Archivi del mese: aprile 2018

Stone Alone (quando Ron Wood era davvero “quello nuovo”)

Sono passati quei quarant’anni da quando si è unito alla banda – se in “Black And Blue”, del 1976, la sua chitarra risuona solo in tre brani già in “Some Girls” era l’alterego di Keith Richards che è tuttora – e Ron Wood (che prima era stato con il Jeff Beck Group e uno dei Faces e scusate se è poco) è ancora “quello nuovo” nei Rolling Stones. Sempre lo sarà ed è il prezzo che ha pagato a tale bellissima vita. Un altro è che in pochi si ricordano che vantava un cv già eccezionale quando divenne una Pietra Rotolante. A volte in pochissimi hanno poi comprato i suoi lavori da solista (sette quelli in studio) e l’unico che faceva eccezione era questo, il terzo e, essendo uscito nel 1979, il primo dacché era diventato uno degli Stones. Arrivava a un rispettabile numero 45 nella classifica di “Billboard”, potendo naturalmente beneficiare del baccano mediatico suscitato da quella ventina di concerti (uno – epocale – a Knebworth in apertura per i Led Zeppelin) suonati dalla band messa insieme per promuoverlo, i New Barbarians: Ron e Keith alle chitarre, Ian McLagan alle tastiere, Stanley Clarke al basso e Ziggy Modeliste alla batteria. A giudicare dalle numerose testimonianze pervenuteci, ufficiali e non, meglio dal vivo che in studio i materiali che compongono “Gimme Some Neck”.

Però, suvvia, il disco – fresco di ristampa su Speakers Corner in un’edizione che ne rende al meglio il sound scorticato ed energico (appena un filo di asciuttezza di troppo, a tratti, nella registrazione) – non è malaccio e probabilmente il suo migliore, alla pari con il debutto del ’74 “I’ve Got My Own Album To Do”. Si stagliano sopra la già ampissima sufficienza il blues vetusto Worry No More, un’irruenta e affilata Breakin’ My Heart e il rock’n’roll alla Chuck Berry F.U.C. Her. Più ancora Seven Days, un Bob Dylan al tempo inedito nella versione dell’autore, per l’ottima ragione che è della stessa stoffa da cui tagliò Changing Of The Guards.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.389, luglio 2017.

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Buffalo Tom – Quiet And Peace (Schoolkids)

Galeotto il tour con il quale l’anno scorso il trio di Boston promuoveva la riedizione Deluxe, nel venticinquennale della prima uscita, del suo album più classico, “Let Me Come Over”. A tal punto entusiaste le platee che si trovavano davanti, talmente tanto si divertivano loro che sì, Bill Janovitz, Chris Colbourn e Tom Maginnis pensavano bene che fosse il caso di aggiungere un capitolo ancora a questa loro strana seconda vita a puntate cominciata quando nel 2007 “Three Easy Pieces” interrompeva i nove anni di (comunque non completo) silenzio andati dietro a “Smitten”. Arrivati al fondo degli anni ’90, in capo a un decennio perlopiù esaltante, con l’ispirazione appassita e in crisi pure di pubblico, i Buffalo Tom ripartivano ritrovando la prima, rifioritura confermata nel 2011 da “Skins”. Possibile, auspicabile in tempi che paiono in ogni senso favorire le rimpatriate (il 2017 marchiato a fuoco dai ritorni di LCD Soundsystem e Slowdive) che “Quiet And Peace” aggiunga vento nelle vele della riscoperta critica istigata dalla ristampa di cui sopra. Inducendoli a rifare del gruppo un’occupazione a tempo pieno più che il piacevole hobby che è oggi.

È la loro prova migliore, se non da “Let Me Come Over”, da quel “Big Red Letter Day” che gli andava subito dietro cercando un punto di equilibrio fra la stagione del college rock e quella del grunge. Qui si resta nel giusto bilico fra l’innodia rock’n’roll di brani come All Be Gone, Lonely, Fast And Deep o Slow Down e sontuose ballate alla R.E.M. come Overtime, Roman Cars, Freckles (molto Bob Mould quest’ultima), o il valzer Hemlock. Inevitabilmente, una splendida resa di Only Living Boy In New York di Simon & Garfunkel rimanda ai Lemonheads che rifacevano Mrs. Robinson. Sarebbe un singolo perfetto.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.396, febbraio 2018.

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Audio Review n.398

È in edicola il numero 398 di “Audio Review”. Contiene mie recensioni degli ultimi album di A Hawk And A Hacksaw, A Place To Bury Strangers, Eric Chenaux, Shirley Davis & The Silverbacks, Dead Meadow, Low Anthem, Mouse On Mars, Oneida, Alasdair Roberts, Sick Rose, The Men, UB40 e Unknown Mortal Orchestra e di recenti ristampe di David Bowie e Fatboy Slim. Nella rubrica del vinile ho scritto di Paul Kossoff, Pharcyde e Duke Ellington.

