Archivi del mese: Maggio 2014

Who Loves The Sun (Ra) (II parte)

Sun Ra - Cosmos

Cosmos

Dopo il diluvio di uscite della prima metà degli anni ’90 culminato nel 1996 con il doppio “The Singles”, il programma di riedizione dell’opera di Sun Ra ha rallentato molto il passo. Non si sa se rallegrarsene (si rischiava di dovere accendere dei mutui) o inquietarsi, perché tanto manca ancora all’appello e nel frattempo pure quelle ristampe cominciano a latitare. Direi però la seconda che ho detto, vista ad esempio la qualità di quello che dovrebbe essere un disco “minore” (e in termini assoluti lo è anche) ma che nondimeno riserva pagine di notevole seduzione.

Fra gli articoli più rari (non contando i live distribuiti ai concerti) del catalogo del Nostro, “Cosmos” vedeva la luce nel 1976, con una bella copertina adeguatamente fantascientifica e con l’unico difetto di evocare i lavori di Roger Dean per gli Yes. Se la grafica poteva ingannare l’ignaro acquirente dell’epoca, certamente la musica gli si rivelò, in tutti i sensi, di un altro pianeta. È uno degli album più “psichedelici” di Sun Ra, che suona il rocksichord (!?) e oltre a comporre (si suppone, la confezione non riporta i crediti) dirige un’orchestrina di undici elementi. Si parte e si arriva con le relativamente convenzionali (fiati evocativi e un certo sapore di swing) The Mystery Of Two e Jazz From An Unknown Planet, ma in mezzo ci sono delle gran belle stranezze. Come l’indianeggiante Interstellar Low-Ways o la big band marziana (saturnina, anzi) che si dà al free di Néo Project #2. O la quieta, ma davvero lunare come da titolo, Moonship Journey. Un viaggio affascinante. Con Sun Ra non si rimpiange mai il prezzo del biglietto.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.17, ottobre 1999.

Sun Ra - Lanquidity

Lanquidity

“Ci sono altri mondi (dei quali non vi hanno detto nulla)” titola, tradotto, il quinto e ultimo dei brani in scaletta in questo disco del 1978, riportato nei negozi in autunno dalla benemerita Evidence. O forse sarebbe il caso di dire “portato” e basta, siccome la stampa originale circolò soltanto laddove l’uomo di Saturno e i suoi discepoli facevano base, ovvero Philadelphia, e nelle città dove suonarono nei mesi immediatamente successivi. Con “Lanquidity” sono ventisei gli album di Sun Ra riediti dalla Evidence (e all’elenco vanno aggiunti un CD doppio e uno singolo antologici, altra cornucopia di leccornie assortite) nell’arco di un decennio durante il quale sono stati ristampati pure i titoli su ESP e hanno visto la luce un’infinità di live. Probabilmente, mai in vita Herman Poole Blount aveva visto tante sue opere in circolazione contemporaneamente. I mondi che l’industria, e più in generale l’establishment jazz, avevano passato sotto silenzio sono ora a portata di mano di chiunque desideri esplorarli. Non è indispensabile una preparazione specifica. Solo orecchie disposte all’avventura.

Uscito in piena era disco, “Lanquidity” sciorina funk sopraffino azzardandosi persino a dispiegare, in Where Pathways Meet, chitarre acide come non mai (tanto per ribadire l’affinità spirituale con le ciurme capitanate da George Clinton). Frequenta pure il rhythm’n’blues (si ascolti come spingono i fiati in That’s How I Feel) e, in ritardo sull’exotica, anticipa la fascinazione dell’Occidente per la world music. È sexy e spirituale insieme. È un’ennesima conferma della genialità di un uomo che tanti, troppi, trattarono da ciarlatano.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.210, febbraio 2001.

Sun Ra - Some Blues But Not The Kind Thats Blue

Some Blues But Not The Kind Thats Blue

Della sterminata discografia di Sun Ra più del numero delle opere colpisce, non appena si comincia a grattarne la superficie, lo spaziare senza posa: fra swing e avanguardia, doo wop e funky, exotica e bebop, free e psichedelia, cameristica ed errebì e quant’altro. E più ancora della monumentalità del lascito e dell’eclettismo a lasciare stupefatti è la qualità media, con capolavori a bizzeffe e il resto come minimo intrigante. Estesissimo il programma di ristampe seguito alla dipartita dal pianeta, nel 1993, del Nostro e per quanto mi riguarda lo benedico e lo maledico: ho decine (molte decine) di suoi album e che me ne manchino probabilmente altrettante quando qualcuno tira fuori da forzieri in apparenza inesauribili gemme dello splendore di Some Blues But Not The Kind Thats Blue mi lascia insieme esilarato e frustrato. E non scambiatemi per un collezionista del cazzo. È roba indispensabile. È roba che dopo la tua vita è più bella.

È questo un Sun Ra raro non solo nel senso che, dopo una tiratura in qualche centinaio di copie nel 1978 per l’etichetta dell’artista stesso, in trent’anni non era mai stato ristampato. È raro perché, contemporaneamente, lo vede alla testa di un gruppo tascabile rispetto alla consueta Arkestra e alle prese con un repertorio in massima parte di standard. Rispettati ma trasfigurati ed ecco una I’ll Get By che gronda sorrisi e swing, ecco una soffusa quanto spigolosa My Favorite Things da confrontare con le “anta” coltraniane, ecco una malinconica e fragrante d’Oriente Nature Boy, ecco una Black Magic spumeggiante di percussioni e post-New Thing senza eccessi. Sun Ra è una droga.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.644, marzo 2008.

Sun Ra - Meets Salah Ragab In Egypt

Meets Salah Ragab In Egypt

Lamentavo un paio di numeri fa che il programma di ristampe dell’immensa discografia di Sun Ra, fittissimo nell’ultimo lustro, cominciasse a segnare il passo, con molto ancora mancante all’appello. C’è veramente da augurarsi che riprenda vigore, visto lo straordinario valore di quanto, ormai con il contagocce, seguita a rivedere la luce. Questo “Meets Salah Ragab In Egypt” ad esempio, riedizione con due brani in più (per un totale di oltre mezz’ora di musica finora del tutto inedita) di un album poco conosciuto che a metà anni ’80 dava testimonianza dell’incontro fra l’Uomo di Saturno e Salah Ragab, il maggiore dell’esercito egiziano fondatore della prima orchestra jazz di quel paese (tutta composta di militari!). Un alieno anch’egli, evidentemente.

Nonché un compositore di prima categoria, tant’è che Sun Ra, in una serie di collaborazioni iniziata nel ’71 e prolungatasi fino al 1984 sceglieva, evento raro, di suonare in prevalenza materiale composto da un altro. Risultato? Settanta minuti, in questo CD dalla bella confezione cartonata, di jazz dagli accenti exotici dominato da tripudi di percussioni e scorribande fiatistiche di gusto manciniano. Godibile già al primo ascolto e generoso di rivelazioni (quando mai Sun Ra non lo è?) nei successivi.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.19, dicembre 1999.

