Archivi del mese: luglio 2012

Senza parole

1925-2012

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101 canzoni per le quali vale la pena vivere (76)

Fugazi – Waiting Room (dall’EP “Fugazi”, Dischord, 1988)

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Il blues dagli anni ’20 agli anni ’60: una discografia base

Non solo considerando numeri e rilevanza crescenti del mercato delle ristampe ma anche volendo regalare una volta al mese a una rivista all’epoca settimanale un tot di pagine meno strettamente legate all’attualità, e di taglio storicizzante, nel febbraio 2000 Federico Guglielmi ideava l’inserto “Classic Rock”. Da allora appuntamento irrinunciabile, sopravvissuto al ritorno a una cadenza di pubblicazione mensile, per i lettori del “Mucchio”. Era un progetto che sin dal giorno uno mi trovava entusiasticamente partecipe e al quale il mio primo contributo era una discografia base di punk (dieci titoli più dieci) cui, nei mesi e negli anni, innumerevoli altre si sono aggiunte. Otto in tutto quelle firmate dal sottoscritto, tre delle quali (proprio il punk e poi new wave e krautrock) sono riprese nello speciale numero antologico di agosto 2012 del giornale, fresco di uscita in edicola. Avendo in febbraio già ripescato su questo blog una piccola guida al power pop, è mia intenzione riprendere ora le quattro mancanti all’appello. Ecco la prima.

Innanzitutto bisogna capirsi sul significato della parola, se con “blues” si intenda soltanto un genere musicale o non piuttosto un modo di porsi rispetto alla vita. Nel primo caso la migliore definizione resta quella di Harold Courlander: “una forma variabile che ha il suo centro in prossimità delle dodici misure, con il pendolo oscillante dell’improvvisazione o della variazione capace di produrre un certo numero di possibili alternative”. Nel secondo, chi ne ha mai reso il sentimento meglio di Robert Johnson? “Il blues/è un brivido profondo che ti scuote/…/è la malattia di un vecchio cuore dolente” cantava in Preaching Blues quel giorno del 1936 in cui registrò sedici delle ventinove canzoni che l’hanno reso immortale. Nel primo caso, si scopre che un brano archetipale come St. Louis Blues di W.C. Handy non è propriamente un blues, né lo sono classici quali Trouble In Mind o Key To The Highway. Nel secondo, sarebbe stato necessario allargare a dismisura la nostra indagine fino a comprendere un Tom Waits, un Nick Cave. Urgeva un compromesso. Stabilire dei limiti stilistici, geografici, temporali. Allora sì: il blues è un genere musicale dal canone ben defininito ma è pure una filosofia esistenziale. Per non fare che un esempio, Leadbelly rientra solo parzialmente in una categoria e in toto nell’altra. Come non considerarlo?

Il blues sembra apparire dal nulla all’alba del Novecento. O forse appena prima, siccome dobbiamo affidarci alle cronache essendo la documentazione discografica inesistente fino agli anni ’10 e poco significativa fino all’inizio del decennio seguente. Suoi principali antesignani sono  lo spiritual, la work song, lo holler e la ballata. Del primo il blues riecheggia aspetto antifonale e procedere melodico. Della seconda la cadenza marcata. Del terzo la tendenza all’improvvisazione e il tono lamentoso. Dalla quarta, infine, attinge un patrimonio di canovacci lirici e musicali di derivazione pure europea. Dice bene Greg Ward quando ricorda, dopo avere annotato che lo stile chitarristico bottleneck ha origini hawaiiane, che molte delle prime canzoni “blues” vennero in realtà scritte per il vaudeville. È insieme, dunque, musica afroamericana per eccellenza e inno al meticciato. Fino agli anni ’20 blues e jazz convivono, spesso indistinguibili e ne sia massima testimonianza la versione definitiva della già citata St. Louis Blues, incisa da Bessie Smith nel 1925 con l’accompagnamento di un certo Louis Armstrong. Sono tutte donne le prime stelle del blues e stelle non per modo di dire: la Smith nel 1923 vende quasi ottocentomila copie del suo 78 giri d’esordio ed era entrata in sala sulla scorta di successi anche più consistenti di Mamie Smith (Ma Rainey e Memphis Minnie le imiteranno subito). È uno stile alquanto sofisticato il loro, ove gli uomini che occupano la ribalta da metà decennio in poi (Blind Lemon Jefferson apre la via) portano seco una forma più grezza che sente le radici rurali pure quando dal Delta del Mississippi ci si sposta a Chicago, dal Texas a Los Angeles, dalla Georgia a New York. La Grande Depressione uccide il mercato discografico e la Seconda Guerra Mondiale ne frena la ripresa. Al passaggio fra ’40 e ’50 il blues si elettrifica e semina cromosomi che si faranno rock’n’roll e rhythm’n’blues, soul e funky. Massima è la sua popolarità fra la gente di colore, che comincia ad abbandonarlo a favore di altri idiomi proprio mentre i bianchi lo abbracciano appieno: prima la Sinistra U.S.A. che lo incorpora nel calderone del folk revival; quindi ragazzacci britannici che si chiameranno Rolling Stones, Animals, Yardbirds. Via Jimi Hendrix e Led Zeppelin avviene una metamorfosi che si battezzerà hard.

