Archivi del mese: luglio 2020

Cowboy Junkies – Ghosts (Latent)

“Letargici”: così lessi una volta in una recensione dei Cowboy Junkies (strano non mi sia successo innumerevoli volte, o sempre) e per quanto del disco si parlasse bene converrete che è un aggettivo che non invoglia all’approfondimento. Però in fondo è vero: da sempre il quartetto di Toronto si muove sul confine sottile che separa l’onirico da ciò che fa (più o meno piacevolmente) appisolare. Da quel trio di lavori formidabili che pubblicava fra l’86 e il ’90 ─ “Whites Off Earth Now!!”, “The Trinity Session” e “The Caution Horses” ─ e nei quali declinava una musica sommessa all’incrocio fra alt-country e slowcore quando ancora le etichette suddette manco erano in uso. Formula che si è poi fatta spesso cliché ma che veniva abilmente scansata nel 2018 in un “All That Reckoning” che a tratti sorprendeva con bella energia e persino delle chitarre distorte.

“Ghosts” ha una storia particolare. Due mesi dopo l’uscita del disco di cui sopra veniva a mancare la madre di Margo, Michael e Peter Simmins, voce, chitarra e batteria dei Cowboy Junkies. Ed era durante il tour che promuoveva l’album che si provava a elaborare il lutto registrando questa manciata di brani (otto, per una durata poco sopra la mezz’ora), con l’idea di farci un disco da accludere come bonus a una stampa in vinile di “All That Reckoning”. Progetto fra i milioni mandati all’aria dal coronavirus e i Cowboy Junkies hanno deciso per intanto di renderlo disponibile come download. In futuro, chissà. Certo che sarebbe un peccato se quello che andrebbe considerato a tutti gli effetti il diciottesimo album dei Canadesi (dal predecessore viene ripreso un unico brano) non vedesse mai la luce fisicamente. Lo meritano, queste canzoni che di nuovo spiazzano con chitarre taglienti, fondali elettronici, derive psych, un’ombra di jazz.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.420, maggio/giugno 2020.

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Scrivere è sempre meglio che lavorare

L’introduzione della mia prima raccolta antologica di scritti sul rock, Venerato Maestro Oppure. Che potete acquistare qui in formato cartaceo e qui come eBook.

A otto anni ero un lettore compulsivo di fumetti. Topolino. Un pomeriggio mia madre arrivò dal lavoro con un valigione di quelli che stipavamo all’inverosimile quando si partiva per le vacanze estive zeppo di fascicoli Disney. Saranno stati minimo cinquanta. Chissà chi glieli aveva regalati. Provvide a nasconderli, con l’idea di concedermene la lettura due o tre numeri per volta, di farli durare insomma, ma naturalmente scoprii subito dove e trascorsi la notte barricato nello sgabuzzino divorando un numero dopo l’altro, fin quando mi accorsi che mio padre stava alzandosi e quatto quatto me ne tornai a letto. La mattina mi addormentai a scuola con la testa sul banco. La maestra mi diede una scossetta gentile per farmi tornare fra i vivi. Al ritorno a casa mi fu subito chiaro che mamma mi aveva sgamato. I preziosi albi erano ammucchiati in camera mia in bella vista. A metà del pomeriggio del giorno dopo avevo già letto l’ultimo e mi annoiavo. A nove anni passai di categoria: Bonelli. Tex, Zagor, Il Comandante Mark, Il piccolo ranger¸ che naturalmente era il mio preferito perché il protagonista aveva poco più della mia età, anche se vuoi mettere Tex Willer e i suoi pard contro Mefisto? Roba da avere gli incubi la notte. Figo. Li leggevo cavandomi gli occhi (ecco come sono diventato miope; non si accettano tesi alternative al riguardo) alla luce fiochissima di un’unica lampadina nello scantinato della villetta di una mia coetanea con un fratello molto più grande, tanto che già lavorava ed era andato a vivere per conto suo lasciandosi dietro un armadio colmo di quel ben di dio. Un giorno la mia amichetta, che a ripensarci era molto carina e parecchio più scafata di me ma non aggiungerò altro perché sono un gentiluomo, mi strappò a forza ai panorami desertici dell’Arizona, mi portò nella sua stanza e tutta orgogliosa mi mostrò alcuni 45 giri. “Sono innamorata di Paul”. Al mio sguardo evidentemente interrogativo mi chiese “li conosci, vero?”. E io: “Ma certo. Chi è che non conosce i Beatles?”. Lo dissi proprio così: Beatles. Come si scrive. Prima scoppiò a ridere, poi mi scrutò come si guarda un alieno che ti ha appena cagato in salotto e mi rispedì in cantina, senza farmeli ascoltare. Il mio primo incontro con il rock veniva così tristemente rimandato.