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Un hobby chiamato Tom Tom Club

Il diavolo fa le pentole e a volte i coperchi. Era in ogni caso un ben simpatico diavoletto quello che si metteva di mezzo quando, reduci dalle registrazioni di “Remain In Light”, una delle pietre miliari della musica del Novecento, Chris Frantz e la moglie Tina Weymouth, batteria e basso dei Talking Heads, decidevano di crearsi un hobby e chiamarlo Tom Tom Club. Un po’ per rilassarsi dopo avere tanto penato su un disco così complesso, un po’ per dare sfogo a una creatività frustrata dalla diarchia Byrne/Eno. Un po’ anche avendo una grande, metaforica voglia di un sole assente, per quanto funk ci sia e il titolo richiami alla luce, nel capolavoro suddetto. Si procedeva, sotto il sole vero delle Bahamas, presso quei Compass Point già frequentati con il gruppo principale e avvalendosi delle collaborazioni di due sorelle di Tina, del chitarrista Adrian Belew e del percussionista Steven Stanley. Erano canzoncine quelle cui si poneva mano, molto caraibiche e per il resto influenzate da un hip hop che al tempo si pensava non sarebbe stato che una moda e che il primo singolo, Wordy Rappinghood, omaggiava. Sorpresa! Numero 7 in Gran Bretagna e primo in altri diciassette paesi, ove negli USA era solo la dabbenaggine di una casa discografica che, non credendoci, non lo stampava a precludergli le classifiche. Andrà meglio con Genius Of Love e con la cover dei Drifters Under The Boardwalk. I Tom Tom Club vendevano insomma più dei Talking Heads, figurarsi. Trentacinque anni dopo e anche al di là delle hit, il loro primo album è lungi dall’essersi sgasato come accade spesso a certe frizzanti musichette estive e come è successo con il successivo (1983) e assai meno estroso “Close To The Bone”.

Prima riedizione di sempre in LP (per la cronaca: di un bel verde traslucido) questa stampa Real Gone non rende un buon servizio all’appassionato rispettando filologicamente la scaletta del vinile d’epoca, quando meglio sarebbe stato ricalcare quella di una cassetta che alla conclusiva Booming And Zooming sostituiva Under The Boardwalk (e metterla come bonus?). Paiono inoltre troppi i trentadue euro richiesti per un disco che ai mercatini dell’usato facilmente si trova a cinque, massimo dieci.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.382, dicembre 2016.

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Dirtmusic – Bu Bir Ruya (Glitterbeat)

All’inizio i Dirtmusic erano un trio formato dagli americani Chris Brokaw e Chris Eckman (dei Walkabouts) e dall’australiano Hugo Race (uno condannato a vita a essere etichettato ex-Bad Seeds, quando vanta una discografia da solista folta e rimarchevole) per suonare in acustico un blues gotico infiltrato di country, o viceversa, recitandoci sopra più che cantandoci. Solo che nel 2008 si ritrovavano al “Festival au Désert”, a Timbuktu, a suonare in jam con i Tamikrest e immediata era la metamorfosi di un sound che si elettrificava, diventando maelstrom spiccatamente psichedelico e insomma la world music più accesamente e visionariamente rock in circolazione. Se ne faceva primo manifesto, nel 2010, il secondo disco dei Nostri, “BKO”, registrato in Mali e con in scaletta fra il resto una stratosferica cover di All Tomorrow’s Parties dei Velvet Underground. Per niente fuori posto. Otto anni e tre album dopo, né Brokaw né i Tamikrest sono più della partita e ci si sposta svariate migliaia di chilometri a ovest, a Istanbul. Non cambia l’eccitazione travolgente trasmessa anche da queste nuove sette tracce, analoghe le suggestioni.

A dar manforte a Eckman e Race sono stavolta i turchi Murat Ertel, leader degli ultralisergici Baba Zula e maestro di chitarra saracena, e Ümit Adakale, percussionista. È a oggi il disco forse più denso e intenso dei Dirtmusic, inquietante in brani come The Border Crossing, scuro funk post-punk con echi persino del Pop Group, una stralunata Outrage, una stridula traccia omonima addirittura in area illbient. Per viaggi un filo meno stressanti in altre dimensioni rivolgersi a una tambureggiante Go The Distance, infiltrata di surf e rock-blues, e all’incantata (la voce è della grandissima Gaye Su Akyol) Love Is A Foreign Country.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.396, febbraio 2018.

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Ty Segall – Freedom’s Goblin (Drag City)

Formalmente per questo trentenne californiano “Freedom’s Goblin” è il nono album, conteggio cui ne andrebbe aggiunto un decimo a nome Ty Segall Band. Sapendo che il debutto usciva nel 2008 parrebbe una produzione di accettabile abbondanza, ma chi segue l’underground USA sa che non è così. Per cominciare perché il giovanotto prima di intraprendere la carriera solistica già aveva pubblicato un paio di dischi con i garagisti Epsilons e poi e soprattutto perché, a fianco di quella “ufficiale”, vanta una mostruosa discografia parallela, titolare di una messe di altri album in tirature limitate (in vinile o in cassetta) e inoltre parte di vari gruppi o alle prese con assortite collaborazioni. Decine poi i singoli e gli EP e, tenendo presente che suona molto dal vivo, dove lo troverà il tempo? Ma la vera domanda è: come possiamo trovarlo, noi? Ecco: se siete di quelli che si sono scoraggiati, o viceversa Ty Segall manco lo avevate mai sentito nominare, “Freedom’s Goblin” è il suo singolo – anche se in vinile è doppio, vista una durata sull’ora e un quarto – lavoro da avere. Quello al cui confronto pure i migliori fra gli altri paiono minori e roba cui si può rinunciare. A questo no.

È come fosse un “Greatest Hits” dell’autore, a parte che è composto da brani (diciannove) inediti eccetto uno che rielabora un pezzo già noto. Ed è un po’ il suo “London Calling”, in quanto enciclopedia del rock – principalmente anni ’60 – che più ama. Vi si rinviene di tutto: dal weird folk all’hardcore, dalla psichedelia più sognante al metal, passando per ballate alla Beatles e altre cantautorali, schizoidi escursioni no wave e jam alla Crazy Horse, del power pop, persino della disco (squisitamente perversa). Grande è la confusione sotto i cieli? Proprio no. Tutto si tiene. Magnificamente.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.396, febbraio 2018.

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