Archivi tag: reggae

Jah Live – Bob Marley a quarantatré anni dalla morte

In “Exodus”, che esce nel giugno 1977 ed è considerato l’apice della parabola artistica marleyana da quasi tutti quelli che non ritengono che quell’apice sia “Natty Dread”, il tema dell’esilio è presente sin dal titolo, argomento che fa capolino qui e là ed è centrale a una traccia omonima che chiude la prima facciata con toni spiazzantemente esultanti in luogo che dolenti, funkeggiando a rotta di collo e  sarà il primo brano del Nostro a venire massicciamente programmato dalle radio nere americane. Il lato A opta per l’impegno, dipanandosi prima della giubilante chiusura di cui sopra fra il lento skankeggiare di Natural Mystic e la melodia lieve ma ficcante di So Much Things To Say, la collisione di chitarre riverberate e fiati schizzati di Guiltiness e l’ondeggiante ipnosi di The Heathen, appesa al muro e al cielo da un assolo da manuale del nuovo chitarrista Junior Marvin: un piccolo Hendrix. Cambi facciata e il combattente, il polemista cede il passo al seduttore. Che si scatena nel ballo durante la festa di Jamming, si fa suadentissimo con Waiting In Vain e presumibilmente cattura la preda con la ballatona da Marvin Gaye datosi al country-blues Turn Your Lights Down Low. Per poi festeggiare tenerissimo (sono già arrivati i bambini?) con la filastrocca favolistica di Three Little Birds e fare universale quel sentimento privatissimo che è l’amore con una impossibilmente gioiosa One Love, che dopo dodici anni di ininterrotta permanenza in repertorio riconosce infine e ufficialmente il debito nei confronti della People Get Ready di Curtis Mayfield.

All’epoca, di “Kaya” (pubblicato nel marzo 1978 e numero 4 in Gran Bretagna migliorando di quattro posizioni il piazzamento del predecessore) si parlò come di un lavoro deludente e compromissorio, ricercatamente commerciale, una sensibile involuzione rispetto a “Exodus”. Capita ancora di leggerne in questi termini e ogni volta rido agro. Ma di quale involuzione si ciancia quando il disco è figlio di quelle stesse sedute (la scelta più logica sarebbe stata approntare un doppio) che avevano fruttato l’album prima? Giustamente acclamato come un capolavoro, ove altrettanto routinariamente “Kaya” viene detto un mezzo passo falso irredento dalla presenza del micidiale funky reggae party di Is This Love. È tempo di rivalutarlo e tanto. In particolare per una prima facciata ideale estensione, tolta la drammatica parentesi di Sun Is Shining, della seconda di “Exodus”, solo che qui prima di celebrare l’amore per la donna si celebra ─ Easy Skanking, la traccia omonima ─ quello per la ganja. Varrà la pena ricordarlo: per i rasta non una droga ma un sacramento. E del secondo lato vorrei citare almeno una gigiona e aromatizzata errebì Running Away e una Time Will Tell in cui torna il gusto dello spiritual. È ora di farla finita di scrivere scempiaggini su “Kaya” e visto che ci siamo pure sul doppio dal vivo (dicembre sempre ’78) “Babylon By Bus”: elefantiaco e troppo patinato e troppo rock, troppo questo e quello e blah blah blah. Ove per ogni chitarra in assolo sopra le righe c’è uno slargo dub (si ascolti la seconda metà di Exodus), per ogni successo un arrangiamento inedito e non di soli successi è fatto il cartellone.

Il seppure obbligato soggiorno londinese sarebbe in fondo felice per Marley, che lontano dalle tensioni giamaicane può rilassarsi, scrivere alcune delle sue canzoni più memorabili, dedicarsi più che mai al calcio nel tempo libero e in quello che avanza ancora alla più importante delle tante tresche extraconiugali, un torrido affaire con Cindy Breakspeare, Miss Mondo 1976 e non aggiungo altro. Sarebbe felice, non fosse per il dettaglio di una ferita a un piede che il Nostro si è procurato proprio giocando a pallone e non vuole saperne di guarire. Il 7/7/1977, data infausta che nella cosmologia rastafari è fortemente indiziata come quella del principio della fine del mondo, si fa visitare a Londra e il verdetto è preoccupante. C’è il serio rischio che si sviluppi un tumore e per scongiurarlo i medici consigliano l’amputazione dell’alluce. Marley è riluttante, anche per via dei precetti religiosi che osserva, a sottoporsi all’operazione. Non senza un secondo consulto. Il chirurgo che lo esamina a Miami sentenzia che basterà un trapianto di cute. Il suo destino è segnato.

Sono due ultimi LP le pietre miliari sulla strada che lo condurrà alla morte l’11 maggio dell’81. “Survival” (ottobre 1979) è il disco in cui si recupera l’impegno politico, in una chiave di panafricanismo spinto esplicitata sin da una copertina in cui sono riprodotte le bandiere degli stati del Continente Nero, tutti eccettuati quelli sotto il tallone di regimi coloniali o razzisti. Vi sfilano principalmente canzoni di lotta, da un’esuberante Zimbabwe a una corale Africa Unite, da una marziale Babylon System a una perentoria Wake Up And Live, ed è una parentesi la giocosamente autoreferenziale (un’ode al reggae stesso) One Drop. Se “Uprising” (giugno 1980) è un altro mezzo capolavoro, e non il congedo dimesso che rischiò di essere, lo dobbiamo a Chris Blackwell e pure di questo non potremo mai ringraziarlo abbastanza. Quando ne ascolta i nastri il capoccia della Island apprezza la malinconica ma pure scherzosa Pimper’s Paradise e la zuccherosamente innodica Forever Loving Jah, e ovviamente la disco in levare di Could You Be Loved che ha sopra tatuata in caratteri cubitali la parola “hit”, ma osserva che all’album manca qualcosa. Marley non replica, sorride e basta. Il giorno dopo torna in studio con Coming In From The Cold e Redemption Song. Ma sono anche tre concerti a farsi tappe verso l’ineluttabile.