A scuola andavo piuttosto bene. Ero il secondo della classe, bravissimo in italiano e storia, era l’aritmetica a fregarmi. Colpa di un biondino paffuto che lì mi dava le piste e per forza che ci sapeva fare coi numeri, era figlio di un tabaccaio e in negozio lo piazzavano alla cassa a prendere i soldi e dare il resto. Avendo già capito, nonostante del calcio non mi fregasse ancora nulla (con il pallone ero una pippa; strano, visto che mentre gli altri si allenavano tirando contro un muretto in cortile per la gioia dei condomini io me ne stavo per conto mio a leggere Salgari, Jules Verne, L’isola del tesoro, I ragazzi della via Pal), che vincere non è importante, è l’unica cosa che conta, un giorno per vendicarmi del suo essere primo gli tirai via la sedia da sotto. Lui fece un bel ruzzolone e tutti giù a ridere a parte la maestra. Per punizione finii nell’ultimo banco e il mio rendimento peggiorò drasticamente, visto che da lì in fondo non decifravo una cippa di quello che veniva scritto sulla lavagna. Mi fecero mettere gli occhiali e di conseguenza oltre che “terrone” divenni “quattr’occhi e due stanghette”, però la pagella tornò subito tutta nove e dieci, a parte un otto in condotta (con il sette ti bocciavano) e naturalmente in matematica. Con il biondino feci pure le medie e lì lo massacrai. A livello di voti, intendo, io sempre in lotta per lo scudetto, lui inopinatamente quasi in zona retrocessione. Non l’ho mai più visto.

Quando avevo undici anni mia madre portò a casa, stavolta a puntate, un altro tesoro. Annate su annate del mensile “Storia Illustrata”, che credo arrivassero dalla biblioteca di un parente defunto del mio padrino di battesimo. Trip totale. Da grande sarò un archeologo, oppure scriverò sui giornali, e insomma avevo già capito come non si diventa ricchi. Per le superiori chiesi ai miei di farmi fare il liceo linguistico. A Torino ce n’erano soltanto tre (uno solo femminile) ed erano tutti privati. Mia madre faceva la domestica, mio padre era operaio, la retta costava un botto e sanno solo loro, che non ci sono più, i sacrifici che dovettero fare per accontentarmi. Va da sé che se mi avessero imposto un istituto tecnico, dove si imparano mestieri veri e l’inglese non è esattamente una priorità, tu non mi staresti leggendo. Del calcio adesso mi importava eccome (e di una squadra in particolare), mentre la musica continuava invece a essermi estranea e se può parere curioso a chi sa come in quegli anni (sto parlando di metà ’70) fosse il principale elemento aggregante (e insieme divisivo, tribù l’una contro l’altra armate) generazionale rispondo che il mio ambiente di studi era particolare. Gente proveniente in massima parte da famiglie della medio-alta borghesia, la politica tenuta fuori (e chi si schierava era in genere di destra), alle feste ci si strusciava ascoltando Baglioni o Battisti o si ballava la disco, a parte chi se ne restava in un angolo cioè io. Però a un certo punto la scintilla in qualche modo scoccò e nell’anno giusto, il 1977, anche se fra i primi dieci album che acquistai risparmiando mille lire su mille lire c’era roba tremenda, da vergognarsi come un cane, della quale comunque mi sbarazzai tempo pochi mesi. Tempo di tornare a casa un giorno con sotto braccio una copia di “Rock’n’Roll Animal” di Lou Reed prestatami da un amico di un amico, accendere la radio e – boom! – White Riot dei Clash. Ho assistito a spettacoli mica male nell’ultimo anno di liceo, tutti al Palasport, che raggiungevo cambiando più di un autobus e con il rischio di perdere le ultime corse e dovermi poi fare un sacco di chilometri a piedi: Ramones, Police con i Cramps di supporto, Peter Gabriel con ad aprire i Simple Minds, De Andrè con la PFM, mi pare pure i Weather Report (nel senso che ricordo una loro performance meravigliosa ma dell’anno non sono sicuro). Però la musica era ancora soltanto una (divorante) passione, che avrei potuto renderla in qualche modo un lavoro non mi passava per l’anticamera del cervello (anche perché ci provai a suonare, la chitarra, e scoprii che facevo ancora più pena che con un pallone). Mi restava il sogno di scrivere, quello sì, e continuavo a leggere tantissimo (per dire: l’opera omnia di Joseph Conrad in un’estate). Prendo la maturità (mi perdo Bob Marley allo Stadio Comunale perché ho gli orali due giorni dopo; rimpianto eterno) e mi iscrivo a Lingue e Letterature Straniere Moderne senza chiedere il rinvio del servizio di leva perché sono sicuro (da abile di terza) che tanto non mi chiameranno mai. Mi chiamano prima ancora che abbia fatto in tempo a dare un esame. Se penso ai concerti che non ho visto nel 1981/inizio ’82 per servire la patria (suonavano sempre tutti il giorno prima o la settimana dopo di quando mi toccava una licenza) a cinquecento chilometri da casa ancora mi girano tipo pale degli elicotteri americani in fuga da Saigon. In compenso in ufficio amministrazione con me, in quel buco di culo del mondo di Tauriano di Spilimbergo, provincia di Pordenone, c’è un romagnolo simpaticissimo e pazzo per la new wave. Spariamo Bauhaus, Joy Division, Siouxsie & The Banshees, Echo & The Bunnymen, Ludus, Circus Mort (il Pati era uno che la sapeva lunga) a palla fintanto che la pazienza del maresciallo e/o del capitano non si esaurisce e ci pregano quantomeno di abbassare il volume.