Sun Ra - Mayan Temples

Mayan Temples

Nell’estate del 1990, nell’ambito di un tour europeo, la variopinta carovana della Sun Ra Arkestra faceva tappa in Italia. Giovanni Bonandrini, patron della Black Saint, ne approfittava per fotografarne il momento presso i Mondial Sound di Milano, fra il 24 e il 25 di luglio. Risultato, questo “Mayan Temples”. Decisione invero tempestiva, quasi avesse letto in una sfera di cristallo, quella del Bonandrini. Qualche mese dopo l’uomo di Saturno finiva su una carrozzella per via di un ictus dalle cui conseguenze non si sarebbe mai ripreso del tutto. Ci avrebbe lasciati il 30 maggio 1993.

Prima premessa: sebbene non sia in assoluto uno dei suoi capolavori, “Mayan Temples” è comunque opera significativa perché riassuntiva come poche altre della poetica di Sun Ra. Dunque ideale per il neofita. Seconda: è ad ogni modo, con “Somewhere Else”, quanto di meglio abbia prodotto nel suo ultimo quindicennio di permanenza sul pianeta Terra. Venghino allora, siore e siori. Si accomodino al grande e magico spettacolo della Arkestra. Potranno ascoltarla passare senza soluzione di continuità da swinganti impasti da big band ellingtoniana a ballate intrise di romanticismo, da bene organizzate risse fra tamburi e ottoni a sornione fughe nell’exotica, da safari africani a siparietti da music hall, declinando nel contempo (sempre meravigliosa la voce di June Tyson) soul e ciò che non si può definire altrimenti che psichedelia. Da Cab Calloway a George Clinton e ritorno. Splendido irregolare, Sun Ra. Sebbene fervano i preparativi di canonizzazione, l’impressione è che ci vorrà ancora molto tempo prima che la straordinarietà del suo apporto alla storia del jazz sia compresa appieno.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.213, maggio 2001.

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Who Loves The Sun (Ra)

Il 30 maggio 1993 l’uomo venuto al mondo (o forse caduto sulla Terra, da Saturno) come Herman Poole Blount e meglio noto come Sun Ra ci lasciava. Da anni vagheggio di dedicargli un libro, o quantomeno un articolo extra – “Extra”! – large, se non altro per riprendermi almeno in parte i soldi spesi per acquistare decine di suoi album. Siccome però è altamente improbabile che qualcuno mi paghi mai per farlo, dubito possa arrivare il giorno in cui deciderò di cimentarmi nella titanica impresa. Per intanto lo ricordo ripubblicando su VMO in due puntate (la seconda domani) una scelta di mie recensioni uscite nell’arco di poco meno di un decennio. Piuttosto che rispettare l’ordine in cui furono scritte mi è sembrato più sensato sistemarle seguendo la cronologia dei materiali affrontati.

Sun Ra - Spaceship Lullaby

Spaceship Lullaby

Mai in vita Herman Blount deve aver visto nei negozi tutti insieme un quinto o forse un decimo dei suoi dischi che circolano oggi. Nei quasi undici anni trascorsi dacché l’uomo di Saturno ci ha lasciati non solo sono stati ristampati praticamente tutti i suoi album, compresi alcuni in origine venduti giusto ai concerti, ma una marea di registrazioni live ha ulteriormente contribuito a un processo di riscoperta che, da eretico fra gli eretici del jazz, lo ha trasformato in conclamato ancorché eccentrico gigante del genere. Oltre a ribadirlo nume tutelare di tanto rock di frontiera. Non bastasse: si sono aperti gli archivi e hanno cominciato a sortirne materiali sconosciuti pure ai discepoli di più stretta osservanza, ultimi quelli che declinano questa “ninnananna spaziale” che dobbiamo alla Atavistic come la “musica dal mondo di domani” uscita nel 2002.

In materia di Sun Ra archeologico non è da escludere che si possa andare anche più indietro nel tempo rispetto a queste incisioni che partono dal 1954 e arrivano al 1960 (spulcio nella mia spropositata collezione e le cose più antiche che vi rinvengo sono del ’57). Pare quasi impossibile però che si possano tirare fuori robine più oscure e curiose di queste ben trentasette canzoni che sfilano in un’ora e un quarto. Avete letto bene: canzoni. Se del Sun Ra innamorato di un jazz vocale pesantemente influenzato da pop ed exotica si erano avuti sinora solamente assaggi qui c’è da farne felicemente indigestione, né la raccolta si ferma lì: se le registrazioni con Nu Sounds e Cosmic Rays sono comunque inscrivibili in area jazz, quelle con gli sconosciuti Lintels non sono catalogabili che come doo wop. Peccato che una qualità tecnica dallo scadente all’abominevole rovini in parte il piacere dell’ascolto.

 Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.244, marzo 2004.

Sun Ra - Music From Tomorrow's World

Music From Tomorrow’s World

Ha una deliziosa copertina da vecchio fumetto di fantascienza, del tutto adeguata al titolo, questo “Musica dal mondo di domani” che vede la luce nella collana “Unheard Music” della Atavistic e raccoglie nella prima metà estratti da concerti al Wonder Inn, club chicagoano di cui nel 1960 la Arkestra era la house band, e nella seconda una coeva e altrettanto dimenticata seduta in studio ai Majestic Hall. L’uomo di Saturno vi è colto in un momento di transizione dagli ellingtoniani (all’incirca) esordi, in bilico fra swing e bebop ma già non esenti da arditezze, alle avanguardistiche e psichedeliche esplorazioni nelle quali, con spirito molto funk, si inoltrerà nel successivo trentennio. Non è chiaramente questo il punto da cui partire per addentrarsi in una discografia sterminata e la qualità tecnica approssimativa scoraggerà oltretutto i fanatici dell’alta fedeltà. Per chi già è convertito è però un altro reperto preziosissimo, quasi irrinunciabile, a partire dalle foto in cui l’Arkestra (qui in versione ridotta) è agghindata come un complessino all’opera in qualche locale da danza del ventre nell’Egitto coloniale.

Fragranze exotiche si levano intense soprattutto dai nastri live, da una cartoonesca Spontaneous Simplicity da Duca in Arabia come da una felina It Ain’t Necessarily So, o da una China Gate che mantiene ciò che promette. Ma anche nella parte in studio, fra un’appuntitura di spigolo e un’altra ci sono sprazzi di romanticismo e passeggiate oniriche sul lato cinematografico della vita. Bello!

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.231, gennaio 2003.

Sun Ra - The Heliocentric Worlds Of

The Heliocentric Worlds Of

Si dimentica spesso, di fronte a colui che è stato l’eccentrico fra gli eccentrici del jazz, che Herman Blount – nome terrestre dell’uomo di Saturno noto come Sun Ra – affondava salde radici nella tradizione nera che più tradizione non si può, tant’è che i suoi primi impegni professionali di rilievo furono, nell’immediato secondo dopoguerra (aveva già passato i trenta, oscuro l’apprendistato), come pianista per l’orchestra swing di Fletcher Henderson e per un maestro del rhythm’n’blues quale Wynonie Harris. E si dimentica ancora più spesso, abbagliati dalla pazzesca coreografia nei concerti (fra antico Egitto e fantascienza, prima che ci pensasse quell’altro matto di George Clinton), che nella sua Arkestra hanno militato strumentisti di primissima schiera e influenti di loro (John Gilmore su John Coltrane, ad esempio). E poi: che la sua preparazione tecnica era solida e lui e i suoi accoliti viaggiarono nel futuro non solo nella finzione scenica. Poterono proprio perché lo sguardo al passato era limpido. Via di mezzo fra Hines e Taylor, via Ellington e con un tocco di Monk, Sun Ra è stato il primo a usare tastiere elettroniche nel jazz, ere geologiche prima di Hancock. Il primo a usare due bassisti, molto prima che venisse in mente a Ornette Coleman. Fra i primi a confrontarsi con certo classicismo di stampo impressionista. Sempre avanti.