Ecco, la nostra storia si arresta, idealmente, al 1967, al debutto di Hendrix, che è ancora blues ma è definitivamente altro. L’evoluzione del genere finisce lì. Il che non vuol dire che gli antichi maestri non abbiano da allora fatto capolavori e così qualche discepolo. Il blues ha cent’anni e forse fra altri cento usciranno ancora – giacché “è un brivido profondo che ti scuote” e gli uomini passano ma i brividi restano – grandi dischi di blues. Ma in nessun modo potranno essere “nuovi”.

WILLIE DIXON “The Chess Box” (Chess, 1988) – Il minimo indispensabile, due CD, se non si vuole investire nel quintuplo “Blues Dixonary”, più adeguata celebrazione di questo cantante, bassista, autore e produttore che potrà intitolare la propria autobiografia, nonché uno splendido album (Columbia, 1970), “I Am The Blues” senza risultare vanaglorioso. La sutura fra il blues urbano del secondo dopoguerra e il rock dei ’60.

JOHN LEE HOOKER “The Ultimate Collection” (Rhino, 1991) – In una produzione forte di LP a decine e raccolte a centinaia, un’impresa scegliere un’antologia che rappresenti una carriera che dai tardi anni ’40 si è spinta fino ai pieni ’90 sistemando oltretutto lì alcune delle uscite più significative e di successo. Doppio, “The Ultimate Collection” copre dal 1948 al 1990 e comprende quasi tutti i classici di uno dei chitarristi più elettrizzanti di sempre.

LIGHTNIN’ HOPKINS “Mojo Hand” (Rhino, 1993) – Per quanto riguarda l’estensione disarmante della discografia, vale quanto appena detto su John Lee Hooker, benché Sam Hopkins abbia vissuto e registrato per vent’anni in meno. Vengono in soccorso anche nel suo caso i signori della Rhino con due CD felicemente esemplari di uno stile dapprincipio anticipatore del rock’n’roll, quindi (un po’ paradossalmente) inclinante al recupero di stilemi folk.

HOWLIN’ WOLF “The Genuine Article” (Chess, 1997) – Il maestro di Chester Arthur Burnett è tal Charley Patton, con cui girovaga giovanissimo per il Mississippi conoscendo per strada un certo Robert Johnson. Non è tuttavia che negli anni ’50 che Howlin’ Wolf, dopo poco significativi esordi campagnoli, si converte a uno stile metropolitano aspro ed elettrico, caratterizzato da una voce gutturale e possente che verrà presa a modello da Captain Beefheart e Tom Waits.

ROBERT JOHNSON “The Complete Recordings” (Columbia, 1990) – La Bibbia del Blues, il sacro testo sul quale si misurano  gli altri e che, in una versione ridotta edita nel 1961 come “King Of The Delta Blues Singers”, formerà una generazione di musicisti inglesi. Johnson non vivrà abbastanza da godersi la fama, avendolo un marito geloso ucciso nel 1938. Dice la leggenda che vendette l’anima al diavolo per diventare così bravo. Dicono queste registrazioni che forse forse…

B.B. KING “The Best Of” (Ace, 1986) – L’espressione “to have the blue devils”, già in uso nell’Inghilterra elisabettiana, diviene negli Stati Uniti dell’Ottocento “to have the blues”: essere depresso, fra il malinconico e l’ossessionato. Ma il blues sa pure essere irreprimibile gioia di vivere e dove più che nei dischi, densi di soul e di jazz e propensi al pop, di questo bonario gigante, l’ultimo dei grandi ancora in attività?