Mi congedo, mi concedo un viaggio a Parigi e a Londra (ultimo giorno a digiuno per potermi comprare ancora quei due LP) con il quale con insuperabile tempismo mi gioco i Rolling Stones sempre al Comunale e i festeggiamenti per un mondiale di calcio vinto quando i più pensavano che non avremmo passato il girone, fra estate e autunno do i primi esami all’università ed è a quel punto che mi viene l’idea che mi salverà la vita, oppure me la rovinerà: continuo a volere fare il giornalista (la carriera accademica mi attira poco), spendo tutti i miei soldi in dischi e riviste musicali e allora perché non provare a scriverci su una di quelle riviste? “Ciao 2001” e “Rockstar” sono troppo commerciali e in ogni caso le percepisco come inavvicinabili, “Rockerilla” è più roba mia ma un po’ troppo settoriale. “Il Mucchio Selvaggio” ha invece, oltre che uno spirito guascone che condivido, il pregio di parlare di molte più musiche diverse. OK, tolte due o tre firme l’italiano lascia mediamente a desiderare, si va dal compitino allo scritto direttamente con il culo, e però in quello che era un difetto scorgo un’opportunità. Butto giù un paio di articoli e li spedisco accompagnandoli con una letterina in cui scrivo che sì, il giornale non è granché ma ultimamente è molto migliorato ed è infine all’altezza del sottoscritto. Giuro. Incredibilmente, invece che ignorarmi o mandarmi a stendere il direttore mi risponde a stretto giro di posta dicendomi che i pezzi gli sono piaciuti molto e di mandargli altre cose, se mi va, compresi quei due stessi articoli un po’ accorciati perché così sono troppo lunghi. Provvedo. È il dicembre 1982. Un giorno di metà febbraio ’83, di ritorno da una lezione di storia e critica del cinema dell’immenso Gianni Rondolino (uno dei pochi autentici Venerati Maestri con i quali ho avuto la fortuna di avere a che fare di persona; un altro è Riccardo Bertoncelli, che deferentemente saluto), mi trovo nella buca delle lettere copia del numero del “Mucchio” non ancora in edicola. A pagina 53 c’è un mio (imbarazzante, a rileggerlo oggi) pezzo. Firmato Eddy Cilìa perché, ecco, Salvatore Cilia non mi è mai sembrato un cazzo rock’n’roll come nome. Per un paio di giorni cammino a un paio di metri da terra. Poi mi informo su quando arriverà il primo stipendio e a quanto ammonterà e ci resto malissimo quando apprendo che no, non c’è nessuno stipendio, che i pezzi sono pagati 20.000 lire a cartella (mi sembra una miseria ma non lo è; oggi sarebbero circa cinquanta euro e nessuno ti paga così tanto) e che tocca a me decidere se continuare o meno la collaborazione, però da lì in poi concordando gli argomenti. Decido di continuare, immaginando che presto verrò comunque inondato di dischi gratis (falso; per buoni cinque anni scriverò recensioni per potermi pagare i dischi che recensivo e con quei soldi comprarmi altri dischi), mi faranno entrare gratis ai concerti (abbastanza vero; a un certo punto il Big Club mi diede un pass che valeva per ogni evento e Hiroshima seguì a ruota) e quanto alle ragazze avrò l’imbarazzo della scelta (lasciamo perdere, dai). E comunque scrivere è sempre meglio che lavorare, no?