Il 22 aprile 1978 i Wailers sono a Kingston, di nuovo, per “One Love Peace”, festival stavolta bi-partisan che auspica che nel dibattito politico nell’isola si torni a usare la forza del ragionamento e si metta da parte quella delle armi. Il colpo di scena si ha sulle note di Jamming, quando un Marley come in trance convoca sul palco gli acerrimi rivali Edward Seaga e Michael Manley e fa sì che si stringano la mano, prodigio fino a quel giorno pronosticato come appena più probabile della pace fra israeliani e palestinesi. Il 18 aprile 1980 è un’esibizione di Bob Marley & The Wailers a celebrare di fronte a una folla oceanica, nella capitale Harare, la caduta del regime razzista rhodesiano e con essa la nascita dello Zimbabwe. Il sipario cala nella già più volte menzionata Pittsburgh il successivo 23 settembre. Due giorni prima Marley ha avuto un malore a New York, mentre faceva jogging in Central Park. Il giorno prima gli hanno detto che ha un tumore al cervello e gli restano tre settimane di vita. Resisterà invece otto mesi, benché metastasi gli vengano poi trovate pure nel fegato e nei polmoni.

L’ultima foto lo coglie in una clinica bavarese il 31 marzo 1981 e, a vederlo magro come un internato in un lager e spaurito come un bambino, ti sale un groppo in gola. Ma poi ne scruti meglio lo sguardo e lo scopri così sereno che ti pare impossibile che quest’uomo sia morto. Non può morire uno come Bob Marley e difatti ventisei anni dopo è ancora fra noi: Jah live.

Tratto da Le canzoni di libertà e redenzione di Bob Marley. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.25, primavera 2007. Ristampato in Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune.

2 commenti

Archiviato in anniversari, Hip & Pop

Le canzoni di libertà e redenzione di Bob Marley

Un giorno imprecisato di inizio 1962, Kingston, Giamaica. È sempre lunga la coda dei questuanti davanti all’ufficio del signor Dodd al Coxsone’s Musik City, ma alle nove e mezza di mattina magari no ed è a motivo di ciò che quel ragazzetto basso e smilzo, ma muscoloso, e che dimostra anche meno dei diciassette anni che ha, si è presentato tanto presto. Ha delle canzoni da fare ascoltare a colui che si è imposto in breve come il discografico principe dell’isola e non vuole che nel momento fatidico sia distratto da altro. Strategia fin troppo riuscita, visto che Dodd non è nemmeno arrivato ancora. Né si sa se verrà, gli comunica un tizio dai lineamenti orientali impegnato in una fitta conversazione con un ragazzo ancora più giovane, quattordici anni appena e già un 45 giri all’attivo: tal James Chambers o Jimmy Cliff che dir si voglia. Hai delle canzoni? Fammele sentire! Chissenefrega se non hai la chitarra dietro! Un po’ irritato il giovanotto attacca. Non è nemmeno a metà del primo pezzo quando Leslie Kong se lo piglia sotto braccio e lo accompagna nel vicino studio di registrazione. Stacco.

Parigi, maggio 1977. È una delle più grandi stelle della musica mondiale, ormai, ma un piccolo rimpianto nella sua vita ce l’ha: gli sarebbe piaciuto essere una delle più grandi stelle del calcio mondiale. È una mezzala destra veloce e sgusciante, dagli ottimi fondamentali e con un talento speciale per l’ultimo passaggio, quello decisivo. Si allena come un professionista e gioca spesso. Quel giorno la sua squadra ─ formata da musicisti, tecnici al seguito, assortiti amici ─ è impegnata contro una selezione di giornalisti francesi. Uno di costoro entra talmente duro da costringerlo ad abbandonare il campo. Si toglie a fatica lo scarpino destro e osserva preoccupato l’alluce, già uscito malconcio da un altro scontro, due anni prima. Sfido che fa male. Unghia e carne si sono separate. Stacco.

Pittsburgh, Stati Uniti, 23 settembre 1980. Fischi e applausi in uno Stanley Theatre stracolmo si acquietano lentamente quando quell’uomo al centro del palco intona come bis, accompagnato solo da un rullare di percussioni oltre che dalla sua chitarra acustica, il brano designato qualche mese prima a suggellare il suo ultimo album. È una canzone diversa da tutte quelle che gli hanno regalato la fama. È uno spiritual. È un blues. “Gli antichi pirati, sì, mi hanno rapito,/mi hanno venduto alle navi dei mercanti./Dopo qualche minuto mi hanno preso/dall’abisso senza fondo/ma la mia mano è stata resa forte/dalla mano dell’Onnipotente/…/Tutto ciò che ho avuto, sono canzoni di libertà./Non mi aiutereste a cantare queste canzoni di libertà?/Perché ho avuto solo canzoni di redenzione,/canzoni di redenzione”. Non è mai sembrato così fragile. Stacco.