In una discografia sterminata, e che dopo la morte – alla soglia degli ottant’anni, nel 1993 – ha invaso i negozi come mai era accaduto con l’artista vivente, individuare uno o due titoli che rappresentassero i vertici dell’arte di Sun Ra e per intero la racchiudessero – con il suo incredibile spaziare fra swing e avanguardia, doo wop e funky, exotica e bebop, free e psichedelia, cameristica ed errebì – era impresa non improba ma impossibile: semplicemente, non esistono (solo la doppia raccolta di “Singles” su Evidence ci va vicina, ma il livello è ineguale). Fra i tanti capolavori abbiamo allora optato per il secondo e ultimo album in studio per la ESP, datato 1965: uno dei più magmatici in assoluto e forse il più cupo, dal funereo e indimenticabile attacco di The Sun Myth a un buco nero che inghiotte universi chiamato Cosmic Chaos.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.13, primavera 2004.

Sun Ra - Monorails And Satellites

Monorails And Satellites

Eccentrico per antonomasia in una storia, quella del jazz, in cui di norma agli eccentrici la si è fatta trovare lunga, a una dozzina di anni dalla morte Herman Poole Blount risulta accettato pure dagli ambienti più conservatori. Prossimo alla canonizzazione, se non già fatto santo, da quanti, rifuggendo nei limiti del possibile la tendenza al pregiudizio che alligna in ognuno di noi, si sono accostati con curiosità sempre più entusiastica all’immane messe di dischi tornati in circolazione, o entrativi per la prima volta, nell’ultimo decennio. Ma tanto a questi, che in genere lo approcciano arrivando dal rock, che a quelli dell’uomo di Saturno sfuggono spesso un paio di aspetti basilari, sfaccettature importanti del prisma di una personalità multiforme: uno che la tradizione la conosceva bene e la amava, Fletcher Henderson un personale mentore e Duke Ellington un riferimento costante; un pianista provetto, sebbene non un virtuoso. Sarà anche, per la seconda che ho detto, perché di Sun Ra assiso solitario alla tastiera ve n’è ben poco? Howard Mandel, che firma le note di questa ristampa di una rarità fra i dischi rari, ne ricorda giusto un altro – “Solo Piano”, del ’77 e “zuppo di blues e tendente al sentimentalismo” – e in più un lavoro in coppia con il vibrafonista Walt Dickerson.

“Monorails And Satellites” è del 1966 o forse del ’67, comunque di uno dei periodi più visionari della visionaria carriera del Nostro, quello che lo vide accasato alla ESP ed esploratore di mondi “eliocentrici”. Qui certe dissonanze si sciolgono in pacificate meditazioni, swing e melodia prendono il centro del proscenio senza per questo fare smarrire all’artista una specificità assoluta. Questione di calore. Questione di colori. Un album delizioso.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.256, aprile 2005.

Sun Ra - Black Myth Out In Space

Black Myth/Out In Space

Fra gli applausi che salutano la fine di ogni brano in questo doppio CD, poco più di due ore di musica sopravvissute alle oltre cinque dei concerti originali (le altre tre sono state, letteralmente, cancellate dai responsabili della stazione radio che li registrò), fanno capolino fischi e urla di dileggio. Come stupirsene? Il Sun Ra che si presentò al pubblico di due importanti festival jazz tedeschi nell’autunno del 1970 risulta tuttora un alieno: cosa dovette sembrare al tempo ai jazzofili più paludati? Cosa poterono mai capire dell’isterico dialogo di fiati che punteggia Journey Through The Outer Darkness? Del caos palingenetico dell’estenuante Out In Space dal quale emerge, poco prima della fine, un piano in struggente assolo? Del puro rumorismo di We’ll Wait For You? Di quei suoni di synth stridenti che stuprano ovunque trame musicali la cui perfezione formale è celata da affastellamenti di materiali che vanno da Billie Holiday (Walkin’ On The Moon) alla New Thing (Discipline Series)? E tutta quella gente sul palco poi, abbigliata con costumi da antico Egitto, a offendere anche visivamente il loro educato buon gusto…

La MPS, che nel 1971 pubblicò un più concentrato riassunto dei due concerti (cinquanta minuti circa) sul raro “It’s After The End Of The World”, non lascia e anzi raddoppia. Della qual cosa le siamo grati. Cercate le musiche del 2000? Ne troverete molte in questi nastri di quasi trent’anni fa.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.10, marzo 1999.

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The Cure 1978-1996 (4): Faith

Faith

The Holy Hour. Primary. Other Voices. All Cats Are Grey. The Funeral Party. Doubt. The Drowning Man. Faith.

Fiction, aprile 1981 (la versione su cassetta ha il lato A occupato dalle otto canzoni di “Faith” e il lato B da “Carnage Visors”, colonna sonora di un omonimo film d’animazione astratto in bianco e nero che per alcuni mesi venne proiettato prima dei concerti del gruppo) – Registrato presso i Morgan Studios di Londra – Tecnici del suono: Graham Carmichael, Mike Hedges e David Kemp – Produttori: Mike Hedges e The Cure.

Se ‘Three Imaginary Boys’ e ‘Seventeen Seconds’ possono essere considerati lavori malinconici, ‘Faith’ è triste, ma triste sul serio. Prima di registrare lo volevamo più aperto alla speranza, abbastanza ottimista, ma durante la lavorazione le cose sono cambiate, l’atmosfera, che era alquanto rilassata e positiva in principio, man mano che si procedeva con le registrazioni è mutata. È stato un album parecchio difficile da portare a compimento, sotto molti punti di vista. Ci sono stati momenti in cui tutti e tre ci siamo fatti prendere dallo sconforto, dalla disperazione… Mi capita spesso, come accade a molti, di sentirmi toccato dall’assurdità delle cose… ci siamo lasciati andare e c’è molta negatività in questo LP. Si può tracciare un parallelo con ‘Pornography’. L’unica differenza rilevante è che quest’ultimo è più violento, collerico. All’epoca di ‘Faith’ vivevamo in un universo tutto nostro, non parlavamo quasi con nessuno, solo fra noi. Ci negavamo al mondo… Eravamo un po’ come una setta segreta.