Quante volte me lo sono sentito dire, spesso da avvocati, medici, architetti, agenti assicurativi o immobiliari, bancari o comunque gente con il posto sicuro, tredici o quattordici mensilità e le ferie pagate, persone che guadagnavano cifre per me impensabili ma “beato te che fai qualcosa che ti piace”. Quante volte me lo sono detto io stesso, prendendomi in giro da solo, perché la scrittura se la eserciti come mestiere oltre che sottopagata è roba dura, emotivamente prosciugante. Sono arrivato a tenere in piedi fino a sei o sette collaborazioni contemporaneamente per mettere insieme qualcosa che somigliasse vagamente allo stipendio di uno sfigato, sono arrivato a scrivere otto, dieci, dodici ore al giorno per settimane di fila e ciò nonostante c’è stato un momento in cui ho rischiato di finire in mezzo a una strada perché il principale datore di lavoro mi pagava a fine anno (salvo “anticiparmi” qualcosa in estate) e arrivarci a fine anno era sempre più un’impresa. Mi salvò un’inattesa e non cercata consulenza per Radio Rai 3, se no ciao. Però in fondo ho più o meno sempre fatto quello che volevo. Però in fondo (in fondo in fondo, a sinistra, dove ci sono i bagni) in qualche modo fino ad oggi me la sono cavata. Sono ancora qui, trentasette anni dopo, e in giro un po’ di gente che mi apprezza c’è. Ogni tanto qualcuno mi scrive, o mi avvicina a un concerto, e mi dice che ha in casa scaffali di roba comprata dopo avermi letto. Addirittura, ogni tanto qualcuno mi scrive o mi dice che questo o quell’articolo, o seguirmi nel tempo, gli ha cambiato l’esistenza e a me pare un filo esagerato, ma ci fosse un decimo di verità allora la mia di vita non l’ho sprecata, come mi viene da pensare nei giorni in cui butta male. Una volta dopo uno spettacolo dei Dream Syndicate un tizio invece di andare da Steve Wynn, che era a due passi, a farsi firmare un disco mi ha sporto un mio articolo, sui Dream Syndicate, e mi ha chiesto di autografarglielo. Ero basito.

In questi quasi quattro decenni ho accumulato un archivio immane, e a partire dal 1991 tutto informatizzato, che dal 2012 ho cominciato in piccolissima parte (eppure i post messi su finora sono buoni millesettecento) a ripubblicare su un blog che si chiama come questo volume. L’idea era che fosse importante essere presente su Internet, che diversamente da tanti miei colleghi ho sempre visto come un’opportunità da cogliere e non soltanto come la fine del mondo come lo avevamo conosciuto fino alla sua comparsa: per fare presente al mio piccolo pubblico – quelli che mi leggevano magari sin dagli esordi ma poi hanno smesso di comprare riviste; però la musica la ascoltano ancora – che, ehi, sono qua. Scrivo ancora. Era pubblicità a costo zero a parte il tempo dedicatogli, era un regalare con l’idea che un giorno da quell’archivio avrei potuto cavarci dei libri. Essere finalmente l’editore di me stesso, però stavolta senza responsabilità nei confronti di terzi come dall’88 al ’92, quando fui fra quelli che portarono in edicola “Velvet”. Ci ho impiegato un po’ più che nei programmi, ma eccomi qui.

