Archivi del mese: novembre 2022

In penultime bozze

Alle prese in questo momento con l’ultima rilettura, dovrò poi giusto inventarmi il tempo per scrivere un’introduzione. Raccoglie diciotto articoli pubblicati in origine fra il 2001 e il 2019. Belli lunghi, visto che occupano complessivamente quelle 270 pagine.

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Jimi Hendrix – Il negro bianco

Un giorno lo faranno un film ─ cioè: uno serio ─ su Jimi Hendrix e, dovendone decidere l’incipit, lo sceneggiatore avrà l’imbarazzo della scelta. Potrebbe optare per il sensazionalismo e partire dalle undici e ventisette di quella tragica mattina del 18 settembre 1970. Chiamata nove minuti prima, un’ambulanza si ferma davanti al londinese Cumberland Hotel. Orribile lo spettacolo che si presenta ai barellieri e ai due poliziotti sopraggiunti un attimo dopo: riverso sul letto di una stanza la cui porta trovano spalancata giace il corpo di un giovane nero, o che c’è da supporre nero visto il colorito cinereo. Il volto è coperto di vomito, ma la maggior parte di quanto ha rigurgitato l’ha respirata ed è questo che gli è stato fatale. Ecco, dovesse iniziare così ─ siamo d’accordo? ─ come un sol uomo ci alzeremmo e ce ne andremmo via. Vorrebbe dire che il regista è Oliver Stone e abbiamo già dato. Ci sono tanti altri momenti da cui partire per raccontare la vicenda di chi prese possesso di un rock non ancora maggiorenne e lo rivoltò, come nessuno aveva nemmeno fantasticato si potesse fare. Uno talmente rivoluzionario da non avere avuto, in quarant’anni, eredi veri. Uno che tuttora fa categoria a sé.

Si potrebbe ad esempio coglierlo nell’attimo in cui, sul palco di Monterey la sera del 18 giugno 1967, incendia il suo strumento dopo avere incendiato il cuore di un paese dal quale nove mesi prima se n’era dovuto andare, per cercare fortuna altrove, per non essere più un cittadino di serie B. Un posto dove era troppo nero per i bianchi, troppo bianco per i neri. Oppure si potrebbe indugiare sui suoi occhi che scrutano la spianata ingombra di rifiuti di Woodstock alle nove di mattina del 18 agosto 1969, venticinquemila gli spettatori superstiti degli oltre quattrocentomila che erano arrivati a bivaccarvi nei tre giorni precedenti. Si godranno, quegli sballati già reduci, i venti minuti più epifanici ─ in particolare i 3’43” di una Star Spangled Banner incastonata fra la Voodoo Child e la Purple Haze più incandescenti di sempre ─ della storia della musica tutta del Novecento. O ancora si potrebbe scegliere qualche istante di prima della gloria e immortalare Icaro mentre attacca piume iridescenti su ali che si riveleranno di cera. Mentre compra la sua prima chitarra elettrica. Mentre, militare della 101a Divisione Aviotrasportata, si lancia dal portellone di un aereo e nel volo coglie immagini di ciò che sarà. O si rivede mentre piange, con il dolore e la frustrazione che si possono provare soltanto a quindici anni, perché stanno seppellendo sua madre e lui non c’è.

Però a ben pensarci c’è un solo modo giusto per cominciare un racconto con protagonista James Marshall Hendrix. Bisogna seguirlo in quelle ventiquattro ore pazzesche in cui, perfetto sconosciuto appena sceso dal Boeing Pan Am della tratta John F. Kennedy-Heathrow, trovò in un colpo le entrature per i più elitari circoli musicali londinesi e l’unico amore genuino della sua vita adulta. Se consultate un’enciclopedia, ci troverete scritto che Jimi Hendrix nacque il 27 novembre 1942. Balle. La vera data è un’altra: 24 settembre 1966. Quel giorno il mondo si capovolse.