Così nel 1986, chiacchierando con un giornalista francese, Robert Smith rievocava la genesi di quest’album. A proposito del quale due anni più tardi Mike Hedges dirà a Steve Sutherland: “‘Faith’ è più intenso di ‘Seventeen Seconds’, più umorale. Le sue canzoni per la maggior parte possono essere una perfetta colonna sonora se desideri impiccarti”. Il ricordo di un’impiccagione pare in effetti gravare sul terzo LP dei Cure: undici mesi prima della pubblicazione, nove prima che le sue otto canzoni venissero impresse su nastro magnetico (durante dieci giorni di lavoro senza pause presso i soliti Morgan Studios; dieci giorni che dovettero rivelarsi interminabili se nel ricordo di chi c’era hanno assunto la consistenza di mesi), si era così suicidato Ian Curtis, leader dei Joy Division e figura cardine del post-punk inglese, e l’ombra di quella morte incombeva sul rock come, quasi tre lustri dopo, incomberà la drammatica uscita di scena di Kurt Cobain. Forse perché era logico che agli entusiasmi del punk si sostituisse un certo disincanto, o forse perché la depressione economica induce giocoforza quella esistenziale e la Gran Bretagna dei lividi albori degli anni ’80 era depressa come in questo secolo era stata solo negli anni ’30: fatto sta che i Joy Division esercitarono un’enorme influenza sul rock britannico della prima metà dello scorso decennio, e in termini strettamente musicali, e in termini di mood. Dal punto di vista musicale il gruppo di Ian Curtis e quello di Robert Smith avevano avuto in comune l’uso del basso in funzione melodica oltre che (più che) ritmica, ma non si può dire che gli uni avessero mai influenzato gli altri o viceversa. Ma la desolazione strisciante e diffusa suscitata dalla morte di Curtis qualche effetto dovette averlo sulla scrittura e sui suoni di “Faith”. Magari, sommandosi alla depressione provocata in Tolhurst dalle gravi condizioni di salute in cui versava la madre (che morirà in pieno tour promozionale dell’album) e alla curiosa sindrome da invecchiamento di cui era preda Smith che, sì e no ventiduenne, era “consapevole del fatto che non avevamo più molto tempo per fare quella musica, perché la gente si sarebbe stancata abbastanza in fretta. E io prima di loro”.

Come accade con la maggioranza dei dischi, ad alcuni critici “Faith” piacque, ad altri (un po’ di più) no. Questi e quelli, però, chiamarono in causa i Joy Division nelle loro recensioni. Gli uni e gli altri annotarono che era un 33 giri che andava accettato o respinto in toto. Nell’intervista già citata in apertura il leader dei Cure non avrà niente da eccepire al riguardo.

Come ‘Seventeen Seconds’, ‘Faith’ è un LP da prendere o da rifiutare in blocco. Primary, che si distacca dal resto del disco, è un’eccezione: quando l’abbiamo incisa la prima volta era molto lenta, diversissima dalla versione conosciuta; una volta messe insieme tutte le canzoni e ascoltatele di fila ci siamo resi conto che non ce n’era una che potesse essere il lato A di un 45 giri. Ora, sapevamo che la nostra casa discografica avrebbe voluto, come è consuetudine, fare precedere l’album da un pezzo da esso estratto e ci rendevamo conto che sarebbe stato stupido fare uscire a 45 giri – che so? – The Drowning Man. Nessun dj avrebbe trasmesso un brano simile, la gente alla radio vuole sentire cose allegre… Dunque abbiamo rifatto Primary trasformandola in un pezzo pop e devo dire che così mi piace molto più di quanto non mi piacesse l’originale. Lenta era noiosa.

Preceduta da due rintocchi di campana, sospinta dall’incalzare di basso e batteria e di una chitarra più tesa a costruire il ritmo che non la melodia, compito quest’ultimo affidato a una voce cantilenante, Primary, pur greve e oscura com’è, lascia nelle orecchie un retrogusto pop che la accomuna ai titoli migliori schierati esattamente un anno prima in “Seventeen Seconds”: Play For Today, In Your House, A Forest, M… Ciò la separa, fino a renderla praticamente un corpo estraneo, dal resto di “Faith”, da cui la distingue anche una cadenza più sostenuta ove il resto del lavoro, con l’unica eccezione dell’aggressiva Doubt (che occupa sulla seconda facciata, probabilmente non a caso, la medesima posizione occupata sulla prima da Primary), viaggia su ritmi lentissimi.

Degli spettacoli che seguirono la pubblicazione di questo LP diversi ebbero a scrivere che piuttosto che concerti rock avevano l’aria di riti religiosi, funebri perdipiù. Lo stesso – avrete ormai inteso – si può dire dell’album, che già la copertina, curata da Porl Thompson (il quarto Cure fino alla rescissione del contratto con la Hansa) ed effigiante una sfocatissima Bolton Abbey (una chiesa in cui Smith era solito rifugiarsi da bambino) immerge in un clima plumbeo. Smith all’epoca era influenzato dall’ipnotica ripetitività dei mantra indiani e dei canti benedettini e qualcosa di quei climi sonici si insinua in “Faith”: in The Drowning Man molto lontani nel mix si odono fraseggi gregoriani e quasi ovunque la voce è resa catacombale anche dal passaggio attraverso stanze d’eco, che sdoppiandola le aggiungono ieraticità; le lugubri tastiere di All Cats Are Grey hanno in effetti un che di mantrico; e la costruzione di The Holy Hour, in cui a una semplice figura di basso si aggiungono gradualmente un filo di tastiere, una chitarra arpeggiata, una voce salmodiante, sa di cerimonie a Joujouka spogliate dalla gioia che è loro connaturata e viste attraverso il grandangolo della lezione dei minimalisti.

Ma cogliere un frammento qui e uno là di “Faith” e passarlo al microscopio ha poco senso: più che una raccolta di canzoni, questo LP è una lunga suite di cui ogni brano costituisce un movimento. Le variazioni sul tema sono minime e la monotonia (effetto voluto?) che rischia costantemente di rendere l’ascolto, quando non distratto, faticoso ne fanno il meno riuscito dei dieci lavori in studio dei Cure.

Pubblicato per la prima volta, in forma diversa, in Avventure immaginarie, Giunti, 1996.

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Quando John Fogerty plagiò se stesso

John Fogerty - Centerfield

Forse è stata la soddisfazione più grande della sua vita e per certo una delle emozioni più forti che abbia mai provato e no, non sto parlando di quando i Creedence Clearwater Revival furono introdotti nella “Rock And Roll Hall Of Fame”: momento indimenticabile per ragioni tutte sbagliate quello, il sapore di fiele della rivalsa sugli antichi compagni scientemente gustato in luogo di quello di miele di un riconoscimento meritato come pochi mai. Piace pensare, per non schifare troppo l’uomo quando l’artista è immenso, che il ricordo di quella livida sera di inizio 1993 John Fogerty abbia cercato da allora di rimuoverlo e, non potendo, quantomeno al pensiero provi rammarico. C’è da scommettere che fino all’ultimo dei suoi giorni conserverà invece con orgoglio e piacere la memoria di un evento a noi assai più vicino. Aprile 2009: si inaugura a New York il nuovo Yankee Stadium e il momento clou della cerimonia è l’esecuzione da parte dell’autore stesso – naturalmente al centro del diamante di gioco – di una canzone che da ventiquattro anni e tre mesi è un inno, qualunque sia il colore del loro tifo, per tutti gli appassionati di baseball. Vale a dire per più o meno tutti gli americani. Praticamente sin dal giorno della pubblicazione dell’album – questo – cui dà il titolo, Centerfield è entrata nella cultura popolare USA andando – ultima – a fare compagnia ad almeno un’altra dozzina di classici scritti dal Nostro. A farla peculiare nel nobile consesso una leggerezza spensierata cui l’ex-leader dei Creedence non si è arreso sovente in vita sua. Magari giusto giocando o guardando giocare a baseball. Nella sua prima foto in cui ci si imbatte nel libretto dell’edizione del venticinquennale da poco mandata nei negozi dalla Geffen/Universal, verga sorridente un autografo non sulla copertina di un disco bensì su una pallina.

