Archivi del mese: novembre 2018

The Coral – Move Through The Dawn (Ignition)

D’accordo: l’abito non fa il monaco e non è dalla copertina che si dovrebbe cominciare a giudicare un disco ma… quanto è brutta quella di “Move Through The Dawn”? Fuorviante oltretutto (qualcuno ha detto Sigue Sigue Sputnik?), laddove i primi tre album della compagine del Merseyside si raccontavano già dalla grafica deliziosamente Sixties. Il nuovo secolo era ancora nuovo e gli al tempo giovanissimi Coral mietevano consensi di critica e di pubblico (alla seconda prova in lungo, con “Magic And Medicine”, si prendevano la vetta della classifica UK) con un sound fra pop, folk-rock e psichedelia. Vintage senza scadere nel calligrafismo revivalista, colto il giusto per fare innamorare un pubblico smaliziato e nel contempo frizzante a sufficienza, e cioè parecchio, da conquistare la più vasta platea generalista, digiuna o quasi di referenti, tolto il più ovvio vista anche la provenienza geografica. Per quanto dai Beatles non abbiano in realtà assorbito granché James Skelly e soci, non direttamente almeno, preferendo farsene ispirare per così dire di seconda mano, via Badfinger, Oasis o ELO.

Molto in questo nono lavoro in studio dei Coral, sin dagli arrangiamenti di archi sopra le righe, rimanda proprio alla creatura di Jeff Lynne ed è conferma che, come decennio di riferimento, i ’70 pesano ormai quanto i ’60. Meglio però, allora, quei ’70 inediti per i Nostri esplorati nel precedente “Distance Inbetween”, il loro disco più rock e, a sorpresa, krautrock. Qui più che i Can (e magari gli Stooges) si evocano dei Traveling Wilburys girati Britpop ma sfortunatamente con una scrittura qualunque, come mai prima. Tre belle eccezioni: una Eyes Like Pearls profumata di Beach Boys; She’s A Runaway, dall’efficacissimo ritornello; la squisita ballata folk After The Fair.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.402, ottobre 2018.

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Audio Review n.403

È in edicola da alcuni giorni il numero 403 di “Audio Review”. Contiene mie recensioni degli ultimi album di Aphex Twin, Neil & Liam Finn, Black Joe Lewis & The Honeybears, Liars, Mitski, Mogwai, Willie Nelson, Orbital, Sandro Perri, Swamp Dogg, Richard Thompson, Alexander Tucker, Paul Weller e William Elliott Whitmore,  della colonna sonora di “The Man From Mo’Wax” e di ristampe di Bob Marley e Bob Seger. Nella rubrica del vinile ho scritto in lungo della J.Geils Band Band e più in breve di Al Di Meola.

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“Highway 61 Revisited”, ovvero come fu che il rock’n’roll diventò adulto

Rivoluzione un po’ più che a metà quella inscenata nel marzo 1965 da Dylan con la pubblicazione di “Bringing It All Back Home”, 33 giri con una facciata elettrica e una acustica che però si apre con Mr. Tambourine Man, vale a dire il brano che da lì a poche settimane e però non nella versione dell’autore, bensì in quella dei Byrds, inaugurerà la stagione del folk-rock. In aprile il Nostro si reca in Gran Bretagna ed è la terza volta, ma il primo tour vero. Sul palco si offre ancora come il menestrello solitario di un tempo e non ne può più dalla noia. Al ritorno a casa riversa tutta la sua frustrazione in una canzone della quale dirà che “scriverla fu come nuotare nella lava appeso per le braccia a una betulla”. Feroce in un testo in cui si fa a pezzi una non identificata Miss Lonely, una “principessa sulla guglia”, magmatica nel tumulto di chitarre elettriche e ritmica tenuto assieme dal liquido organo di Al Kooper, Like A Rolling Stone è artisticamente e commercialmente un punto di non ritorno. Quando il 25 luglio il cantante si presenta sul palco del “Newport Folk Festival” il singolo che la contiene è secondo nella classifica statunitense dei più venduti. Che pure l’autore sia venduto, ma in altro senso, è quanto pensa buona parte di una platea progressista a parole e reazionaria nei fatti e che del farglielo sapere si fa un punto d’onore.

Soffiano santo furore e contemporaneamente un briccone senso di liberazione sull’album che viene inciso a cavallo del memorabile fiasco. Sulla copertina di “Highway 61 Revisited” Bob Dylan non è più Woody Guthrie ma James Dean, o Marlon Brando. La missione impossibile di sostenere la tensione di Like A Rolling Stone per un intero LP viene portata a termine con successo e per di più è un LP eccezionalmente lungo per gli standard dell’epoca, oltre cinquantuno minuti. La meno straordinaria delle caratteristiche del disco che più di qualunque altro fece diventare il rock’n’roll adulto e, in prospettiva, una musica anche per adulti. Nell’esatto istante in cui, con Ballad Of A Thin Man, chiariva come si fossero alzati fra le generazioni steccati invalicabili.

Pubblicato per la prima volta in Rock – 1000 dischi fondamentali, Giunti, 2012. Venerdì prossimo, 16 novembre, sarò a Filottrano (Ancona) presso la Trattoria Gallo Rosso. Lì, in un incontro alle ore 20 seguito dall’ascolto integrale dell’opera, in vinile e usando un impianto ad altissima fedeltà, racconterò estesamente la genesi di questo capolavoro.

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Gorillaz – The Now Now (Parlophone)

Un bel gioco può durare molto, se gli ideatori hanno l’accortezza di variare gli schemi e concedere e concedersi delle pause. È il caso dei Gorillaz, un cartone animato disegnato da Jamie Hewlett (Tank Girl) e insieme un supergruppo capitanato da Damon Albarn dei Blur che così nel 2001, con l’omonimo esordio della band, si prendeva la prima vacanza dalla sua occupazione principale. Solo che era talmente clamoroso il successo di critica ma pure di vendite – sette milioni di copie a oggi, a livello globale – di quel disco, capace di fondere armoniosamente come nessuno prima indie rock e hip hop (ed elettronica, psichedelia, new wave, funk, jazz…), che approntare quattro anni dopo un seguito pareva quasi un obbligo. Al pari felice artisticamente, nel tempo “Demon Days” ha sopravanzato il predecessore di quell’altra milionata di copie. Andare avanti? Con calma.

E non più da supergruppo bensì come progetto solista di Albarn, che di volta in volta convoca ospiti sempre diversi: memorabilmente nel 2010 Lou Reed si prestava a un cameo nel terzo album e Mick Jones e Paul Simonon partecipavano al tour successivo. Solo tre in questo sesto, che segue piuttosto dappresso (un anno e due mesi) il quinto, “Humanz”, e ne pare un’estensione allo stesso modo in cui “The Fall” era sembrato un post-scriptum di “Plastic Beach”. Qui George Benson presta la sua chitarra jazz allo sbarazzino g-funk Humility e un redivivo Snoop Dogg e Jamie Principle qualche rima a una Hollywood fra Funkadelic e Kid Creole. È un lavoro assai gradevole – altri vertici in una Tranz ultravoxiana, in una Idaho aggrappata a un arpeggio velvettiano, nell’incrocio fra Liquid Liquid e Depeche Mode Lake Zurich, nel congedo radente la disco Souk Eye – per quanto la freschezza degli esordi cominci a latitare.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.401, settembre 2018.

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