L’Hendrix che arriva a Londra sottobraccio a Chas Chandler, fino a un attimo prima bassista degli Animals riciclatosi manager con l’ambizione di essere subito rampante, è un Signor Nessuno con come bagaglio una Stratocaster e una borsa con dentro un cambio di vestiti, un barattolo di crema per l’acne e… a ventitré anni si può essere un po’ vanitosi, no?… il set di bigodini rosa che usa per arricciare la folta capigliatura. In tasca ha quaranta dollari e la dice lunga su che vita abbia menato fino a quel punto che sia stato un amico, il batterista Charley Otis, a prestarglieli. Lui non li aveva e dire che è musicista di professione sin dal ’63. E con che razza di curriculum! Ha transitato brevemente nei gruppi di Carla Thomas, Tommy Tucker, Slim Harpo, Jerry Butler, Marion James, Chuck Jackson, Solomon Burke, Otis Redding, Curtis Mayfield, Bobby Womack. È stato per periodi più lunghi con gli Isley Brothers, Little Richard e i popolarissimi Joey Dee & The Starliters. Ha lavorato da turnista, mettendo fra il resto un decisivo zampino nella canzone, Mercy, Mercy, che ha regalato a Don Covay le classifiche e un posticino negli annali del soul. E nondimeno non solo non è riuscito ad accantonare un soldo bucato ma fa ancora una fatica tremenda, con quello che guadagna, a fare due pasti al giorno e pagare l’affitto di una topaia in cui dormire. Per tenere insieme anima e corpo è arrivato alla follia di tentare una rapina e gli è andata bene che è riuscito a scappare, visto che se l’avessero preso automaticamente si sarebbe ritrovato sul groppone pure quell’antica condanna a due anni per furto d’auto evitata arruolandosi nell’esercito. Per tenere insieme anima e corpo è arrivato all’indegnità di ─ ecco, qualcosa che gli va bene c’è: a dispetto di statura bassa, corporatura esile e brufoli, per il gentil sesso è già un magnete ─ farsi mantenere da delle giovani prostitute. Forse ha anche vagheggiato di fare il magnaccia, ma appena per un attimo: è suonando che vuole diventare ricco e vendicare un’infanzia e un’adolescenza trascorse fra stenti e abbandoni. E poiché non sono i soldi facili che gli interessano, bensì conquistare con la sua arte la fama, non ci ha pensato un istante a rifiutare chi lo tentava con le lusinghe dello spaccio. È un sognatore che già troppe volte ha sbattuto la faccia contro la realtà e non si fa illusioni. Ha chiesto sia al batterista dei suoi Blue Flames, Danny Taylor, che a Billy Cox, un bassista conosciuto sotto le armi, di accompagnarlo nel viaggio inglese e ai loro cortesi rifiuti ha replicato allegramente con un “be’, andrò a fare la fame laggiù, allora”. Ha posto a Chandler come conditio sine qua non per intraprendere un’avventura che gli pare una mattana che gli presenti uno dei suoi idoli, Eric Clapton. Chandler ha promesso e manterrà in fretta: quegli otto giorni dopo essere sbarcato in Inghilterra, Jimi dividerà un palco con i Cream e spaccherà il bianchissimo culetto al povero Eric. Un uomo che i suoi fans chiamavano Dio veniva fatto riprecipitare sulla terra da un essere che dovette sembrargli un marziano.

Prosegue per altre 48.203 battute su Extraordinaire 1 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.24, inverno 2007. Fosse ancora fra noi, Jimi Hendrix compirebbe oggi ottant’anni.

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L’uomo che visse tre volte (R.I.P. Wilko Johnson, 12/7/1947-21/11/2022)

Da chitarrista dei Dr. Feelgood, la band che più di qualunque altra della scena del pub rock contribuì ad aprire la strada al punk, fu la più improbabile (per i tempi) delle rockstar. Ebbe poi un’onesta carriera da solista che sembrò essere giunta al capolinea, insieme alla sua vita, quando nel gennaio 2013 gli diagnosticarono un tumore in fase terminale. Ops! Si erano (in parte) sbagliati. Gli ultimi anni dell’artista Wilko Johnson sono stati gloriosi quasi quanto quelli di una giovinezza ruggente.