LEADBELLY “The Very Best Of” (Music Club, 1993) – Capacità affabulatorie da romanziere e una vita da romanzo, con più soggiorni in carcere e grazie rimediate dedicando canzoni ai governatori che dovevano concederle. Poca fama presso i contemporanei di colore e in compenso la reverenza della borghesia bianca di sinistra e un’immensa fortuna postuma inaugurata nel 1950, a sei mesi dalla morte, dai due milioni di copie venduti da Goodnight Irene.

MUDDY WATERS “The Chess Box” (MCA, 1989) – L’equivalente per il blues elettrico di ciò che Robert Johnson fu per quello acustico, con però una carriera più longeva (quarantennale) e una produzione dunque più copiosa. Fermo restando il valore del misconosciuto Waters rurale (cercate “The Complete Plantation Recordings”, con registrazioni del ’41 e del ’42), stanno su questo triplo le canzoni che ne hanno decretato l’immortalità.

CHARLEY PATTON “The Definitive” (Catfish, 2001) – Grande anticipatore Charley Patton e bastino tre canzoni fra le decine di questo triplo a chiarirlo: il proto-rock’n’roll di Mississippi Boweavil Blues, una Shake It And Break It che annuncia Hank Williams e una Hammer Blues che certamente Robert Johnson ascoltò, prendendo nota. Morì prematuramente, nel 1934, e troppo a lungo è stato dimenticato.

BESSIE SMITH “The Collection” (Columbia, 1989) – Tanti padri del blues hanno consumato la propria esistenza nell’oscurità. Non così la mamma, che godette di una popolarità straordinaria dal ’23 al ’31, quando la contrazione del mercato discografico la mise fuori gioco, e che avrebbe potuto imprimere il suo marchio anche sull’Era dello Swing non ne avesse un incidente stradale spento per sempre, nel 1937, la voce raffinata ed emozionante.

Ne voglio ancora!

BIG BILL BROONZY “Where The Blues Began” (Recall, 2000) – Stesso fare autoincensatorio di Leadbelly, stessa parabola di Lightnin’ Hopkins: innovatore in gioventù, restauratore da vecchio. Stesso genio.

GUITAR SLIM “The Things That I Used To Do” (Ace, 1987) – Come Little Richard e Jimi Hendrix messi insieme, ma quando il primo doveva ancora diventare famoso e il secondo portava i calzoni corti.

SON HOUSE “Preachin’ The Blues” (Catfish, 2000) – Scomparso ultracentenario, Son House ha avuto tre giovinezze: la prima nel 1930, quando incise alcuni seminali brani ponte fra Robert Johnson e Muddy Waters; la seconda nel 1941, quando lo registrò Alan Lomax; la terza negli anni ’60, quando riscoperto si godette la meritata fama.

ELMORE JAMES “The Sky Is Crying: The History Of” (Rhino, 1993) – Morì ancora giovane, nel 1963, ma i suoi riff tesi e i suoi assoli fumiganti ne hanno fatto un modello per tutto il rock-blues successivo.

BLIND LEMON JEFFERSON “Squeeze My Lemon” (Catfish, 1999) – La prima stella al maschile del blues. Ventitré delle ottantasei canzoni incise durante una vita e una carriera (dal ’26 al ’29) troppo brevi sono su questa raccolta.

MEMPHIS SLIM “At The Gate Of Horn” (Charly, 1999) – Nella sfilata di antologie che vi proponiamo qui, è questo l’unico album. In verità una raccolta anch’esso, con tutti i cavalli di battaglia del Nostro reincisi per l’occasione, nel 1959. Florilegio di boogie e di jazz.

BIG MAMA THORNTON “Hound Dog: The Peacock Recordings” (MCA, 1992) – Centocinquanta chili di sentimento e di classe. Sta qui la versione originale di Hound Dog: meglio di quella di Elvis ed è tutto dire.

BIG JOE TURNER “Greatest Hits” (Atlantic, 1989) – Cinque decenni nello showbiz. Questa antologia documenta il migliore, gli anni ’50. Il rock’n’roll migliore prima del rock’n’roll.

T-BONE WALKER “The Essential” (Charly, 1994) – Un precursore sia di Presley che di Hendrix. Il primo grande chitarrista elettrico della storia del blues. Nonché l’autore di un classico senza tempo come Stormy Monday.

BUKKA WHITE “The Complete” (Columbia, 1994) – Un idolo per Bob Dylan e John Fahey: ascoltando questi quattordici brani incisi fra il 1937 e il 1940 si capisce perché.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.482, 16 aprile 2002.

Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Hip & Pop, 2021

Mappatura di otto decenni di musiche afroamericane – dal blues degli anni ’20 del Novecento all’hip hop old skool passando per l’era aurea di soul, r&b e funky e raccontando inoltre di alcuni giganti del jazz – tracciata affrontando le vicende biografiche e artistiche di oltre un centinaio fra solisti e gruppi, “Super Bad!” è diviso in due parti: la prima è una ristampa ampliata e aggiornata del volume “Scritti nell’anima”, che usciva in origine nel 2007 per Tuttle Edizioni, e raccoglie pezzi incentrati su blues, jazz e soul; nella seconda, intitolata “Potere alla parola”, ci si occupa di hip hop. Antologia di articoli pubblicati fra il 1992 e il 2010 sui mensili “Blow Up”, “Dance Music Magazine”, “Dynamo!” e “Tank Girl”, sui bimestrali “Extreme Pulp” e “Bassa Fedeltà”, sul trimestrale “Extra” e sull’allora settimanale “Il Mucchio”, il libro conta novantasei capitoli. Fra gli artisti di cui narra figurano Little Richard, Robert Johnson, Charley Patton, Lead Belly, John Lee Hooker, Muddy Waters, Sonny Boy Williamson II, Howlin’ Wolf, Willie Dixon Little Walter, Bo Diddley, Jesse Fuller, Blind Willie McTell, Slim Harpo, Lightnin’ Hopkins, R.L. Burnside, Ted Hawkins, J.B. Lenoir, Sam Cooke, Staple Singers, Sister Rosetta Tharpe, Mahalia Jackson, Blind Boys Of Alabama, Aretha Franklin, Esther Phillips, Doris Duke, Billie Holiday, Nina Simone, Little Jimmy Scott, Charles ed Eric Mingus, Albert Ayler, Miles Davis, Tony Williams, Herbie Hancock, Manhattan Brothers, Orioles, Clyde McPhatter, Ray Charles, Bobby Bland, Little Willie John, James Carr, Jerry Butler, Impressions, Curtis Mayfield, Baby Huey, Dyke & The Blazers, Donny Hathaway, Edwyn Starr, Temptations, Smokey Robinson & The Miracles, Terry Callier, Rufus Thomas, Otis Redding, Sam & Dave, Isaac Hayes, Johnny Adams, Arthur Conley, Steve Cropper, Howard Tate, Garnet Mimms, Lorraine Ellison, Ann Peebles, Al Green, Syl Johnson, Johnnie Taylor, Joe Tex, Solomon Burke, Eddie Hinton, James Brown, Lyn Collins, Vicky Anderson, Marva Whitney, Maxine Brown, Chuck Jackson, Marvin Gaye, Sly & The Family Stone, Fela Kuti, George Clinton, Parliament, Funkadelic, Stevie Wonder, Prince, Last Poets, Gil Scott-Heron, Sugarhill Gang, Grandmaster Flash, Afrika Bambaataa, Beastie Boys, Public Enemy, Ice-T, Arrested Development, Disposable Heroes Of Hiphoprisy, Michael Franti, MC 900 Ft Jesus, Cypress Hill, Tupac Shakur, Coolio, New Kingdom, Busta Rhymes, Wu-Tang Clan, Cannibal Ox, OutKast e Liquid Liquid. 438 pagine.

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101 canzoni per le quali vale la pena vivere (77)

The Jesus And Mary Chain – Just Like Honey (da “Psychocandy”, Blanco Y Negro, 1985)

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Non si esce vivi dagli anni ’80 (22)

Piccolo orgoglio di allora giovane critico:  l’essere stato il primo in Italia a recensire Jesus And Mary Chain (il singolo Upside Down). E annunciandoli come una sorta di – ahem – Secondo Avvento.

The Jesus And Mary Chain 1

 

The Jesus And Mary Chain 2

The Jesus And Mery Chain 3

 

 

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101 canzoni per le quali vale la pena vivere (78)

John Mellencamp – Jack & Diane (da “American Fool”, Riva, 1982)

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Il Mucchio n.697

È da oggi in edicola un numero molto speciale del “Mucchio”, che affiancherà fino a fine agosto il numero di per sé speciale – in quanto è quello con allegato “Extra” – di luglio. Sorta di “Best Of” degli otto anni, dal 1996 al 2004, in cui il giornale venne  pubblicato con cadenza settimanale, ripesca fra il resto tre mie discografie di base di punk, new wave e krautrock.

