
Un giorno imprecisato di inizio 1962, Kingston, Giamaica. È sempre lunga la coda dei questuanti davanti all’ufficio del signor Dodd al Coxsone’s Musik City, ma alle nove e mezza di mattina magari no ed è a motivo di ciò che quel ragazzetto basso e smilzo, ma muscoloso, e che dimostra anche meno dei diciassette anni che ha, si è presentato tanto presto. Ha delle canzoni da fare ascoltare a colui che si è imposto in breve come il discografico principe dell’isola e non vuole che nel momento fatidico sia distratto da altro. Strategia fin troppo riuscita, visto che Dodd non è nemmeno arrivato ancora. Né si sa se verrà, gli comunica un tizio dai lineamenti orientali impegnato in una fitta conversazione con un ragazzo ancora più giovane, quattordici anni appena e già un 45 giri all’attivo: tal James Chambers o Jimmy Cliff che dir si voglia. Hai delle canzoni? Fammele sentire! Chissenefrega se non hai la chitarra dietro! Un po’ irritato il giovanotto attacca. Non è nemmeno a metà del primo pezzo quando Leslie Kong se lo piglia sotto braccio e lo accompagna nel vicino studio di registrazione. Stacco.
Parigi, maggio 1977. È una delle più grandi stelle della musica mondiale, ormai, ma un piccolo rimpianto nella sua vita ce l’ha: gli sarebbe piaciuto essere una delle più grandi stelle del calcio mondiale. È una mezzala destra veloce e sgusciante, dagli ottimi fondamentali e con un talento speciale per l’ultimo passaggio, quello decisivo. Si allena come un professionista e gioca spesso. Quel giorno la sua squadra ─ formata da musicisti, tecnici al seguito, assortiti amici ─ è impegnata contro una selezione di giornalisti francesi. Uno di costoro entra talmente duro da costringerlo ad abbandonare il campo. Si toglie a fatica lo scarpino destro e osserva preoccupato l’alluce, già uscito malconcio da un altro scontro, due anni prima. Sfido che fa male. Unghia e carne si sono separate. Stacco.
Pittsburgh, Stati Uniti, 23 settembre 1980. Fischi e applausi in uno Stanley Theatre stracolmo si acquietano lentamente quando quell’uomo al centro del palco intona come bis, accompagnato solo da un rullare di percussioni oltre che dalla sua chitarra acustica, il brano designato qualche mese prima a suggellare il suo ultimo album. È una canzone diversa da tutte quelle che gli hanno regalato la fama. È uno spiritual. È un blues. “Gli antichi pirati, sì, mi hanno rapito,/mi hanno venduto alle navi dei mercanti./Dopo qualche minuto mi hanno preso/dall’abisso senza fondo/ma la mia mano è stata resa forte/dalla mano dell’Onnipotente/…/Tutto ciò che ho avuto, sono canzoni di libertà./Non mi aiutereste a cantare queste canzoni di libertà?/Perché ho avuto solo canzoni di redenzione,/canzoni di redenzione”. Non è mai sembrato così fragile. Stacco.