Stupidity (Dr. Feelgood; United Artists, 1976)

“Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te, egli ti preparerà la strada. Voce di uno che grida nel deserto: preparate la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”: non paia blasfemo citare l’evangelista Marco, che a sua volta citava il profeta Isaia, che a sua volta metteva insieme due profezie di Malachia, per fare un parallelo con il ruolo che ebbero i Dr. Feelgood nell’aprire la via al punk. Se non altro perché non si fa altro che citare ulteriormente, Nick Hasted dell’“Independent”, che recensendo la trionfale prima proiezione (con l’intera sala in piedi a salutarne i titoli di coda con un applauso interminabile) di Oil City Confidential, il documentario sui Dr. Feelgood firmato nel 2009 da Julien Temple, scriveva dei nostri eroi dicendoli i facenti funzione di Giovanni Battista rispetto ai Messia del punk. Paragone ardito quanto ineccepibile.

È lungo e scandito da centinaia di concerti il percorso che porterà il quartetto di Canvey Island – nella formazione classica che schiera Lee Brilleaux a voce, armonica e chitarra, Wilko Johnson all’altra sei corde, John B. Sparks al basso e John Martin (soprannominato The Big Figure) alla batteria – a celebrare il massimo trionfo del pub rock piazzando questo album, il suo terzo e (viene da dire: naturalmente) un live, in vetta alla graduatoria dei più venduti nel Regno Unito nel settembre 1976. Solo per poi venire eclissato da quel punk cui aveva fatto da battistrada e gli stessi Dr. Feelgood, dopo avere quasi replicato nel maggio ’77 con “Sneakin’ Suspicion”, un buon numero 10, gradualmente retrocederanno dai teatri a quel circuito di bar e club spesso infimi che li aveva cresciuti a partire dal 1971 e che avevano fatto crescere, ultimo guizzo di gloria mercantile un singolo nei Top 10 datato 1979. Irrimediabilmente superati dai tempi ma in compenso nella Storia e culto che resiste tenace. Preceduto a 45 giri nel novembre ’74 dal rozzo quanto orecchiabile errebì Roxette, “Down By The Jetty” è nel gennaio 1975 il sospiratissimo esordio a 33, collezione di rhythm’n’blues bianco in stile primi Pretty Things, i più grezzi, cui si alternano blues e rock’n’roll altrettanto contundenti. Non vede manco da lontano le classifiche a differenza di un seguito – “Malpractice”, ottobre stesso anno e nei Top 20 – messo insieme un po’ frettolosamente e a testimoniarlo è che ove nel predecessore Wilko Johnson firmava larga parte della scaletta (fra i rifacimenti notevole una Boom Boom, da John Lee Hooker, rifatta in stile Animals) qui quasi metà del programma è di cover (formidabile in ogni caso, per quanto picchia duro, almeno Riot In Cell Block No.9). Ma è “Stupidity” (ove gli “originali” di nuovo prevalgono solo di misura, sette a sei) il bignamino perfetto di un sound ruggente e scartavetrato, alcolico e anfetaminico. “Grida”, Lee Brilleaux, ma tutt’altro che in un metaforico deserto.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.261, febbraio 2020.

I Keep It To Myself/The Best Of (Chess, 2017)

È la prima metà del titolo a dichiarare la singolarità dell’operazione: lì il titolare svela che le venticinque tracce raccolte in “I Keep It To Myself” (divise su due CD per una complessiva ora e mezza di ascolto) se l’era tenute per sé. Non è dato sapere per quale ragione. Forse mancava l’etichetta giusta cui affidare queste registrazioni, bastanti a confezionare un paio di album, e che bella cosa che i nastri, incisi fra il 2008 e il 2012, vedano la luce per la casa di Chicago: marchio storico per antonomasia del blues elettrico nonché indirizzo cui si domiciliarono nomi cruciali del rhythm’n’blues primevo e, parlando di rock’n’roll, tal Chuck Berry. Tutti numi tutelari per quei Dr. Feelgood che a metà ’70 prepararono il terreno per il punk con quell’esplosiva miscela che prendeva il nome di pub rock. Nei loro primi quattro, formidabili LP di Wilko Johnson non c’è “solo” la chitarra ma anche la firma in calce alla totalità del repertorio autografo.