Il portavoce dei senza voce

Non sono i numeri che possono dare le dimensioni vere della fama di Bob Marley e tuttavia i numeri impressionano: i quindici milioni di copie venduti in ventitré anni da “Legend”così come quel pazzesco milione totalizzato dal quadruplo del 1992 “Songs Of Freedom”, cifra che ne fa il cofanetto di maggiore successo di chiunque e di sempre. L’artista più popolare di tutti i tempi? Per certo uno le cui vendite vanno misurate non in decine ma in centinaia di milioni di copie, benché negli Stati Uniti non abbia mai sfondato davvero (il piazzamento migliore un numero 8) e in Gran Bretagna non sia andato al primo posto che post mortem. Il conteggio non potrà mai essere preciso, inevitabilmente approssimato per difetto. Stiamo parlando dell’autore di Simmer Down, il 45 giri più ascoltato nel 1964 in Giamaica, ottantamila esemplari e facendo le proporzioni è come se un singolo in Italia ne totalizzasse due milioni. Stiamo parlando dell’autore di Trenchtown Rock, nel 1971 prima per cinque mesi filati nell’isola caraibica. Stiamo parlando di un autore e un gruppo sconosciuti in Europa quando nell’aprile 1973 vedeva la luce l’esordio su Island, “Catch A Fire”, ma che in patria erano i numeri uno già da nove anni. Se si possono ritenere ragionevolmente esatti i conti fatti da quel momento dall’etichetta di Chris Blackwell non bisognerebbe dimenticarsi che, in base a un accordo parte integrante del contratto Island, gli LP “inglesi” di Marley in Giamaica uscirono Tuff Gong, marchio di proprietà dell’artista stesso. Quanto vendettero? Non lo sapremo mai, come non sapremo mai a quanto erano arrivati i dischi su Beverley’s, World Disc, Studio One, Coxsone, Ska Beat, Rio, Doctor Bird, Bamboo, Trojan, Summit, Black Heart, Justice League, Maroon, Upsetter, Punch, Unity, Shelter, Clocktower, JAD, Wirl, CBS, Cotillion, Jackpot, Wail’n’Soul’m, Musik City, Escort, Supreme, Bullet, Green Door, G&C. Eccetera.

Ma considerate soprattutto questo: che c’è da presumere che per ogni copia legale del solo “Legend” venduta in Occidente o in Giappone, nel mondo abbiente insomma, dieci taroccate siano finite sui banchi dei mercati di Addis Abeba o Kinshasa, di Bombay come di Caracas, ad Algeri, in Costa d’Avorio o nelle Filippine. Quanto sarebbe piaciuto a Marley tutto ciò! A lui che a un dato punto si fece attentissimo ai bilanci, ma solo perché si era stufato di farsi fregare e aveva tante bocche da sfamare. A lui che dopo ogni concerto nel suo paese era solito caricare un furgone di frutta e andare a distribuirla ai poveri. A lui che non diede mai importanza ai beni materiali e più un disco vendeva e più era felice, ma non perché era diventato più ricco, no: perché il messaggio era arrivato a un altro po’ di gente. E il messaggio è arrivato eccome. Più celebre e celebrato di quanto non sia stato in vita, a ventisei anni dalla prematura dipartita Marley è attuale ed emoziona come non mai, la sua faccia ─ icona di straordinaria forza, un Malcolm X con i dreadlocks, un Che Guevara del pentagramma ─ e la sua musica riconosciute ovunque e soprattutto laddove di canzoni di redenzione c’è un disperato bisogno. Perché tutto il resto manca. Fu il primo portavoce dei senza voce e continua a esserlo. Non è questione di qualità delle canzoni, che pure è stratosferica ma da sola non spiega perché costui sia noto e amato anche dove i Beatles o Madonna non lo sono. Non è questione di carisma, che era talmente smisurato da riuscire a farsi catturare dai solchi dei dischi ma dopo qualche decennio non può che sfumare nel Mito. E non è nemmeno questione di credibilità, siccome stiamo parlando di un uomo che era, per dire, fermamente convinto della divinità di Hailé Selassié e che l’Etiopia fosse la Terra Promessa dove gli eredi della diaspora nera sarebbero stati di nuovo a casa. No. È un altro il segreto del perdurare di Marley, del suo ritrovarsi cristallizzato in una bolla atemporale in cui risuonano parole che sanno di verità e parlano di pace ed eguaglianza, valide ora come quando furono pronunciate. È che, come nessuno, Marley smentisce quell’adagio springsteeniano che ammonisce a fidarsi della canzone e mai del cantante. Con Marley questa distinzione non c’è. Con Marley il cantante e la canzone diventano la stessa cosa. L’immedesimazione è totale, la sincerità assoluta. A Bob Marley puoi credere. Ti tocca il cuore perché era un puro di cuore e no, non ne sto facendo un santino.

Prosegue per altre 59.665 battute su Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.25, primavera 2007. Bob Marley nasceva settantotto anni fa.

Lascia un commento

Archiviato in anniversari, Hip & Pop

Linton Kwesi Johnson e la nascita della dub poetry

Compie oggi settant’anni Linton Kwesi Johnson, intellettuale, attivista, grande poeta prestato alla musica. Sfortunatamente da troppissimo aspettiamo invano da lui un disco nuovo, o un libro.

Forces Of Victory (Island, 1979)

L’immagine più emblematica di Linton Kwesi Johnson – attivista politico, intellettuale, poeta – è quella leggendaria che campeggia sulla copertina del suo primo album, “Dread Beat An’ Blood”, o per essere precisi sulla stampa che ne è da molto tempo disponibile e sostituisce la prima, pubblicata nel 1978 dalla Virgin con un davanti di confezione di gusto crassiano e a nome  Poet And The Roots: aria già allora professorale Linton è colto mentre, megafono in mano, arringa la folla davanti a una stazione di polizia. Aveva ventisei anni, da quindici risiedeva in Inghilterra, otto anni prima si era unito alle locali Pantere Nere, nel mentre contemporaneamente si guadagnava da vivere come contabile, studiava sociologia e poco dopo, contraltare britannico dei newyorkesi Last Poets, cominciava a scandire le sue rime sui ritmi elaborati da una congrega di percussionisti, i Rasta Love. Di tali rime in patwa – argomento la difficile situazione degli immigrati dalle Indie Occidentali sudditi di Elisabetta, affrontata con vivace verve polemica non scevra però di tocchi di tenero umorismo – riempiva due volumi, The Voices Of The Living And The Dead e, appunto, Dread Beat An’ Blood, che dopo che un libro diveniva un disco. È un lavoro di una rilevanza storica difficilmente sopravvalutabile, siccome è con esso che nasce la cosiddetta dub poetry, che con Michael Smith e Mutabaruka, Benjamin Zephaniah, Queen Majeeda e Jean Binta Breeze (quest’ultima una scoperta dello stesso Johnson) troverà altri validi esponenti. Musicalmente però non è eccezionale, le legnose basi poco più che uno sfondo al fluire delle rime.