Enorme lo stupore suscitato da “Centerfield” all’uscita. Sorprendeva tanto per cominciare il semplice fatto che fosse in giro un nuovo album di John Fogerty quando nessuno – a dieci anni da un omonimo predecessore capace solo a tratti di rinverdire i fasti di “Willie And The Poor Boys” e “Cosmo’s Factory”; e soprattutto a nove dal disastro di “Hoodoo”, un disco talmente brutto da vedersi negare il “si stampi” dalla Asylum – se lo aspettava più. Ma ciò che maggiormente lasciava allibiti, felicemente, era che si potesse tornare ad accostare al riverito nome la parola “capolavoro” senza tema di smentite. Un quarto di secolo dopo certi entusiasmi paiono un pochino esagerati e nondimeno il disco resta solido e piacevole, forte in particolare di quella che era in origine una prima facciata pressoché perfetta. Al centro il favoloso omaggio a Elvis, fra country e rockabilly, di Big Train From Memphis e a fargli corona l’epicità spigliata di The Old Man Down The Road, una Rock And Roll Girls da Springsteen al top, la struggente rievocazione degli anni ’60 di I Saw It On TV e, un gradino sotto, il martellare stentoreo di una Mr. Greed che, conoscendo anche sommariamente la storia dell’artefice, si poteva facilmente immaginare a chi fosse dedicata. Polemica pungente e tuttavia nulla di fronte alla ferocia di una Zanz Kant Danz ingannevolmente giuliva con il suo funky-pop ricercatamente plasticoso, stilisticamente un corpo estraneo sistemato a congedo dopo i torpori country-blues di Searchlight, l’innodia giubilante della traccia omonima e una I Can’t Help Myself schiacciasassi. Bersaglio degli strali al curaro di Fogerty era il nemico giurato Saul Zaentz, presidente di quella Fantasy cui il catalogo CCR continuava a fruttare milioni di dollari all’anno. Che non la prendeva bene.

Incorreggibile John! Incapace di resistere ai cattivi consigli datigli dall’ego, oppure o anche dal rancore, quasi riusciva a rovinarsi una rentrée trionfale (due singoli nei Top 20 e l’album dritto al numero uno). Zaentz gli intentava la causa più ridicola mai approdata a un tribunale, contestandogli l’eccessiva somiglianza di The Old Man Down The Road a Run Through The Jungle dei Creedence (insomma: lo accusava di avere plagiato se stesso), e naturalmente la perdeva, ottenendo però a latere almeno di vedere modificato il titolo della troppo esplicita canzone di cui sopra. Quante energie sprecate che avrebbero potuto essere messe a frutto più proficuamente, ad esempio nella realizzazione di “Eye Of The Zombie”, che nell’86 stupiva per ragioni opposte rispetto al predecessore: per non essersi fatto attendere che ventuno mesi e per una scrittura sottotono che pessimi arrangiamenti venati di elettronica finivano per rovinare del tutto. Di quello è auspicabile che una stampa celebrante (si fa per dire) il venticinquennale non ci sia. Viceversa benvenuto questo “Centerfield” tirato a lucido e appena ingrassato da due bonus (erano state al tempo dei lati B) belle frizzanti: l’indiavolato zydeco My Toot Toot e il gospel I Confess.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.675, ottobre 2010. L’ex-leader dei Creedence Clearwater Revival compie oggi sessantanove anni.

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Happy Birthday To Siou(xsie)

Compie oggi gli anni Susan Janet Ballion, meglio nota con il nome d’arte di Siouxsie Sioux. Curiosamente, non ho un vero articolo su di lei – e sull’epopea Banshees – da tirare fuori dagli archivi, siccome sull’indimenticato “Extra” altri (eccellentemente) se ne occupò. Celebro allora la ricorrenza ripubblicando due recensioni che, messe insieme, sintetizzano comunque bene il mio pensiero su una bad girl che fece epoca e sui suoi formidabili sodali.

Siouxsie And The Banshees - Voices On The Air The Peel Sessions

Voices On The Air: The Peel Sessions (Polydor, 2007)

Quanto ci manca John Peel! Che guida preziosa sarebbe ancora per orizzontarsi in un’attualità ingestibile da noi comuni umani, quando lui fino alla fine ebbe un radar pressoché infallibile per qualsiasi cosa nuova valesse la pena conoscere. E quanto ci fa rodere il pensiero che se ne sia andato proprio quando gli sviluppi tecnologici avevano reso facile seguirlo anche a chi non abita nel Regno Unito. Nel contempo, quanto ci consola che abbia lasciato un’eredità a tal punto immane che, benché siano ormai vent’anni che escono raccolte di incisioni per questo o quello dei suoi programmi, ancora tanto resta da recuperare. Si pubblica per la prima volta, si riordina o entrambe le cose. Si prendano ad esempio Siouxsie & The Banshees. Nel 1987 e nel 1989 erano usciti due dodici pollici con le loro prime sedute di registrazione per Peel – rispettivamente del 29 novembre ’77 e del 6 febbraio ’78 – e fra le svariate centinaia di mix residuo di quando recensivo i singoli per questo e poi un altro giornale li ho conservati da allora come due dei più preziosi. L’uno e l’altro come minimo da Top 20, azzarderei. Nel 1991 erano stati messi assieme in un mini, peraltro da tempo di ardua reperibilità, ma non mi risulta che a oggi le tre sedute successive – 9 aprile ’79, 10 febbraio ’81 e 28 gennaio ’86 – avessero mai ricevuto una stampa legale. Eccole qua, finalmente riunite in settanta minuti netti di totale memorabilità. Anche se poi sono proprio le due già edite a farsi preferire.

Ho sempre pensato che i migliori Banshees siano stati i primissimi. Nemmeno quelli dell’esordio a 33 giri “The Scream”, no. Bensì quelli che San John catturava diversi mesi prima che ponessero mano a quel comunque colossale debutto, addirittura prima che rimediassero un contratto discografico. Lontani dagli stereotipi gotici nei quali alla lunga cadranno, quei Banshees facevano onore al loro nome facendo mulinare svelte nenie e innodie ultramondane, e un’elettrica affilata come una lama di Toledo e urlante come un gatto indemoniato, su un tribale tambureggiare a rotta di collo. Quintessenza di punk, ma già un passo oltre. Sta qui la Love In A Void definitiva, è qui che la paranoia di Suburban Relapse non fa prigionieri, qui Hong Kong Garden induce centripeta al delirio e allora si salvi chi può dall’Helter Skelter. Siamo alla trascendenza. Più terreno il resto di un programma in ogni caso rimarchevole, in particolare in una stentorea Regal Zone e in una Voodoo Dolly della quale Patti Smith avrebbe potuto menar vanto.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.630, gennaio 2007.