Restano i suoi anni migliori, lo sa e qualche cavallo di battaglia ogni tanto lo recupera: qui una Roxette reggata, una She Does It Right alla nitroglicerina, una Back In The Night devotissima a Chuck, il malevolo blues Sneaking Suspicion, l’indiavolato errebì Twenty Yards Behind. Se ho ben contato ci sono poi altri quattro pezzi che al cultore dovrebbero essere familiari e sono quelli finiti nel 2014 sull’eccellente “Going Back Home”, Roger Daltrey degli Who alla voce. Ricorderete: registrato dopo un tour che sul serio doveva essere “d’addio”, visto che a Johnson era stato diagnosticato un tumore in fase terminale. Colpo di scena! La diagnosi era parzialmente errata e il vecchio filibustiere si appresta a soffiare su settanta candeline. Auguri, ma di cuore.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 388, giugno 2017.

Blow Your Mind (Chess, 2018)

Quando nel 2013 Wilko Johnson annunciava di essere al tour di addio non era di un congedo dalle scene che si trattava, ma dal mondo: gli era stato appena diagnosticato un tumore al pancreas in fase terminale e, in luogo di sottoporsi a una chemioterapia che avrebbe solo rimandato di poco l’inevitabile, aveva deciso di trascorrere i suoi ultimi mesi come molta parte dei precedenti quarant’anni, ossia suonando dal vivo. Erano concerti affollati come mai dall’epoca ruggente di quei Dr. Feelgood di cui era stato chitarrista dal ’71 al ’77, alfieri di un pub rock che spalancò la porta al punk, clamorosamente primi nel 1976 in Gran Bretagna con il live “Stupidity”. E, per quanto potessero essere logicamente commosse, le platee ancora di più erano esilarate da spettacoli di una vitalità travolgente. Ritrovata, si potrebbe dire. Costretto ad annullare le ultime due date perché non più in grado di affrontare il palco, si prendeva una settimana in studio per incidere un ultimo album, il formidabile “Going Back Home”, con Roger Daltrey alla voce. Dando per scontato che non avrebbe vissuto abbastanza da vederlo pubblicato.

E quattro anni dopo dà alle stampe il successore “vero”, dopo il brillante doppio scavo negli archivi “I Keep It To Myself”. Giacché si dà il fortunato caso che la diagnosi di cui sopra fosse in parte errata, e che un’operazione di undici ore durante la quale gli è stato rimosso di tutto e di più lo abbia rimesso in piedi. Quasi settantunenne ha realizzato un disco dei suoi più coesi e ispirati, da un’iniziale Beauty in scia alla classica Sneaking Suspicion al rovinoso rock’n’roll a suggello Slamming. Passando per l’ustionante blues Marijuana, una Tell Me One More Thing fra Ian Dury e Bo Diddley, una cooderiana (circa “Bop Till You Drop”) Lament.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.401, settembre 2018.

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Audio Review n.447

È in edicola da alcuni giorni “Audio Review” di novembre. Ho contribuito con recensioni dei nuovi album di Alvvays, Björk, Black Angels, Bonny Light Horseman, Built To Spill, Bill Callahan, The Comet Is Coming, Death Cab For Cutie, Dry Cleaning, Dungen, House Of Love, Lambchop, Beth Orton, Soft Moon e Yeah Yeah Yeahs. Nella rubrica del vinile ho speso seimila battute per “The Piper At The Gates Of Dawn” dei Pink Floyd.

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Quando l’astronave Hawkwind entrò in orbita (per Nik Turner, 26/8/1940-10/11/2022)

“Saremmo potuti diventare degli altri Pink Floyd”, sospirava ridacchiando Dave Brock concedendosi a “Mojo” in occasione dei festeggiamenti per il trentennale di una band la cui complicata epopea il cantante, chitarrista e tastierista è stato l’unico a traversare per intero. Quindici ulteriori anni dopo l’astronave Hawkwind è ancora in volo, gli avvicendamenti nell’equipaggio continuano, ma in plancia di comando continua a sedere il capitano di sempre. Difficile credere che abbia mai davvero rimpianto ciò che sarebbe potuto essere (dopo che il singolo Silver Machine andò nel luglio ’72 al numero 3 delle classifiche britanniche) e invece non fu (dopo che nell’estate successiva toccò ritirare dai negozi Urban Guerilla per la sfortunata concomitanza fra il suo affacciarsi nei Top 40, appena uscito, e un’ondata di attentati dell’IRA). Non sono mai diventati come i Pink Floyd, gli Hawkwind, ma rappresenta ben più che un premio di consolazione l’essersi guadagnati un posto di assoluto rilievo nella storia del rock con la sequela pressoché perfetta dei primi otto LP: insieme, un ponte fra l’era della psichedelia e quella del punk e il luogo in cui quel mutaforma chiamato space rock assumeva la sua estetica più classica, iniettando dosi massicce di acido lisergico, anfetamine e immaginario SF nel giovane corpo dell’hard.