È con “Forces Of Victory” che la collaborazione con Dennis Bovell, produttore abilissimo e figura di spicco, con i Matumbi, del reggae locale dei ’70 decolla sul serio, accompagnando ragionamenti e proclami con spartiti raffinati in cui nel dub si fanno largo seduzioni jazz. Le “forze della vittoria” sono quelle che animano quell’agostano carnevale caraibico di Notting Hill che tanto ispirò anche i Clash. Mirabili quanto sempre più distanziate repliche in “Bass Culture” (1980), “Making History” (1984), “Tings An’ Times” (1991).

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.20, inverno 2006.

Bass Culture (Island, 1980)

Caso raro di intellettuale prestato alla musica (viene in mente un altro nero, in America però: Gil Scott-Heron), Linton Kwesi-Johnson milita nelle Pantere Nere britanniche, lavora da contabile, studia sociologia e pubblica poesie (prima sul periodico “Race Today”, quindi in due volumi), che legge in giro facendosi talvolta accompagnare (i Last Poets un’evidente ispirazione) da un gruppo di percussionisti. Nel 1978 stringe con Dennis Bovell, collaboratore anche del Pop Group, produttore abilissimo e figura di spicco, con i Matumbi, del reggae locale dei ’70, un sodalizio destinato a segnarne l’intera vicenda discografica. “Dread Beat An’ Blood” sistema le cantilenanti rime in patwa (l’inglese spurio delle Indie Occidentali) di Johnson su dilatate scansioni in levare inventando una formula, la dub poetry, che il successivo “Forces Of Victory” perfezionerà aggiungendo spezie jazz. Ancora meglio “Bass Culture”, denuncia accorata ma anche carica di humour delle condizioni di vita degli immigrati porta su un dub di asciutta vigoria e nondimeno eccezionale godibilità. Un disco enorme nella sua semplicità. In una produzione via via sempre più rada, spiccano ancora “Making History”, dell’84, e “Tings An’ Times”, del ’91, musicalmente più ricchi ma meno intensi.

Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.

Lascia un commento

Archiviato in anniversari, archivi

Il primo disco brutto di Sting (che poi ne farà di peggiori)

Tutti a celebrare oggi i settant’anni di Gordon Matthew Thomas Sumner, in arte Sting. Io che sono un po’ monello lo faccio a modo mio ripescando, non per la prima volta, una stroncatura del terzo LP dei Police tratta dal numero di “Extra” in cui ci divertimmo a redigere una lista di “100 album da evitare”.

The Police – Zenyatta Mondatta (A&M, 1980)

Non c’è due senza tre, giusto? Due titoli insensati e fessacchiotti a battezzare due album solidi e irrestistibili come “Outlandos D’Amour” e “Reggatta De Blanc” ed ecco: declinando il più incisivo reggae bianco di sempre sul lato pop dei Clash, i Police diventano le prime vere superstar espresse dalla new wave. Vale la pena di insistere e allora tirano fuori un titolo che più cretino non si può e anzi sì, visto che il singolo che lo accompagna nei negozi si chiama De Do Do Do, De Da Da Da. Che disdetta che dimentichino di metterci dentro qualche canzone come si deve. Di decente da qui, se si è di bocca assai buona, si può cavare una Driven To Tears che era peraltro stata scartata dai dischi prima e il funkettino Voices Inside My Head. A esagerare, Don’t Stand So Close To Me, orecchiabile ma un’ombra appena di una Roxanne, una Message In A Bottle, una Bring On The Night, una Walking On The Moon. Polveri bagnate, troppo poco reggae, troppa voglia di monetizzare in fretta la fama appena conquistata. “Ghost In The Machine” e “Synchronicity” rimetteranno a posto le cose, prima che Sting cominci a sfornare in proprio lavori che in qualche caso faranno rimpiangere “Zenyatta Mondatta”, che quantomeno non è pretenzioso.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.9, primavera 2003.

9 commenti

Archiviato in anniversari, archivi

Uno studio arkeologico su Lee “Scratch” Perry

Posso garantire che, se solo il governo britannico mi lasciasse mano libera, potrei riportare questo paese ai vertici. In che modo? La musica rende tutto possibile. La musica è felicità e la felicità è potere. Sto cercando di portare la verità alla gente. Un uomo deve dire ciò che pensa e cercare la perfezione. Anche l’uomo più perfetto commetterà degli errori, ma saprà trarne un insegnamento.

– Che progetti hai per l’immediato futuro?

Sposare la Regina d’Inghilterra, licenziare il Duca e vivere a Buckingham Palace. Voglio che la Regina abbia un’opportunità di fare sesso con me. Ciò potrebbe guarirla dai suoi malanni e scioglierle la lingua – lo so che è timida. Ma è comunque amabile, una bella figliola.

– Raccomanderesti lo stesso trattamento a Margaret Thatcher?