Siouxsie And The Banshees - A Kiss In The Dreamhouse

A Kiss In The Dreamhouse / Nocturne / Hyeana / Tinderbox (1982, 1983, 1984, 1986; ristampati Polydor, 2009)

Dice bene Paul Morley nelle stupende – stupende! – note che accompagnano ciascuna di queste quattro ristampe e in particolare in quelle a corredo di “A Kiss In The Dreamhouse”: “Fra noi c’era chi ascoltava Siouxsie & The Banshees (…) per via di come sapevano trasformare in musica pop l’agonia della vita e della morte. Altri, bene o male che fosse, li prendevano molto più seriamente”. Colpa di questi ultimi se a un certo punto, proprio a partire dall’82, che era quando usciva il primo di questi quattro album, si cominciava a percepire Susan Dallion e compagni se non (ancora) come delle macchiette quantomeno come gente in parabola calante. Ridotta a un’iterazione sempre meno ispirata, dopo avere ideato archetipi, di stereotipi. Colpa della marea montante di gruppi e gruppetti dark e dei loro fan così lugubri da far ridere. I Banshees avevano liberato la bestia gotica e per quanto si potesse avere amato uno o tutti i fantastici quattro primi LP – “The Scream”, “Join Hands”, “Kaleidoscope” e “Juju” – riusciva difficile non rimproverarglielo. Che avevamo fatto di male per meritarci il Batcave? Così questi secondi quattro LP della compagine londinese, usciti fra l’82 e l’86 e adesso rimasterizzati ed espansi (unica scaletta invariata quella di “Nocturne”), venivano accolti complessivamente non male ma con molta sufficienza e poca attenzione.

Togliamo pure dal conto “Nocturne”, che è il più classico dei doppi (di CD ne basta uno) dal vivo e sul quale – annotato magari con soddisfazione di un’asciuttezza che rimandava ai bei tempi antichi – non è che ci fosse da ricamare chissà che. Ciò premesso, con il senno e la prospettiva del poi stupisce che non si siano colte al tempo sia la bellezza che le caratteristiche che li facevano ciascuno peculiare e chiaro indizio di un gruppo tutt’altro che immobile e sempre uguale a se stesso. Oggi si possono valutare meglio la sottile vena sperimentale che attraversa “A Kiss In The Dreamhouse”, la sapienza degli arrangiamenti a tratti neo-classici di “Hyaena”, l’inclinazione sorprendentemente uptempo (più le atmosfere che i ritmi in sé, si badi) di “Tinderbox”. Ben al di là di qualche canzone della cui memorabilità ci si rese conto subito (Cascade, Swimming Horses, Candyman, Cities In Dust) è una quaterna con non molto da invidiare alla prima. La discesa vera comincerà dopo. O no? Qualche settimana fa mi è capitato di riascoltare “Peepshow” e di scoprirlo infinitamente superiore al mediocre ricordo.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.658, maggio 2009.

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Emozioni da poco (32): Patti Smith

La Patti Smith anni ’70. In tutta la sua Gloria.

Cheap Thrills 14

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La schizofrenia di Quadrophenia

Se – eufemismo – non ho mai amato “Tommy”, nemmeno “Quadrophenia” rientra precisamente nel novero dei miei album preferiti di ogni epoca. Per quanto con il tempo – come ammettevo in questa recensione di una sua ristampa superlusso, due anni e mezzo or sono – lo abbia un po’ rivalutato.

The Who - Quadrophenia

Ai quarant’anni dalla prima uscita ne mancano due e dunque nessun anniversario è preso a scusa per questa serie di riedizioni – tre – dell’ultimo capitolo sul serio rilevante della saga degli Who. La propiziano le smanie di archivista di Pete Townshend ma soprattutto, è il sospetto, i timori dell’industria discografica che si sia al “day after”, che si tratti soltanto più di raggranellare qualche spicciolo ancora e poi lasciare il campo e, insomma, fra due anni potrebbe essere tardi. Convinzione inconfessabile da cui derivano comportamenti folli che porteranno probabilmente all’autoavverarsi della profezia: per un verso si svendono i cataloghi a quattro-cinque euro ad album, per un altro su un numero ristretto di titoli si imbastiscono speculazioni come quella su “Achtung Baby” degli U2, la cui riedizione über deluxe per il ventennale è stata messa in vendita a quasi cinquecento euro e, essendo la mamma dei bischeri sempre incinta, è pure andata a ruba. Per “Quadrophenia” si è esagerato meno ma solo un po’: riedizione soltanto rimasterizzata (sia in CD che in vinile), oppure quasi raddoppiata dall’aggiunta di undici demo, o espansa ancora di più e, ammenniccoli sui quali non mi soffermo a parte, l’appassionato dovrà valutare se diciassette ulteriori demo valgano oppure no ottanta euro.

Ah già, dovrei parlare del disco… ma che dire, trattandosi di uno dei più mitizzati negli annali della popular music? Magari giusto che la diatriba sul suo valore (ammetterò di averlo a lungo forse sottovalutato e, nel contempo, di considerarlo tuttora più incensato di quanto non meriti) può essere risolta annotando come la sua rilevanza derivi dall’impianto complessivo – autentica rock opera in luogo che mero concept album – e non certo da un mettere in fila una canzone indimenticabile via l’altra. Più del singolo brano di questo lavoro monumentale già in partenza (due 33 giri, diciassette tracce, oltre ottanta minuti) permangono nella memoria atmosfere e tessiture, la raffinatezza di arrangiamenti che se talvolta magnificano l’efficacia delle melodie talaltra ne mascherano la debolezza. Se non difettano a “Quadrophenia” né riff di buona incisività – quello elastico che propelle The Real Me fra fiati roboanti, quello mastodontico che fa irruzione in Bell Boy – né bei guizzi di rock’n’roll primevo, il dubbio che a lasciarsi alle spalle (proprio nel mentre la si rievocava) la rude giovinezza protopunk si perse più di quanto non si guadagnò permane.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.689, dicembre 2011.

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Quel gran bluff di Tommy

Compie oggi quarantacinque anni “Tommy”. Per molti il classico per antonomasia degli Who e uno dei capisaldi della storia del rock. Non per me.

The Who - Tommy

Tanto vale ammetterlo subito, anche se il lettore più attento di una rubrica nella quale di costoro si è scritto più volte se ne sarà già accorto: ho un rapporto difficile con Pete Townshend e soci. Cattivo no, perché ho sempre considerato “Who’s Next” un capolavoro, il “Live At Leeds” imperdibile e una manciata di canzoni – My Generation, The Kids Are Alright, Substitute – dei classici. Ma agli Who non ho mai perdonato il complesso di inferiorità nei confronti della musica colta o se vogliamo, girando i termini, quella loro confusa voglia di fare crescere il rock oltre la forma-canzone. In altre parole agli Who non ho mai perdonato “Tommy”, che nel sentire comune viene ricordato come la prima rock-opera quando in realtà fu preceduto di oltre cinque mesi da “S.F. Sorrow” dei Pretty Things. Come se il rock dovesse per forza avere bisogno, per diventare adulto (e questo mentre la psichedelia mostrava ben altre possibilità di sviluppo), di storie pretestuose stiracchiate per quattro facciate e sostenute da musiche dall’inconsistente al tronfio. E questo dal gruppo che era stato capace, tre anni prima, di definire un’era con l’essenziale assalto all’arma bianca di My Generation.