Nell’omonimo esordio a 33 giri dell’agosto ’70 tutto ciò è a malapena accennato. È nel successivo (ottobre 1971) “In Search Of Space” che il tipico suono Hawkwind sboccia, all’improvviso – nel paradigmatico assalto di You Shouldn’t Do That – e subito definito sin nei dettagli: basso singolarmente melodico e batteria dritta a propellere le esplorazioni di uno spazio profondo non solo interiore inscenate dalla chitarra di Brock e dai marchingegni elettronici manipolati da Dikmik Davies e Del Dettmar. Mentre il sax di Nik Turner ruggisce, creando ulteriori straniamenti. Se in You Know You’re Only Dreaming i Pink Floyd si metamorfizzano nei Black Sabbath, Master Of The Universe disvela quella disposizione geniale all’innodia che in Silver Machine troverà una sublimazione somma. Prima di una seconda metà di programma in cui gli psichedelici prendono il sopravvento sugli eccitanti e davanti alle porte del cosmo si disegnano trame elettroacustiche. “Doremi Fasol Latido” (novembre 1972) perfezionerà la formula, ma è qui che prende a delinearsi un canone straordinariamente influente.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.196, settembre 2014.

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Lavori in corso

In prime bozze.

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Ornette Coleman e l’invenzione di un nuovo jazz

Cacciato nel 1949 dal primo impiego stabile da musicista professionista, al seguito di un luna park, per avere insegnato al sassofonista che faceva coppia con lui un brano jazz e oltretutto, il che rendeva ancora più grave il delitto, in stile be bop. Ingaggiato nel ’50 da un grande del blues in procinto di diventare rhythm’n’blues quale Pee Wee Crayton ma, dopo poche date, pagato da costui per non suonare e sì, avete letto bene. Anche così, a forza di aneddoti, nelle note di copertina di quello che fu nel 1958 l’album d’esordio di Ornette Coleman il buon Nat Hentoff (uno dei critici meglio informati e più acuti che mai abbiano discettato di jazz) spiegava come mai l’artista di Forth Worth arrivasse a debuttare solo ventottenne quando i primi ingaggi li aveva rimediati a sedici anni. Colpa per così dire di un’originalità talmente spiccata da rendergli difficile trovare complici in grado, se non di capirlo, perlomeno di assecondarlo. Sul serio al tempo la musica dell’alto sassofonista texano era, come annunciava orgogliosamente il titolo del suo primo LP, qualcosa di diverso, e speciale, e dietro quattro punti esclamativi pienamente giustificati. Se oggi “Something Else!!!!” ci pare assolutamente godibile, e stentiamo magari a cogliere la carica innovativa  di composizioni già liberate da quelle che erano le convenzioni armoniche e melodiche dell’epoca, è per due ragioni: una è che, in misura rilevante grazie allo stesso Ornette, determinati paletti verranno poi spostati ben più avanti e cinquanta, sessant’anni dopo certi jazzofili ancora non ci hanno fatto l’orecchio; l’altra è che nelle nove magnifiche tracce (tutte autografe) che vi sfilano la ritmica ─ Don Payne al contrabbasso, Billy Higgins alla batteria ─ swinga che è un piacere. Idem il piano di Walter Norris e quasi sfugge, allora, come il sax e la tromba di un giovanissimo (ventun anni quando queste sedute venivano eternate) Don Cherry svarino prendendosi libertà inaudite, dentro ma in prevalenza fuori dalle sequenze di accordi della melodia di base, sull’orlo e spesso oltre della dissonanza. Lo si noterà tanto di più, da lì a pochi mesi, nel successivo ─ secondo e ultimo 33 giri per la Contemporary ─ “Tomorrow Is The Question!”, laddove senza un pianoforte a legarla la musica si faceva mercuriale e se tanti gridarono al genio erano molti di più a parlare di un bluff, o tout court di un ciarlatano che se suonava così era per incapacità, figurarsi un po’. Lode allora a quella lenza di John Lewis che in contemporanea con gli eventi annotava: “Ritengo che la musica di Ornette sia uno sviluppo di quella di Charlie Parker senza che di Parker riprenda le scale o lo stile. È un qualcosa di assai più profondo e spero che sia lui che Don Cherry abbiano una vita artistica lunga e fruttuosa”. L’avranno. “Tomorrow Is The Question!” (punto esclamativo ne è rimasto uno, ne mancano almeno due) appare insomma già un filo più “avanti” del pur prodigioso, e complessivamente forse più ispirato, predecessore. Eternato da Lester Koenig a Los Angeles fra il gennaio e il marzo del 1959, affianca di nuovo al sax alto di Coleman la tromba di Cherry, mentre al contrabbasso si alternano Percy Heath e Red Mitchell e alla batteria sedeva per l’occasione Shelly Manne. È un gioioso e magmatico scorrere di blues alterati, ballate, presagi di armolodia. Seconda testimonianza preziosa dei preparativi per una rivoluzione.