Bah! Ti aspetti che mi piaccia una strega? A tutto c’è un limite. (scambio di battute fra Lee Perry e un intervistatore, 1987)

Del superare ogni limite Rainford Hugh Perry, sessantatré anni ben portati il prossimo marzo, ha fatto una filosofia di vita. Suoi gli abiti di scena più bizzarri che mai si siano visti eccettuati gli altri due grandi eccentrici della musica nera dell’ultimo mezzo secolo, Sun Ra e George Clinton. Sue le interviste più stravaganti nelle quali possiate imbattervi: torrenziali diluvi di parole, a volte persino in rima, in cui si mischiano ricostruzioni inverosimili della sua carriera e brandelli di una personale mitologia a base di alieni e peculiari interpretazioni della Bibbia, umoristici deliri di onnipotenza e ogni tanto una genuina perla di saggezza. Sa di avere la fama di esser matto e ci gioca su. Nel momento più drammatico della sua vita matto probabilmente, nel senso clinico del termine, lo fu davvero. Stressato da troppi anni di superlavoro, scaricato dalla Island, abbandonato dalla moglie che aveva portato con sé i figli e – pare – un bel po’ di nastri, in preda a ossessioni paranoidi accentuate dall’abuso di alcool e cocaina, una mattina del 1979 Lee Perry diede fuoco alla sala di registrazione che aveva inaugurato cinque anni prima e in cui aveva posto mano a diverse delle pietre miliari della storia del reggae e la guardò bruciare. Poi, dopo avere coperto le macerie dei Black Ark Studios di graffiti insensati, prese il primo aereo per la Gran Bretagna. “Ho impiegato dieci anni per ricostruire la mia vita”, confesserà in un’intervista in un passeggero momento di serietà.

Da tempo Perry vive in Svizzera, sposato a un’ex-tenutaria di bordello dal look crampsiano che gli fa anche da manager. Benché siano trascorsi sette anni dall’uscita dell’ultimo album all’altezza del suo genio (“Lord God Muzik”), l’interesse per la sua opera non è mai stato così vivo. Il recupero di un catalogo immenso (fra produzioni sue e per altri, un migliaio di 45 giri e svariate decine di LP: perdonate l’assenza di una discografia) prosegue senza posa e i giornalisti fanno la fila per parlargli. Una nuova generazione di ascoltatori va scoprendolo, grazie in primis ai Beastie Boys, che gli hanno dedicato un numero monografico della fanzine “Grand Royal” e lo hanno invitato a partecipare ai concerti pro-Tibet. Si comincia infine a percepirlo per ciò che è: uno dei giganti della musica del Novecento. Non sono solo comportamentali i limiti che ha violato da quando, nel 1959, trovò lavoro presso la sala di incisione di Coxsone Dodd, la più importante di Kingston.

Considerate quanto segue: la sua People Funny Boy, colorita invettiva nei confronti dell’ex-principale Joe Gibbs, è ritenuta una delle prime canzoni che appropriatamente possano essere definite reggae; fu il primo a portare un gruppo reggae in tour in Gran Bretagna (accadde nel 1969 a ruota del suo più grande successo, Return Of Django, numero 5 nella classifica dei 45 giri); fu il primo a valorizzare Bob Marley; il suo “Blackboard Jungle Dub” contende ad “Aquarius Dub” di Chin Loy e a “Java Java Java Java” di Clive Chin il titolo di primo 33 giri dub; ogni volta che si fa una lista dei cento, dei cinquanta, dei venti migliori LP di reggae mai usciti vi figurano al peggio uno o due titoli suoi e tre o quattro prodotti da lui. Per John Lydon è poco meno che Dio. I Clash lo idolatravano e lo vollero per registrare Complete Control. E una collaborazione con i Talking Heads non andò a buon fine soltanto per un madornale equivoco: dacché stazionavano presso i Compass Point di Nassau, Perry credette che fossero sotto contratto per l’odiata Island e non ne volle sapere.

Tranne i diretti interessati, nessuno sa perché non abbiamo mai avuto l’opportunità di scoprire cosa avrebbero potuto combinare insieme Paul McCartney e Lee “Scratch” Perry.

Dub! La batteria è il cuore che batte. Bum! Bum! Il basso è il cervello. Il basso che cammina, il basso che parla. Sono perfetti insieme.

Dibattuta, e in fondo irrilevante, la questione della primogenitura del dub, ciò che conta è che il Nostro ne è stato, oltre che uno degli inventori, il supremo maestro. Nato in maniera casuale dagli esperimenti cui diversi produttori cominciarono a sottoporre, nei primi anni ’70, la versione strumentale che si accompagnava nei singoli di reggae alla canzone principe, con il passaggio al formato del 33 giri il dub conquistò l’autonomia dallo stile che lo aveva generato ed esasperandone la lentezza e la ripetitività completò il processo di moviolizzazione della musica giamaicana, scandito in precedenza dalla trasformazione dello ska in rocksteady e di quello in reggae. Ma a parte ripetitività e lentezza, altre caratteristiche rendono storicamente il dub un modo di fare musica unico e straordinariamente innovativo: la prevalenza assoluta della sezione ritmica; la rilevanza avuta dalla tecnologia (unità di ritardo, stanze d’eco, equalizzazioni estreme) nella sua nascita e nella sua evoluzione e l’uso creativo del mixer, assurto con esso alla dignità di strumento; la sovrapposizione di ritagli di melodie con una tecnica accostabile al cut up burroughsiano; l’accento posto sull’improvvisazione (di molti titoli di Lee Perry – come dei vari King Tubby, Bunny Lee, Joe Gibbs – non esiste master, perché la manipolazione del nastro originale venne impressa sulla lacca in diretta) che rende ciascuna version un esemplare unico come nel jazz, dal be bop in avanti, ogni esecuzione live; infine, l’effetto straniante che ne fa la più lisergica delle musiche. Ma ove nel rock psichedelico l’effetto allucinatorio è raggiunto di norma con l’addizione di elementi, nel dub è ottenuto per sottrazione.

Prosegue per altre 15.200 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.8, novembre/dicembre 1998. Lee “Scratch” Perry ha lasciato ieri il pianeta Terra, alla bella età di ottantacinque anni. Buon viaggio, Maestro. Stupisci gli alieni.

