield, Missouri, addirittura nel 1979 e diventavano Sneak Preview quando quattro anni più tardi si trasferivano in Texas (sono rimasti lì), ragione sociale con la quale nell’84 pubblicavano un omonimo 33 giri mai ristampato e che le rare volte che fa capolino su Discogs strappa dai duecento euro in su. Un po’ colpa loro: pubblicato lo scorso 2 settembre il loro tredicesimo lavoro in studio ha visto la luce a qualcosa come quattordici anni dal dodicesimo. Un po’ di più colpa mia ma pure sempre loro, giacché il debutto su Atlantic del ’92, omonimo, dei loro primi quattro album è nettamente il meno convincente e già “Faith Hope Love”, del ’90, li aveva visti in flessione rispetto ai primi due LP. Smettevo di seguirli e chissà se mi sono perso qualcosa. In compenso, fatti girare a decenni dall’ultima volta “Out Of The Silent Planet” e “Gretchen Goes To Nebraska”, usciti in origine entrambi su Megaforce rispettivamente nel febbraio 1988 e nel maggio 1989, mi sono sembrati belli come allora, non invecchiati affatto perché fuori dal tempo, appartenenti a una dimensione unicamente loro. Assolutamente da recuperare per chi non li conosce, da rispolverare per chi li ha in casa. Il primo è stato ristampato una sola volta, dalla Metal Blade nel 2017 e in formato doppio 12”, benché non duri che 43’32”. Non faticherete tuttavia a recuperarne una copia d’epoca e non dovreste pagarla più di venticinque-trenta euro (ma anche soltanto dieci su una bancarella dell’usato). Soldi in ogni caso ben spesi. Concept alquanto sui generis di argomento fantascientifico (il titolo omaggia un romanzo di C.S. Lewis), sistema in apertura un capolavoro di raga in scia ai Popol Vuh etnici che trasmuta in hard del più epico chiamato In The New Age e da lì a una Visions che suggella adombrando un thrash di impronta Voivod non smette mai di stupire: ad esempio innestando un riff degno degli AC/DC in una With A Hammer che, non contenta di mediare fra psichedelia e progressive, cala sul tavolo pure l’asso di una coralità gospel; con What Is This?, che indifferentemente farebbe un figurone nel catalogo dei Cream come in quello dei Guns N’Roses; con Shot Of Love, che sono dei Black Sabbath ossessionati dai Beatles. Sono cinque brani su dieci, mezzo programma, e non fosse che lo spazio va assottigliandosi li avrei citati tutti. Concept dalle origini meno nobili (un racconto scritto da Gaskill) ma narrativamente più coeso, il seguito vedrà i nostri eroi incredibilmente superarsi, aprendo nuovamente con un raga (la continuità rispetto al predecessore rimarcata dal fatto che come quello si intitola: Out Of The Silent Planet) e piazzando nel prosieguo meraviglie come Over My Head (i Queen alle prese con Jimi Hendrix), Everybody Knows A Little Bit Of Something (funk-metal da Living Colour al top), The Difference (quasi una outtake dell’immortale David Crosby di “If I Could Only Remember My Name”), Mission (novella Tales Of Brave Ulysses), Pleiades (bluesata e jangly) e The Burning Down (cavalcata hardelica fra l’onirico e il marziale). “Gretchen Goes To Nebraska” è stato appena riedito, su quattro facciate invece di due per incrementare la dinamica dei suoi 51’58”, dalla Music For Vinyl, in tiratura limitata e al prezzo onesto per il folle mercato odierno di quaranta euro. Regolatevi.
Un argomento è rimasto in sospeso. Al tempo si sapeva i King’s X ferventi cristiani ma si apprezzava il loro vivere la fede senza darsi al proselitismo e anzi in maniera problematica: da cui, ad esempio, il duro attacco ai telepredicatori in Mission e l’omaggio a Galileo Galilei in Pleiades. Avendo sempre esternato il dubbio che fra quanti la proclamano stentoreamente (tipo gli Stryper, ecco) molti lo facciano con vili secondi fini, dalla scena christian rock venivano da subito guardati con sospetto. Ne subiranno la scomunica quando nel ’98 Pinnick farà coming out. Oggi costui si dice agnostico e Gaskill lo stesso. Solamente Tabor pare frequenti ancora la chiesa, ma conservando per i bigotti del sano disprezzo.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.454, giugno/luglio 2023.