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101 canzoni per le quali vale la pena vivere (79)

The Specials – Ghost Town (lato A di un singolo, 2Tone, 1981)

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Presi per il culto (21): The Inmates – First Offence (Radar, 1979)

Come credo del resto tanti altri, io la mia prima Dirty Water non l’ho gustata dagli Standells. Non da loro quel riff che, se lo fosse inventato Keith Richards, sarebbe stato il suo più memorabile dopo Satisfaction e invece e sempre nel 1965 lo scriveva Ed Cobb per gente che, sul subito, non è che lo apprezzasse granché. Aneddotica vuole che addirittura il cantante Dick Dodd ne fosse a tal punto schifato da abbandonare momentaneamente il gruppo. Gradirà di più Lenny Kaye, abbastanza da piazzare il brano nel 1972 come secondo nella scaletta di “Nuggets”, regalando così ai riottosi losangeleni un’idea di immortalità rock’n’roll. Gradiranno di più Bill Hurley (voce), Peter Gunn (al secolo Staines; chitarra solista e cori), Tony Oliver (chitarra ritmica) e Ben Donnelly (basso). Tre anni prima e allora parte dei Cannibals di Mike Spencer, gli ultimi tre avevano registrato una loro versione dell’altro grande classico degli Standells, Sometimes Good Guys Don’t Wear White, ma era piaciuta soltanto a John Peel. Nel 1979 – con la new wave trionfante, quasi fuori tempo massimo rispetto al punk e figurarsi allora rispetto a un pub-rock al cui canone si iscrivevano senza discussioni – i quattro londinesi più uno (John Bull, il primo di tanti batteristi) sceglievano come lato A del loro debutto a 45 giri proprio Dirty Water. Da lì a un anno quel singolo, dopo avere venduto discretamente in Gran Bretagna e in Francia, andrà oltre Atlantico al numero 51 della classifica di “Billboard”. L’album che inaugura al 49. Con un paio di ulteriori anni di ritardo io la mia prima Dirty Water l’ho gustata dagli Inmates e il primo sorso ancora lo ricordo. Credo di essermi messo in casa questo LP dalla copertina che omaggia i Rolling Stones come in maniera più esplicita non si potrebbe prima ancora di avere, nell’allora assai modesta collezione di vinili, un album “vero” (solo antologie) degli Stones stessi.

Durissima andare dietro a cotanto attacco e nondimeno nei trentacinque minuti e nei dodici pezzi restanti non si molla mai il colpo, non si scende mai sotto una media di eccellenza. Programma per la più parte di cover ma per cantare le lodi di “First Offence” vorrei partire dai cinque originali a firma Peter Staines e in particolare dall’unico “lento”: sezione fiati dei Rumour che gloriosamente si traveste da house band di casa Stax, If Time Could Turn Backwards è la più sontuosa e struggente ballata che Otis Redding non fece in tempo a interpretare. L’unica recensione che viene da fare, ascoltandola, è inginocchiarsi, mentre un applauso può bastare per una Mr. Unreliable che occhieggia guarda un po’ a Graham Parker e una I Can’t Sleep da Pietre Rotolanti al top del sexy, per il nervosismo sconfinante nell’isteria di Jealousy e l’inchino a Chuck Berry di Back In History. Versante cover… Fuori categoria la prima, arduo scegliere fra il caracollare errebì di una Love Got Me che ci ricorda che Arthur Conley fu qualcosa più di un Otis minore e il singultare proto-crampsiano della The Walk di Bobby Charles, fra lo stupendo soul-blues Three Time Lover, già di Don Covay, e una ripresa di Midnight To Six Man dei primi Pretty Things che dire primitiva, ruggente e scorticata è poco. Più o meno con questi aggettivi vengono raccontati gli Inmates da chi al tempo li vide dal vivo e spergiura che di quegli spettacoli gli album in studio non sono che un’ombra. L’immaginazione vien meno.

Nella foto sul retro di copertina i quattro vengono immortalati in quella che parrebbe una limousine. Era una fantasia, sarà realtà per un attimo fuggentissimo per quindi farsi ricordo sempre più sbiadito. Ci saranno diversi altri album (in studio otto), non li ho ascoltati tutti ma in uno brutto non ci ho mai sbattuto. Devo agli Inmates anche la mia prima Talk Talk e la mia prima Some Kinda Wonderful. Le trovate su “Shot In The Dark”, 1980 e bello quasi quanto questo.

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101 canzoni per le quali vale la pena vivere (80)

Fleetwood Mac – Go Your Own Way (da “Rumours”, Warner Bros, 1977)

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