5 commenti

Archiviato in coccodrilli, Hip & Pop

Da profeta in patria a star globale, in tre album – Bob Marley (6/2/1945-11/5/1981)

African Herbsman (Trojan, 1974)

Chi sa di reggae è perfettamente consapevole del fatto che il Bob Marley del periodo Island non è tutto il Marley da conoscere. Che il nostro uomo aveva alle spalle un’ultradecennale carriera in patria quando trovò ospitalità da Chris Blackwell e che molte delle sue canzoni più famose erano già state scritte e registrate e alcune più volte. Magari le ha ascoltate, quelle prime versioni, e ha dunque potuto rendersi conto che il Marley “giamaicano” non è affatto minore rispetto a quello universalmente noto, tutt’altro. Quanti ancora non ne erano al corrente sono invitati a toccare con orecchio, procurandosi questa raccolta d’epoca. Non sono pochi a preferire le letture qui contenute di pietre miliari come Lively Up Yourself, Small Axe, Duppy Conqueror, Trenchtown Rock, Four Hundred Years a quelle successive.

Natty Dread (Island, 1975)

Sarebbe potuto essere un disastro. È lungo tredici anni il percorso che porta a “Natty Dread” dall’acerbo debutto a 45 giri (Judge Not) che il diciassettenne Robert Nesta Marley dà alle stampe nel 1962. Un anno dopo nascono i Wailing Wailers, complesso vocale inizialmente devoto al soul che attraverso innumerevoli peripezie, molti e tuttavia monetariamente poco fruttuosi singoli di successo in Giamaica, un dimezzamento della formazione da sestetto a trio e un accorciamento della ragione sociale finisce per ritrovarsi in quel di Londra nella primavera 1972. Dopo una falsa partenza con la CBS (che finirà per rimpiangerli come la Decca i Beatles), i ragazzi si accasano presso la Island, che si mette di buzzo buono per farne le prime star internazionali del reggae. “Catch A Fire” e “Burnin’” vendono discretamente, conquistando il pubblico del rock senza mettere a disagio i cultori storici, e a quel punto Bunny Livingston se ne va (troppa pressione) e Peter Tosh pure (troppe ambizioni di leadership). Marley deve rifondare il gruppo. Sarebbe potuto essere un disastro.

È invece un trionfo “Natty Dread”, primo tassello del trittico, completato da “Rastaman Vibration” ed “Exodus”, che farà di Marley la prima vera star del pop proveniente da un paese del Terzo Mondo. Supportato dai cori delle I-Threes e da quella che è forse la migliore sezione ritmica in levare di sempre (i fratelli Aston e Carlton Barrett), il nostro eroe infila un classico via l’altro, da Lively Up Yourself a No Woman No Cry, da Them Belly Full (But We Hungry) a Rebel Music, dalla title track a Talkin’ Blues, a Revolution. Canzoni che scivolano su un organo da liturgia negra e una chitarra sontuosa, bellissime e nondimeno non bastanti a giustificare una leggenda che la prematura morte, nel 1981, del loro artefice incrementerà esponenzialmente. Figlia più che altro di un parlare a nome dell’umanità da cui costui proveniva e di quella qualità ineffabile chiamata carisma.

Uprising (Island, 1980)

Se “Uprising” è l’ennesimo articolo imperdibile in un catalogo, quello del Bob Marley anni ’70, fatto solo di capolavori e mezzi capolavori, e non il congedo dimesso che rischiò di essere, lo dobbiamo a Chris Blackwell. Quando ne ascolta i nastri il signor Island apprezza la malinconica ma pure scherzosa Pimper’s Paradise e la zuccherina innodia di Forever Loving Jah, e ovviamente la disco in levare di Could You Be Loved, che ha sopra tatuata in caratteri cubitali la parola “hit”, ma osserva che all’album manca qualcosa. Marley non replica, si limita a sorridere. E il giorno dopo torna in studio con Coming In From The Cold e Redemption Song. Di quest’ultima l’edizione in CD oggi in commercio aggiunge a fondo corsa una versione registrata con il gruppo, e ben diversa da quella universalmente nota, facendole poi ancora andare dietro la Could You Be Loved al tempo su 12”. Per quanto siano belle curiosità la loro inclusione in scaletta pare inopportuna per come sciupa il pathos che dava, alla stampa originale in vinile, il suo chiudersi con la Redemption Song acustica che chiunque sta leggendo conoscerà. Suggello che emozionava già all’uscita dell’album e cento volte di più quando l’anno dopo un tumore al cervello uccideva il profeta del reggae e ci si rendeva conto che quello struggente spiritual era stato il suo addio alla vita.

Schede tratte da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.

Lascia un commento

Archiviato in anniversari, archivi

Anime migranti in un momento di grazia irripetibile – Gli Almamegretta di “Sanacore”

La voce più soul che mai abbia abitato disco in Italia? Per tanti quella di Raiz, sentimento puro che mai scivola nel melò nel mentre va piroettando fra Napoli e Kingston, come molta parte della musica di questo combo partenopeo cui il Bel Paese è sempre stato stretto. Notevole il biglietto da visita che porgeva nel 1992 con il mini “Figli di Annibale”, che tuttavia in nessun modo preparava alla stravolgente bellezza del debutto adulto, di un anno successivo, “Animamigrante”. E a sua volta quello impallidiva raffrontato a questo capolavoro assemblato due anni dopo fra la Campania e Londra, con sui cursori del mixer le sapienti mani di Adrian Sherwood, Mr. On-U Sound, nel cui pur innovativo e mediamente strepitoso catalogo poco, quasi nulla vi è di altrettanto mirabile. Disco perfetto per articolazione d’assieme e in ogni dettaglio e che respira la grazia di un momento irripetibile, “Sanacore” decolla sul dub circolare all’ombra del Vesuvio, carezzato da ottoni dolci e birichini, di ’O sciore cchiù felice, resta in altissima quota con la dondolante e marziale Maje e definitivamente squarcia la stratosfera con una Pé dint’e viche addò nun trase ’o mare che, saldamente agganciata alla migliore tradizione autoctona, getta un occhio al solito sulla Giamaica e l’altro al Bosforo. Per volare fin dentro il sole con la canzone che lo intitola, distillato di esuberanza che inebria e scaccia il blues.