“Tommy” fa parte di un piccolo lotto di dischi che sono stati comunque importanti, che non ho mai sopportato ma che ogni tanto riascolto. Fosse mai che cambio idea. A questo giro la scusa era ottima, visto che si trattava di provare una stampa splendida sin dalla confezione – con la copertina apribile in tre che riproduce fedelmente l’originale e come l’originale è accompagnata da un ricco libretto – e ancora di più nei suoni, tanto più rimarchevoli quanto più alzi il volume. Una nitidezza, un impatto, una dinamica senz’altro superiori all’edizione su CD in mio possesso e della quale dunque mi libererò. Peccato per tutto il resto. Che la vicenda narrata sia risibile e il filo della narrazione si perda spesso, che da un’ora e un quarto a tratti da agonia si cavi fuori giusto una canzone (Pinball Wizard) degna di venire nominata nello stesso discorso con quelle dianzi citate, che all’influenza deleteria di quest’album siano imputabili mezzo progressive del più indigeribile e tutto Meat Loaf. Peccato. Però io la penso così e voi magari l’opposto e in tal caso sappiate che da qui in poi è questa, se è di alta fedeltà che si parla, l’edizione di riferimento di “Tommy”. Accettabile – una tantum trattandosi di quegli esosi della Classic Records – il prezzo.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.280, giugno 2007.

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The Cure 1978-1996 (3): Seventeen Seconds

Seventeen Seconds

A Reflection. Play For Today. Secrets. In Your House. Three. The Final Sound. A Forest. M. At Night. Seventeen Seconds.

Fiction, aprile 1980 – Registrato presso i Morgan Studios di Londra – Tecnici del suono: Mike Dutton e Mike Hedges – Produttori: Mike Hedges e Robert Smith.

In Ten Imaginary Years, puntuale biografia dei Cure scritta da Steve Sutherland ed edita dalla Zomba, dipartimento letterario della Fiction, nel 1988, Robert Smith così rievoca la genesi di “Seventeen Seconds”: “Dopo il tour (N.d.A: quello celeberrimo in cui Smith sul palco si divise fra i Cure e i Banshees) registrai dei nastri da solo, a casa. Usai l’organo Hammond di mia sorella, che aveva i pedali dei bassi e una piccola batteria elettronica, e scrissi quasi tutte le musiche di ‘Seventeen Seconds’ con tempi di bossanova o swing. Avevo già da un pezzo i testi, strimpellai gli accordi con la mia vecchia Top 20 e completai sei o sette canzoni in una settimana. Quando le feci ascoltare ai miei compagni Lol era eccitatissimo, ma Michael continuava a leggere il giornale… Allora andai da Simon Gallup e lui ne sembrò sul serio entusiasta, anche perché in quel periodo il suo gruppo si dedicava a stupide canzonette pop; sapevo che si sentiva frustrato e così gli chiesi se gli sarebbe piaciuto suonare nei Cure. Ricordo che mi disse: ‘Perché? Ti sei sbarazzato di Michael?’. E io: ‘No, non ancora, ma se verrai a suonare il basso con noi lui è fuori’”.

Di bossanova, che sa essere riflessiva e triste, con immane sforzo di fantasia si può rintracciare qualche residuo fra i solchi di “Seventeen Seconds.” Di swing proprio non vi è ombra. E nemmeno di ombra ce n’è tanta, ché lo scatto fuori fuoco di copertina, che ferma uno scorcio di foresta immerso nella lattiginosa luce di un nebbioso mezzodì invernale, è rappresentativo come di rado accade di ciò che poi si ascolta sul disco. Pur distante dal monolitismo a venire di “Faith” e “Pornography”, “Seventeen Seconds” è lavoro dai chiaroscuri ridotti rispetto a “Three Imaginary Boys”, più compatto, uniforme. Forse anche perché venne registrato in un lasso di tempo ridotto, fra il 13 e il 20 gennaio 1980 (fu poi mixato fra il 4 e il 10 febbraio), ove le sedute di incisione del predecessore si erano protratte, pochi giorni alla volta, per diversi mesi. Sicuramente perché, estromesso già il primo giorno Parry dallo studio, Smith afferrò sin dal principio del viaggio il timone e, facendosi giusto dare qualche consiglio dal più esperto (e fidatissimo) Mike Hedges, portò la nave all’approdo seguendo una rotta priva dei cambi di velocità e direzione di “Three Imaginary Boys”. Aveva le idee chiarissime questa volta il leader dei Cure quando entrò con il gruppo nei Morgan Studios: “Volevo che il disco si ispirasse a Nick Drake, con la veste limpida e raffinata di ‘Low’ di David Bowie. Lo immaginavo piuttosto acustico, avevo ascoltato parecchia musica per violoncello e pensavo sarebbe stato bello avere batteria, basso, chitarra e un grande vuoto nel mezzo. Volevo qualcosa di molto particolare”. Si sente.

Si unisca a ciò un livello di scrittura costantemente alto, senza i picchi e le cadute dell’album d’esordio, ove canzoni epocali convivono con altre trascurabili, e tutte le ragioni per le quali “Seventeen Seconds” è superiore a “Three Imaginary Boys” sono state enunciate.

A riempire parzialmente il “grande vuoto” che Smith ipotizzava ci sono le tastiere di Matthieu Hartley, che ora creano effetti space come da lezione del krautrock (o piuttosto del movimento new romantic, al tempo emergente? e Eno… dove lo mettiamo Eno?), ora sono scudisciate che incrementano il propellente ritmico della appena costituita, ma già sorprendentemente affiatata, coppia Gallup/Tolhurst. Hartley, proveniente come Simon Gallup dai Magspies, era stato invitato da Robert Smith a unirsi al gruppo sulla spinta dell’impulso di un attimo: voleva evitare a Gallup, il leader dei Cure, il disagio di sentirsi “quello nuovo” e dunque pensò bene di affiancargli qualcuno che già conoscesse bene.

Una volta che Hartley c’era, si trattava di sfruttarne bene la presenza: “Non lo conoscevo a fondo e non ero sicuro che il gruppo avesse bisogno di un sintetizzatore, però pensavo che aggiungere un nuovo strumento sarebbe stata una buona idea. Mathieu aveva un Korg Duophonic, a mio parere perfetto perché non vi si possono suonare più di due note insieme. Cominciammo a provare e in quei giorni ero molto su di giri: fissavamo addirittura concerti senza neppure avere i brani pronti”. Questi i ricordi di Hartley al riguardo: “Quando Robert mi chiese di entrare nei Cure risposi immediatamente di sì, perché la prospettiva era assai eccitante. La mia posizione nel gruppo era anomala, non ne ero ancora parte integrante, ma non ero neppure in prova. Facevo quello che mi diceva Robert”.

Hartley, caratterialmente scontroso e al contrario di Smith, Gallup e Tolhurst poco disposto alla bisboccia, non si integrerà in effetti mai nei Cure e li lascerà a meno di un anno dall’ingresso in squadra. Il suo apporto a “Seventeen Seconds” è però positivo e importante: quasi mai in primo piano, la sua tastiera dà con discrezione pienezza a un suono che sarebbe se no eccessivamente rarefatto e lo sottrae al rischio della monotonia. Il ritorno a un organico a tre si rivelerà inizialmente deleterio per i Cure: fra il riuscito “Seventeen Seconds” e il capolavoro “Pornography”, “Faith” sarà opera interlocutoria e unidimensionale. Ma di questo si dirà più avanti.