Faccio prima a dirvi cosa c’è in questo primo “Best Of” che cosa manca. C’è una scelta di articoli lunghi a sufficienza da darmi agio di raccontare una vicenda artistica per sommi capi e con qualche dettaglio ma non le monografie lunghe sul serio, che raccoglierò su altri due volumi. Non c’è nulla degli anni pre-word processor, un po’ perché è un periodo che ritengo formativo, un po’ perché era scomodo rimetterci mano (se siete interessati, fatevi un giro sul blog e gli articoli, in forma di scansioni, li troverete quasi tutti; invoco la clemenza della corte).  Mancano i pezzi su protagonisti della storia del soul, del blues e del jazz che vennero radunati nel 2007 in un’antologia su Tuttle, Scritti nell’anima, che è mia intenzione ristampare verso fine 2020-inizio 2021 in un’edizione ampliata oltre che riveduta e corretta. Mancano inoltre svariate decine di articoli con come argomento il garage e la psichedelia USA anni ’60 che pubblicai su “Blow Up”, con cadenza mensile, fra il 2006 e il 2011 e pure con quelli ci farò un libro. E non ci sono recensioni. Non ho idea di quanti dischi ho scritto in vita mia, azzarderei intorno ai diecimila. Recuperare pure quelle (magari non tutte) è molto più che una tentazione, ma datemi il tempo. Mettetevi comodi.

Buona lettura.

Pubblicato per la prima volta su Venerato Maestro Oppure – Percorsi nel rock 1994-2015, Hip & Pop, 2020.

 

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Soul Asylum – Hurry Up And Wait (Blue Élan)

“Toh… esistono ancora”, è stata la mia reazione non esattamente entusiastica alla notizia dell’uscita del dodicesimo lavoro in studio dei Soul Asylum. Quarto da quando si rimettevano insieme ─ si fa per dire: della formazione classica erano rimasti solo il cantante Dave Pirner e il bassista Karl Mueller, che oltretutto moriva durante le registrazioni ─ e il pessimo risultato dei loro sforzi era “The Silver Lining”, inciso fra il 2004 e il 2006, pubblicato nel 2006, a otto anni dal precedente “Candy From A Stranger”. Un disco che mi toccava la sventura di dover recensire e aiutatemi tutti insieme a dire “brutto”. Latore di un rock dozzinale ai limiti dell’imbarazzante e stiamo parlando di una band che anche nei momenti migliori non è mai riuscita a rendere appieno in sala d’incisione la potenza, non disgiunta da una certa grazia, di spettacoli dal vivo viceversa rimarchevoli. E però, via, almeno “Hang Time” (1988) e “Grave Dancers Union” (1992; l’album, doppio platino negli USA, con dentro quel capolavoro di ballata di Runaway Train) non sono malaccio, tutt’altro, si possono (“si devono” sarebbe eccessivo) tranquillamente avere.

Avrete insomma inteso che, appreso che dovevo occuparmene, ho messo su “Hurry Up And Wait” quasi fosse una punizione per qualcuno dei miei tanti peccati. E invece… Invece fra le sue tredici canzoni, alcune delle quali con il pilota automatico ma nemmeno quelle disdicevoli, ne ho trovate diverse davvero sentite e frizzanti. Da una The Beginning dal riff affilatissimo al valzer Silly Things, passando per il glam con coro terra-aria Got It Pretty Good, una Here We Go sfacciatamente R.E.M./Byrds, una Landmines fra garage ed errebì. Spicca dalla cintola in su il folk che si fa folk-rock di Dead Letter. Mai avere pregiudizi.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.420, maggio/giugno 2020.

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Cinque settimane dopo

Siamo sempre lì.

 

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Il sommario completo di Venerato Maestro Oppure – Percorsi nel rock 1994-2015. In vendita qui e qui.

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Audio Review n.421

È in edicola dalla fine della scorsa settimana il numero di luglio di “Audio Review”. Contiene mie recensioni degli ultimi album di Austra, Tim Burgess, BC Camplight, Car Seat Headrest, Chicano Batman, Einstürzende Neubauten, Ghostpoet, Jason Isbell & The 400 Unit, Joan As Police Woman, Damien Jurado, Magnetic Fields, Perfume Genius, Sparks, Moses Sumney, Kamasi Washington e X. Nella rubrica del vinile pagina intera per il Jimi Hendrix di “Band Of Gypsys”. Ho scritto invece più in breve di un disco di fresca ristampa di Yusef Lateef.