Non ci sarebbe stato in fondo bisogno d’altro, “Sanacore” e la storia degli Almamegretta avrebbero anche potuto chiudersi qui. Ma questo include ancora gemme come la psichedelica e araba Ammore nemico, l’africaneggiante Ruanda, una Nun te scurdà di squisita suadade, l’electrodub Tempo. E quella avrebbe messo in fila altri album splendidi ─ “Lingo”, “4/4”, “Imaginaria” ─ e oltretutto capaci di scompaginare il gioco gettando sul tavolo techno e downtempo, funky, house e quant’altro. Però qui la faccenda sta su un altro livello: quello della magia.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.8, inverno 2003. Gennaro Della Volpe, in arte Raiz, compie oggi cinquantaquattro anni.

Lascia un commento

Archiviato in anniversari, archivi

No More Living Wailers – Un tributo a Bunny Wailer (10/4/1947-2/3/2021)

E così dopo Bob Marley, rubatoci da un tumore l’11 maggio 1981, e Peter Tosh, che mani omicide ci strappavano l’11 settembre 1987, se n’è andato anche l’ultimo dei Wailers. Lo ricordo con una scheda dell’album con cui esordiva da solista che scrissi per il numero di “Extra” in cui compilavo una discografia di cento classici del reggae. Lo includevo fra i venti più classici di tutti.

Blackheart Man (Island, 1976)

Ogni medaglia, si sa, ha due facce. Ci si può interrogare, considerato quanto siano straordinari i dischi dei Wailers del solo Marley, se avrebbero potuto esserlo persino di più se la banda fosse rimasta la creatura tricefala che fu per oltre un decennio. Se quelli che rispetto al leader non furono mai dei gregari, ossia Peter Tosh e Neville O’Riley Livingston, non avessero fatto mancare il loro apporto in una pluralità di voci ineguagliata nel reggae e con pochissimi pari in qualunque altro ambito. D’altro canto il rovescio è che così, oltre ai capolavori di Marley, ci ritroviamo in mano un bel gruzzoletto di dischi eccezionali firmati degli altri due. Ogni medaglia ha due facce. Se da un lato possiamo crucciarci del fatto che la stessa ragione che portò Livingston a sciogliere un sodalizio che era umano (era cresciuto in casa Marley come un fratello minore) prima ancora che artistico, ossia l’insofferenza per le pressioni  del successo, l’ha indotto a concedersi molto di rado al pubblico fuori dalla Giamaica, dall’altro è stato esattamente il fortissimo legame con la sua terra a conservarlo vitale e curioso fino ai tardi ’90: oltre che per il profilo uniformemente alto, la sua discografia in proprio è rimarchevole pure per l’essere rimasta sempre in sintonia con quanto accadeva sull’isola. Sublime esempio l’immersione nei ritmi digitali compiuta nel 1987 con lo spettacolare “Rule Dance Hall”. Due anni più tardi “Liberation” avrebbe confermato una felicità d’ispirazione inaudita per uno a quel punto sulle scene da oltre un quarto di secolo. Questo o quel titolo sarebbero stati più che degni di rappresentare Bunny Wailer in questa lista.

Si è deciso però alla fine per quello che fu il debutto in proprio, assemblato con l’aiuto di Marley stesso, di Peter Tosh e della ritmica dei Wailers (a testimoniare che la separazione era stata amichevole) e coinvolgendo la crema dei turnisti di Kingston. Diviso più o meno a metà fra già conclamati classici come la a quel punto giurassica Dreamland, e poi Bide Up, Fighting Against Convictions e Rasta Man e canzoni, prima fra tutte quella che lo intitola, che saranno subito riconosciute tali.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.20, inverno 2006.

3 commenti

Archiviato in archivi, coccodrilli

R.I.P. Bunny Lee, producer (23/8/1941-7/10/2020)

In linguaggio aziendale si chiama “massimizzare le risorse”, nel parlare di ogni giorno “fare di necessità virtù”. Giacché Edward O’Sullivan Lee è sempre stato bravissimo a fare questa e quella cosa, pare singolarmente appropriato che il cofanetto che ne celebra la spettacolare carriera appena pubblicato su Jet Star, “The Bunny ‘Striker’ Lee Story”, sia tanto povero nella confezione quanto ricco di sostanza. I quattro CD sono alloggiati in custodie slim (quelle da singolo, per intenderci) racchiuse a loro volta in un riquadro di un cartoncino quasi impalpabile, presentazione poverissima, cui per fortuna fa eccezione un libretto spesso e ben fatto quanto basta e cui d’altro canto corrisponde un prezzo invero invitante, sicché l’economia vale pure per il consumatore che sul contenuto nulla potrà mai avere da ridire: centouno brani, quasi cinque ore e venti di musica, ma che dico di musica, di storia della musica. Giamaicana e chiunque per il reggae nutra un pur minimo interesse prenda nota. E anche il collezionista più fornito, che sa che un’indagine esaustiva sull’opera del nostro eroe richiederebbe diversi box siffatti, vi scoverà, fra questo e quel successo, rare pepite in quantità più che sufficiente a giustificare l’investimento.