La quale andava compiutamente in scena ─ a dare man forte al leader il solito Cherry e una fenomenale sezione ritmica formata da Charlie Haden al contrabbasso e dal redivivo Billy Higgins dietro piatti e tamburi ─ appena due mesi dopo, il 22 maggio 1959 (il disco verrà pubblicato in novembre, primo di innumerevoli su Atlantic), ai Radio Recorders di Hollywood. Nesuhi Ertegun a preoccuparsi che venisse registrata impeccabilmente (anche dal punto di vista della qualità tecnica si stenta a credere, ascoltandole, che queste incisioni abbiano sessantadue anni) dopo essersi preoccupato di convincere il sassofonista a non abbandonare la musica per darsi a studi religiosi, come a un certo punto era fortemente intenzionato e provateci voi a immaginare le conseguenze se il discografico non fosse risultato abbastanza persuasivo. Appassionato, preveggente, astuto, Ertegun contribuiva (incommensurabilmente) a rendere epocale l’album pure imponendogli il titolo splendidamente arrogante che ha, “The Shape Of Jazz To Come”, “La forma del jazz a venire”, niente di meno, quando l’autore avrebbe voluto chiamarlo “Focus On Sanity”. Con una scaletta di sei pezzi tanto per cambiare tutti a firma Coleman (due outtake verranno recuperate nel 1970 in altrettante antologie) il disco reinventa radicalmente la tradizione cui tuttavia appartiene e porrà le basi per il nascere di una nuova scena, a battezzare la quale provvederà sempre Ornette nel 1961 con un altro e già ennesimo capolavoro, “Free Jazz”. Lo fa mettendo in discussione e anzi definitivamente da parte quello che era nell’ambito il concetto canonizzato di armonia, accantonando l’idea che i cambi di accordo dovessero essere concretamente delineati e sistemando gli assoli secondo l’estro del momento, indipendentemente dal centro tonale del brano. Lunghe improvvisazioni legano il delinearsi del tema al suo riemergere, ma l’aridità di tanta avanguardia che da qui proverà a trarre ispirazione è tenuta alla larga dal calore di melodie di intrinseco romanticismo (non a caso la dolente Lonely Woman, che inaugura, sarà una delle poche composizioni del nostro uomo a venire frequentemente riprese da altri e a farsi dunque standard) e da una ritmica (Haden si concede talvolta l’archetto e sono momenti di lirismo indicibile) che insieme ancora, dialoga, sospinge.

“The Shape Of Jazz To Come” è stato oggetto negli ultimi anni di numerose ristampe in vinile. Lo spassionato consiglio al lettore è di scansare accuratamente tutte quelle griffate con i marchi più improbabili, specializzati nello sfruttamento di opere su cui sono scaduti i diritti d’autore ma delle quali non hanno ovviamente l’accesso alle incisioni originali, e premiare invece il lavoro di un’etichetta seria, serissima quale è Speakers Corner, che riedita solo lavorando in analogico su master di prima generazione concessi in licenza dai legittimi proprietari. L’auspicio è che presto, prestissimo aggiunga al suo ricco catalogo anche “Something Else!!!!” e “Tomorrow Is The Question!”, le cui ultime ristampe non truffaldine sono su OJC e datano rispettivamente 2011 e 2015.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.435, ottobre 2021.