Il portavoce dei senza voce
Non sono i numeri che possono dare le dimensioni vere della fama di Bob Marley e tuttavia i numeri impressionano: i quindici milioni di copie venduti in ventitré anni da “Legend”così come quel pazzesco milione totalizzato dal quadruplo del 1992 “Songs Of Freedom”, cifra che ne fa il cofanetto di maggiore successo di chiunque e di sempre. L’artista più popolare di tutti i tempi? Per certo uno le cui vendite vanno misurate non in decine ma in centinaia di milioni di copie, benché negli Stati Uniti non abbia mai sfondato davvero (il piazzamento migliore un numero 8) e in Gran Bretagna non sia andato al primo posto che post mortem. Il conteggio non potrà mai essere preciso, inevitabilmente approssimato per difetto. Stiamo parlando dell’autore di Simmer Down, il 45 giri più ascoltato nel 1964 in Giamaica, ottantamila esemplari e facendo le proporzioni è come se un singolo in Italia ne totalizzasse due milioni. Stiamo parlando dell’autore di Trenchtown Rock, nel 1971 prima per cinque mesi filati nell’isola caraibica. Stiamo parlando di un autore e un gruppo sconosciuti in Europa quando nell’aprile 1973 vedeva la luce l’esordio su Island, “Catch A Fire”, ma che in patria erano i numeri uno già da nove anni. Se si possono ritenere ragionevolmente esatti i conti fatti da quel momento dall’etichetta di Chris Blackwell non bisognerebbe dimenticarsi che, in base a un accordo parte integrante del contratto Island, gli LP “inglesi” di Marley in Giamaica uscirono Tuff Gong, marchio di proprietà dell’artista stesso. Quanto vendettero? Non lo sapremo mai, come non sapremo mai a quanto erano arrivati i dischi su Beverley’s, World Disc, Studio One, Coxsone, Ska Beat, Rio, Doctor Bird, Bamboo, Trojan, Summit, Black Heart, Justice League, Maroon, Upsetter, Punch, Unity, Shelter, Clocktower, JAD, Wirl, CBS, Cotillion, Jackpot, Wail’n’Soul’m, Musik City, Escort, Supreme, Bullet, Green Door, G&C. Eccetera.
Ma considerate soprattutto questo: che c’è da presumere che per ogni copia legale del solo “Legend” venduta in Occidente o in Giappone, nel mondo abbiente insomma, dieci taroccate siano finite sui banchi dei mercati di Addis Abeba o Kinshasa, di Bombay come di Caracas, ad Algeri, in Costa d’Avorio o nelle Filippine. Quanto sarebbe piaciuto a Marley tutto ciò! A lui che a un dato punto si fece attentissimo ai bilanci, ma solo perché si era stufato di farsi fregare e aveva tante bocche da sfamare. A lui che dopo ogni concerto nel suo paese era solito caricare un furgone di frutta e andare a distribuirla ai poveri. A lui che non diede mai importanza ai beni materiali e più un disco vendeva e più era felice, ma non perché era diventato più ricco, no: perché il messaggio era arrivato a un altro po’ di gente. E il messaggio è arrivato eccome. Più celebre e celebrato di quanto non sia stato in vita, a ventisei anni dalla prematura dipartita Marley è attuale ed emoziona come non mai, la sua faccia ─ icona di straordinaria forza, un Malcolm X con i dreadlocks, un Che Guevara del pentagramma ─ e la sua musica riconosciute ovunque e soprattutto laddove di canzoni di redenzione c’è un disperato bisogno. Perché tutto il resto manca. Fu il primo portavoce dei senza voce e continua a esserlo. Non è questione di qualità delle canzoni, che pure è stratosferica ma da sola non spiega perché costui sia noto e amato anche dove i Beatles o Madonna non lo sono. Non è questione di carisma, che era talmente smisurato da riuscire a farsi catturare dai solchi dei dischi ma dopo qualche decennio non può che sfumare nel Mito. E non è nemmeno questione di credibilità, siccome stiamo parlando di un uomo che era, per dire, fermamente convinto della divinità di Hailé Selassié e che l’Etiopia fosse la Terra Promessa dove gli eredi della diaspora nera sarebbero stati di nuovo a casa. No. È un altro il segreto del perdurare di Marley, del suo ritrovarsi cristallizzato in una bolla atemporale in cui risuonano parole che sanno di verità e parlano di pace ed eguaglianza, valide ora come quando furono pronunciate. È che, come nessuno, Marley smentisce quell’adagio springsteeniano che ammonisce a fidarsi della canzone e mai del cantante. Con Marley questa distinzione non c’è. Con Marley il cantante e la canzone diventano la stessa cosa. L’immedesimazione è totale, la sincerità assoluta. A Bob Marley puoi credere. Ti tocca il cuore perché era un puro di cuore e no, non ne sto facendo un santino.
Prosegue per altre 59.665 battute su Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.25, primavera 2007. Bob Marley nasceva settantotto anni fa.