Nato il 23 agosto 1941, ribattezzato Bunny ancora bambino da una cugina per via delle fattezze tonde e simpatiche, Edward Lee entrava ventunenne nella già florida industria discografica di Kingston su raccomandazione del cognato Derrick Morgan, giovanissimo ma cantante già affermato, accasandosi presso la Treasure Isle di Duke Reid. Passerà verso metà decennio alla Caltone di Ken Lacks per quindi promuoversi nel 1967, da factotum di studio che era, a produttore in prima persona. Anno cruciale: se il primo brano su cui mette le mani, Listen To The Beat di Lloyd Jackson & The Groovers, passa inosservato pochi mesi dopo Music Field di Roy Shirley è una hit, per i tipi della Wirl, e prima che l’anno finisca il Nostro ha un’etichetta ─ omonima ─ tutta sua. Contrariamente ad altri produttori, non però una sala di incisione ed entra allora in ballo la necessità di cui sopra, quella che notoriamente aguzza l’ingegno. Sporgendosi sui ’70 con King Tubby come braccio destro (l’uomo che disputa a Herman Chin Loy, Clive Chin e Lee “Scratch” Perry l’invenzione del dub), Lee riflette su un fondamentale meccanismo del pop, quello del ricambio generazionale che rende riciclabili a oltranza, siccome per chi al primo giro non c’era risulteranno nuovi, i vecchi successi. Ed ecco che articoli dei ricchi cataloghi Studio One e Treasure Isle, che lui ben conosce avendoci spesso posto mano in origine, vengono reimmessi sul mercato in edizioni rivisitate, nel mentre viene sfruttata a fondo la moda del toasting, antesignano isolano del rap, sistemando sui retri dei 45 giri le versioni strumentali del lato A. Ovvio il risparmio di prezioso tempo, che è denaro, in sala di registrazione e non basta: quella stessa base ─ il cosiddetto “ritmo” ─ può essere venduta più volte se si portano in studio i dj soliti declamarci sopra dal vivo. O se diversi cantanti ci incollano su diversi testi, magari che rispondono uno all’altro (impagabile esempio, sul terzo compact nel cofanetto in questione, Dawn Penn che replica con I’ll Let You Go Boy alla Let Me Go Girl di Slim Smith & The Uniques). E ancora non abbiamo considerato il dub…

Raccontata così, a chi di reggae non è proprio un esperto potrebbe sembrare una presa in giro se non tout court una truffa. Si può capirlo, ma un simile giudizio non terrebbe conto delle straripanti personalità degli artisti che si trovarono a lavorare con Bunny Lee. Per non fare che pochi nomi: quel Johnnie Clarke che “può essere detto il primo cantante dancehall nella moderna accezione del termine” (Steve Barrow) e formidabili interpreti soul come “l’usignolo” Horace Andy e John Holt, Delroy Wilson e Leroy Smart, e inoltre dj di riconoscibilità assoluta come I- e U-Roy, Prince Jazzbo e Tappa Zukie, Doctor Alimantado e Jah Stitch. Leggenda vivente sebbene negli ultimi tempi non troppo praticante (la “Story” si ferma ai primi ’80, al pigrissimo quanto irresistibile Lovers Rock Medley di Sugar Minott), “Striker” ebbe il non indifferente merito di mettere assieme tutti questi talenti e molti altri, a partire dalla non ancora nominata band “della casa”: quegli Aggrovators da cui sono passati chitarristi come Earl “Chinna” Smith e Winston “Bo Beep” Bowen, tastieristi come Winston Wright o Ossie Hibbert, bassisti come Robbie Shakespeare e Aston Barrett (con Sly Dunbar o Carlton alla batteria), fiatisti come Bobby Ellis, Tommy McCook, Lennox Brown, Vin Gordon. Se non è abbastanza per essere chiamato genio, allora in materia di produzione soltanto Phil Spector (forse!) lo è stato.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.608, marzo 2005.

1 Commento

Archiviato in archivi, coccodrilli

Staring At The Rude Boys – I primi e unici Ruts

Forse mai dei versi di una canzone furono così tristemente profetici: in H-Eyes, retro di In A Rut, singolo di esordio nel gennaio 1979 dei Ruts, Malcolm Owen canta “sei così giovane, ti buchi per divertirti/ma ti fotterai la testa e finirai per morirne”. Argomento che tornerà ad affrontare in Dope For Guns, seconda traccia del primo LP di un quartetto prontamente ingaggiato dalla Virgin (a dare alle stampe il debutto a 45 giri era stata la minuscola People Unite, etichetta gestita dai Misty In Roots) e che vedeva la luce nel settembre dello stesso anno, e di nuovo nel marzo 1980 in Love In Vain (“non ti voglio più nelle mie braccia”), lato B del 7” Staring At The Rude Boys. Da lì a tre mesi gli altri componenti del gruppo ─ il chitarrista Paul Fox, il bassista John “Segs” Jennings e il batterista Dave Ruffy ─ comunicavano al cantante che era licenziato. Diversamente da come potrebbe sembrare, gesto di amore vero per un vero amico, scommessa azzardata sul fatto che, messo con le spalle al muro, fra le due passioni della sua vita, la musica e l’eroina, Owen avrebbe scelto la prima e si sarebbe ripulito. Sembrava funzionare, e difatti veniva riammesso nella band dopo pochi giorni, ma mai fidarsi delle promesse di un tossico: moriva per una overdose il 14 luglio, appena ventiseienne e prima che i Ruts completassero un secondo album vero. Pubblicato nel successivo dicembre, il pur valido “Grin And Bear It” raccoglie un po’ di brani da vari singoli e altri catturati live al Marquee Club, naturalmente ancora con Owen alla voce.

Appena riedito in vinile per celebrarne, con qualche mese di anticipo, il quarantennale, il solo 33 giri in studio non antologico dei Londinesi insieme ne rimarca la grandezza e l’immensità dell’occasione sprecata di lasciare una traccia ancora più importante nella storia del rock (i superstiti continuavano come Ruts D.C., ma non era la stessa cosa). Album immenso al punto da reggere il confronto con i primi due di quei Clash cui Owen, Fox, Segs e Ruffy venivano inevitabilmente accostati per la capacità di dividersi fra rovinosi assalti punk (ma You’re Just A… potrebbe essere piuttosto dei Buzzcocks e in Criminal Mind siamo diversi passi oltre, già in zona hardcore) ed escursioni in levare, Jah War la loro Police & Thieves, però autografa. Nessun altro gruppo bianco ha mai suonato il reggae con l’intensità bruciante dei Ruts.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.409, maggio 2019.

Lascia un commento

Archiviato in archivi