Chi si integrò perfettamente fu invece Simon Gallup che, tolto un intervallo di un anno e mezzo, ha da allora mantenuto il posto in formazione ed è dunque oggi, dopo Robert Smith, il Cure di più antica – è datata novembre 1979 – militanza. Il suo approccio allo strumento era tipicamente new wave: il suo basso è melodico quanto lo era quello di Dempsey ma non suona mai una nota più dell’indispensabile. Il suo stile esente da svolazzi sarà funzionale tanto agli spartani Cure della trilogia dark inaugurata da “Seventeen Seconds” che a quelli dal suono più variegato di lavori come “Kiss Me Kiss Me Kiss Me” e “Wish”.

“Seventeen Seconds” si apre con uno strumentale dal titolo programmatico: A Reflection. Posato e malinconico, certifica inequivocabilmente l’influenza esercitata in quel periodo dalla musica cameristica su Robert Smith. Il dialogare di chitarra e tastiere non è poi granché diverso dagli scambi che possono intercorrere fra un piano e un quartetto d’archi, o fra un piano e un violino, e l’assenza, oltre che della voce, della batteria contribuisce a donare all’assieme una dimensione classicheggiante, fuori dal tempo. È un contrasto marcato (l’unico del disco, praticamente) e piacevole quello che si crea fra l’atmosfera lontana distanze siderali dal rock di A Reflection e il basso trascinante e la chitarra nel contempo sincopata e fluida della seguente Play For Today, una canzone che fa ancora parte delle scalette concertistiche del gruppo e che è, insieme a In Your House (altro brano tuttora suonato dal vivo), il pezzo forte della prima facciata dell’album, il più svelto a scolpirsi nella memoria. A fronte dell’immediatezza, a dispetto del senso di spleen che le impregna, di queste due canzoni, Secrets e Three paiono dapprima svolgere una funzione semplicemente di raccordo, ma a un ascolto più attento svelano qualità certo più discrete ma non meno solide: il basso “ticchettato” di Three, le voci inintelleggibili sullo sfondo estremo, il pulsare da macchinario industriale che vi appone la parola “fine” sono tocchi che rivelano la maturità compositiva e la notevole padronanza dell’arte dell’arrangiamento dell’ancora solo ventunenne Robert Smith.

La seconda facciata si apre a immagine e somiglianza della prima, ma rispetto a A Reflection The Final Sound (meno di un minuto) è niente più che un bozzetto, uno schizzo buttato giù un po’ affrettatamente. Come il suo fratello maggiore prepara comunque bene la strada all’irrompere in scena del brano principe della facciata, nonché dell’album tutto: uscita anche a 45 giri, A Forest esibisce uno dei giri di basso più copiati degli anni ’80, una melodia limpida, un arrangiamento attento al particolare – si badi a come e quando entra Hartley, al giocare con i piatti di Tolhurst, al modo in cui la chitarra di Smith interagisce con il basso di Gallup. Una canzone perfetta, come perfetto è l’attacco di M, che la segue a ruota, con la sua chitarra arpeggiata, le ondate di tastiere, basso e batteria che si comportano quasi fossero uno strumento solo. Passando per la desolata At Night, che il Korg di Hartley tinteggia di tossici fumi di fabbrica, si giunge al brano che intitola l’album, piazzato come in “Three Imaginary Boys” (così sarà anche in “Faith”, “Pornography” e “The Top”) a mo’ di epilogo: dopo una partenza in moviola di gusto sepolcrale, Seventeen Seconds accellera appena prima che entri la voce, per poi decelerare e, in luogo che sfumare, spegnersi.

Il pulsare della batteria che si arresta di colpo evoca l’immagine di un cuore che cessa di battere. Accade raramente che un disco “pop” susciti emozioni così intense. Sotto paramenti esistenzialisti “Seventeen Seconds” cela un ribollire di sentimenti da Sturm und Drang.

Pubblicato per la prima volta, in forma diversa, in Avventure immaginarie, Giunti, 1996.

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Hallelujah (I Love Her So): la meteora soul Mitty Collier

Mitty Collier - Shades Of A Genius

Statene certi, di Mitty Collier sentirete ancora parlare”: così tal Grower Lewis del “Fort Worth Star Telegram” (!) si congeda dal lettore delle note di copertina di questo “Shades Of A Genius”, album che la Chess dava alle stampe presumibilmente nel 1965 e dico presumibilmente perché una data non l’ho trovata da nessuna parte e l’ho dovuta dedurre in base alla presenza o all’assenza in scaletta di singoli di cui ho viceversa rintracciato l’anno di pubblicazione. A tal punto si sa poco di Mitty Collier, che pure nel circuito della musica sacra è ancora attiva, oggi sessantaquattrenne: e dovreste avere già inteso che quelle di Lewis furono delle “ultime parole famose”, che dopo l’uscita del suo primo LP la signora letteralmente spariva dalle mappe del soul, salvo ritornarci decenni dopo nei risvolti più nascosti, quelli frequentati da superintenditori che sussurrano con fare cospiratorio di vinili che si scambiano alle fiere, o su eBay, a colpi di decine quando non di centinaia di dollari. Non ve la regalano davvero, i dischi Speakers Corner – si sa – costano assai, ma sarà meno doloroso per le vostre tasche procurarvi questa fresca ristampa, dai suoni calorosi e sufficientemente dettagliati per quanto coperti da una patina di antico, che non cercare di rintracciare una copia originale magari frusciante. E alla vostra anima farà più che bene, benissimo.

La Collier oggi non solo canta il gospel ma è il pastore di una congregazione (sede all’8201 di South Dobson Avenue, dovesse capitarvi di passare dalle parti di Chicago) e chissà che cosa pensa, se la censura o la perdona o la fa sorridere, della ragazzina che fu, che coglieva il suo più grande successo con la vivace e sentimentale insieme I Had A Talk With My Man Last Night, nell’autunno del 1964. Profano l’argomento, ma la musica? Ripresa pari pari dal classico di James Cleveland (regolarmente accreditato come autore) I Had A Talk With God Last Night. Vi è scappata la risata, eh? Il trucco, riuscito benissimo, veniva replicato da lì a pochi mesi con una No Cross, No Crown trasformata in No Faith, No Love. Era il terzo singolo di fila nei primi trenta della classifica R&B per la fanciulla ma non ce ne saranno altri, giusto qualche successo locale, prima del passaggio a una minuscola etichetta di Atlanta e dell’abbandono, nel 1972, della scena secolare. Entrambi i brani figurano in “Shades Of A Genius”, dalla cui scaletta manca invece il primo dei tre 45 giri in questione, I’m Your Part Time Love. Vi regala in compenso altre dieci canzoni dagli arrangiamenti sofisticati ma senza eccessi e dalle interpretazioni dal viscerale al carezzevole, e fra esse diverse ottime riprese (da cui il titolo) del Genius per antonomasia del soul, Ray Charles: Come Back Baby, Drown In My Own Tears, Hallelujah (I Love Him So), Ain’t That Love. Altri bei momenti: il bluesone infiorettato di archi di I Gonna Get Away From It All; un’esuberante lettura della My Babe di Willie Dixon; una dolcissima Let Them Talk in cui la voce è abissale. È insomma un LP eccellente e all’ascolto non pare esagerata l’inclusione, da parte del mensile “Mojo”, qualche anno fa, in una lista di capolavori del soul di tutti i tempi.

 Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.262, novembre 2005.

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