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Blow Up n.294

Erano quarant’anni che aspettavo di leggere un articolo come si deve su Daryl Hall e John Oates. Alla fine ho deciso di scriverlo io. Occupa otto pagine del numero di novembre di “Blow Up”, da poco giunto in edicola.

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Ben Harper – Bloodline Maintenance (Chrysalis)

Se il sedicesimo album di Ben Harper fosse un film (concorrerà magari ai Grammy: il nostro uomo in una carriera quasi trentennale già se n’è portati a casa tre) il basso potrebbe ricevere una candidatura agli Oscar nella categoria “migliore attore non protagonista”. Davvero: a memoria non ricordo un altro suo disco in cui sin dal primo passaggio mi sia capitato di notare come il suddetto strumento giochi un ruolo di quasi pari importanza rispetto a voce e chitarra. E vabbé, ho pensato, Juan Nelson è sempre stato un gran manico. Salvo ricordarmi un attimo dopo che costui, con Harper quasi da subito (dal tour del primo disco e in studio dal secondo; spesso seconda voce, talvolta co-autore) ci ha lasciati lo scorso anno. Salvo apprendere che in “Bloodline Maintenance” il titolare ha fatto quasi tutto da sé, suonando oltre alla chitarra e alla lap steel, batteria, percussioni varie e appunto il basso. Soli apporti esterni un corista, due voci femminili e (riluce particolarmente in un’atmosferica Problem Child, che sorprendentemente potrebbe arrivare dal repertorio dei Morphine) il fiatista jazz Geoff Burke. E davvero non riesco a immaginare come Harper avrebbe potuto omaggiare meglio l’amico scomparso.

È il suo lavoro più succinto di sempre (undici tracce ma giusto trentadue minuti) e in tutti i sensi uno dei più sobri, i testi quale nato come conversazione con il padre defunto, quale come riflessione su un paese di cui il razzismo plasma ancora l’identità. Da tanti incroci fra soul e blues che rimandano come non mai a Curtis Mayfield (e un po’ a Bill Withers come a Terry Callier) si staccano il secco funk con wah wah We Need To Talk About It e la sferragliante Knew The Day Was Comin’.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.445, settembre 2022.

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black midi – Hellfire (Rough Trade)

Lo scorso 19 luglio a Londra il termometro ha segnato 40.3°, la temperatura più alta mai registrata da quelle parti. Un incubo per tutti fuorché i black midi, che quando decisero di chiamare il terzo album “Hellfire” non potevano certo immaginare che quattro giorni dopo una pubblicazione incredibilmente quanto involontariamente tempestiva i quotidiani avrebbero titolato a proposito dell’ondata di caldo che ha colpito il Regno Unito come il resto d’Europa usando proprio quella parola: “Hellfire”. Di tale pubblicità gratuita hanno approfittato affittando un furgone e girando per la capitale britannica vendendo oltre al disco e al relativo merchandising… gelati. Di un sense of humour formidabile quanto la maestria tecnica dei nostri giovani eroi danno d’altronde testimonianza (non per la prima volta) anche i crediti del disco, laddove Geordie Greep, Cameron Picton e Morgan Simpson satirizzano il vecchio prog, loro che sono ormai considerati i massimi alfieri di uno nuovo sul serio, attribuendosi rispettivamente trentatré, trentatré e ventisei diversi strumenti. Parecchi invero improbabili. Elencano in qualità di turnisti settantaquattro nomi, venticinque dei quali si sarebbero prestati nella terza di dieci tracce, Eat Men Eat, a produrre “burps”, “rutti”. Qualcuno ha detto “Frank Zappa”?

A riascoltarli, è un’influenza che sebbene in misura minore si coglie pure in predecessori per i quali sono stati chiamati in causa King Crimson, VDGG, Scott Walker, Gang Of Four, Wire, Fall, P.I.L., Pere Ubu, Sonic Youth, Butthole Surfers, Primus, Slint, Shellac, June Of 44, Battles. Se volete a questo giro aggiungete Captain Beefheart e Naked City. Non cambierà, tirando le somme, il risultato: nessuno ha mai suonato così. Nessuno.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.445, settembre 2022.

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