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Pagina 123 del numero di “Blow Up” in edicola da inizio luglio e fino a fine agosto. Un grandissimo grazie a Stefano Isidoro Bianchi.

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Arbouretum – Let It All In (Thrill Jockey)

Da Baltimora, da sempre facenti capo al cantante e chitarrista Dave Heumann, quasi da sempre fedeli alla Thrill Jockey (che li ingaggiava all’indomani di un esordio autoprodotto), gli Arbouretum sono con “Let It All In” alla prova del nove. Nel senso che è questo il loro nono album e si tratta di verificare, per il recensore, se dopo tutto questo tempo (diciassette anni) risultino ancora freschi e, sebbene per niente originali in assoluto, capaci di raccordare armoniosamente fra loro pezzi di storia del rock che non a tutti verrebbe l’estro di mettere assieme (in questo simili agli inglesi Wolf People, affacciatisi alla ribalta un po’ dopo). Dunque almeno in tal senso peculiari. Se continuino a vantare sia un grande sound che un grande songwriting. Il recensore, che si è appena reso conto di aver fatto girare “Let It All In” per tipo la sesta volta in ventiquattr’ore e che insomma è come se gli si fosse incastrato nello stereo, azzarderebbe di sì. Non li conoscete? Suo compito provare a spiegarvi che vi siete persi finora. Se non risulta “il” loro disco da avere (obbligato a indicarne uno il recensore opterebbe per “Coming Out Of The Fog”, del 2013), “Let It All In” può valere come un’efficace introduzione.

Vi siete persi un gruppo capace di coprire l’ampio arco fra la scuola folk-rock britannica (A Prism In Reverse sono dei Fairport Convention rivisitati con spirito doom; Night Theme il fiabesco sogno di una notte di mezza estate), quei Traffic che già la trascesero (qui evocati dalla psichedelia agreste che trasmuta in raga di No Sanctuary Blues) e lo stoner (una traccia omonima che è stravolgente tour de force di quasi dodici minuti). Via Americana (qui una Buffeted By Wind byrdsiana di fondo ma con uno scarto rispetto al modello che la fa altra cosa).

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.419, aprile 2020.

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Crime And Dissonance – Un Morricone avant-rock

Quante le colonne sonore di Ennio Morricone? Oltre cinquecento, pare, e probabilmente il Maestro stesso non saprebbe dire il numero esatto. È una massa sterminata di materiali dei più diversi, sia per la natura intrinseca del mestiere di chi è chiamato ad accompagnare immagini, sia per la vastità degli interessi del nostro uomo, nella quale facilmente – fra quanto si trova, naturalmente, che pur con la messe di ristampe recenti non è che la punta di un iceberg – ci si smarrisce. Logico che si puntino le raccolte e ce n’è di magnifiche, la doppia “A Fistful Of Film Music” su Rhino su tutte, perfetta per chi volesse avere – come dire? – “i grandi successi”. Ma troppi titoli e sempre quelli tendono a ripresentarsi, il grosso delle antologie è messo insieme un po’ a capocchia, un singolo aspetto di una multiforme opera prende puntualmente il sopravvento. Sono le sue musiche per gli spaghetti western a dominare, rivoluzionario mix fra un rock che da Morricone è stato a sua volta (ed enormemente) influenzato e oleografici americanismi, effettuato con il “know how” di un’avanguardia frequentata più di quanto non si ricordi.

Straordinariamente benvenuta allora è questa “Crime And Dissonance”, spartiti dal ’69 al ’74 presentati da John Zorn, pubblicati dalla Ipecac di Mike Patton, selezionati con sagacia e perfettamente messi in sequenza da Alan Bishop degli eccentricissimi (un mito dell’avant-rock statunitense) Sun City Girls. Fra una psichedelia mutante in exotica (e il contrario) e gotici organi chiesastici, voci orrorose o orgasmiche e storte fughe percussive, fra Ligeti e Miles Davis, Penderecki e i Popol Vuh, oscillatori e chitarre in distorsione, sono 102 minuti che lasciano senza fiato e sui quali non ci si stanca mai di ritornare.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.262, novembre 2005.

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Due chiacchiere con l’amico e collega Luca Castelli, prendendo spunto dall’uscita di Venerato Maestro Oppure, sull’inserto torinese del “Corriere della Sera” di oggi.

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