Archivi del mese: agosto 2021

Uno studio arkeologico su Lee “Scratch” Perry

Posso garantire che, se solo il governo britannico mi lasciasse mano libera, potrei riportare questo paese ai vertici. In che modo? La musica rende tutto possibile. La musica è felicità e la felicità è potere. Sto cercando di portare la verità alla gente. Un uomo deve dire ciò che pensa e cercare la perfezione. Anche l’uomo più perfetto commetterà degli errori, ma saprà trarne un insegnamento.

– Che progetti hai per l’immediato futuro?

Sposare la Regina d’Inghilterra, licenziare il Duca e vivere a Buckingham Palace. Voglio che la Regina abbia un’opportunità di fare sesso con me. Ciò potrebbe guarirla dai suoi malanni e scioglierle la lingua – lo so che è timida. Ma è comunque amabile, una bella figliola.

– Raccomanderesti lo stesso trattamento a Margaret Thatcher?

Bah! Ti aspetti che mi piaccia una strega? A tutto c’è un limite. (scambio di battute fra Lee Perry e un intervistatore, 1987)

Del superare ogni limite Rainford Hugh Perry, sessantatré anni ben portati il prossimo marzo, ha fatto una filosofia di vita. Suoi gli abiti di scena più bizzarri che mai si siano visti eccettuati gli altri due grandi eccentrici della musica nera dell’ultimo mezzo secolo, Sun Ra e George Clinton. Sue le interviste più stravaganti nelle quali possiate imbattervi: torrenziali diluvi di parole, a volte persino in rima, in cui si mischiano ricostruzioni inverosimili della sua carriera e brandelli di una personale mitologia a base di alieni e peculiari interpretazioni della Bibbia, umoristici deliri di onnipotenza e ogni tanto una genuina perla di saggezza. Sa di avere la fama di esser matto e ci gioca su. Nel momento più drammatico della sua vita matto probabilmente, nel senso clinico del termine, lo fu davvero. Stressato da troppi anni di superlavoro, scaricato dalla Island, abbandonato dalla moglie che aveva portato con sé i figli e – pare – un bel po’ di nastri, in preda a ossessioni paranoidi accentuate dall’abuso di alcool e cocaina, una mattina del 1979 Lee Perry diede fuoco alla sala di registrazione che aveva inaugurato cinque anni prima e in cui aveva posto mano a diverse delle pietre miliari della storia del reggae e la guardò bruciare. Poi, dopo avere coperto le macerie dei Black Ark Studios di graffiti insensati, prese il primo aereo per la Gran Bretagna. “Ho impiegato dieci anni per ricostruire la mia vita”, confesserà in un’intervista in un passeggero momento di serietà.

Da tempo Perry vive in Svizzera, sposato a un’ex-tenutaria di bordello dal look crampsiano che gli fa anche da manager. Benché siano trascorsi sette anni dall’uscita dell’ultimo album all’altezza del suo genio (“Lord God Muzik”), l’interesse per la sua opera non è mai stato così vivo. Il recupero di un catalogo immenso (fra produzioni sue e per altri, un migliaio di 45 giri e svariate decine di LP: perdonate l’assenza di una discografia) prosegue senza posa e i giornalisti fanno la fila per parlargli. Una nuova generazione di ascoltatori va scoprendolo, grazie in primis ai Beastie Boys, che gli hanno dedicato un numero monografico della fanzine “Grand Royal” e lo hanno invitato a partecipare ai concerti pro-Tibet. Si comincia infine a percepirlo per ciò che è: uno dei giganti della musica del Novecento. Non sono solo comportamentali i limiti che ha violato da quando, nel 1959, trovò lavoro presso la sala di incisione di Coxsone Dodd, la più importante di Kingston.

Considerate quanto segue: la sua People Funny Boy, colorita invettiva nei confronti dell’ex-principale Joe Gibbs, è ritenuta una delle prime canzoni che appropriatamente possano essere definite reggae; fu il primo a portare un gruppo reggae in tour in Gran Bretagna (accadde nel 1969 a ruota del suo più grande successo, Return Of Django, numero 5 nella classifica dei 45 giri); fu il primo a valorizzare Bob Marley; il suo “Blackboard Jungle Dub” contende ad “Aquarius Dub” di Chin Loy e a “Java Java Java Java” di Clive Chin il titolo di primo 33 giri dub; ogni volta che si fa una lista dei cento, dei cinquanta, dei venti migliori LP di reggae mai usciti vi figurano al peggio uno o due titoli suoi e tre o quattro prodotti da lui. Per John Lydon è poco meno che Dio. I Clash lo idolatravano e lo vollero per registrare Complete Control. E una collaborazione con i Talking Heads non andò a buon fine soltanto per un madornale equivoco: dacché stazionavano presso i Compass Point di Nassau, Perry credette che fossero sotto contratto per l’odiata Island e non ne volle sapere.

Tranne i diretti interessati, nessuno sa perché non abbiamo mai avuto l’opportunità di scoprire cosa avrebbero potuto combinare insieme Paul McCartney e Lee “Scratch” Perry.

Dub! La batteria è il cuore che batte. Bum! Bum! Il basso è il cervello. Il basso che cammina, il basso che parla. Sono perfetti insieme.

Dibattuta, e in fondo irrilevante, la questione della primogenitura del dub, ciò che conta è che il Nostro ne è stato, oltre che uno degli inventori, il supremo maestro. Nato in maniera casuale dagli esperimenti cui diversi produttori cominciarono a sottoporre, nei primi anni ’70, la versione strumentale che si accompagnava nei singoli di reggae alla canzone principe, con il passaggio al formato del 33 giri il dub conquistò l’autonomia dallo stile che lo aveva generato ed esasperandone la lentezza e la ripetitività completò il processo di moviolizzazione della musica giamaicana, scandito in precedenza dalla trasformazione dello ska in rocksteady e di quello in reggae. Ma a parte ripetitività e lentezza, altre caratteristiche rendono storicamente il dub un modo di fare musica unico e straordinariamente innovativo: la prevalenza assoluta della sezione ritmica; la rilevanza avuta dalla tecnologia (unità di ritardo, stanze d’eco, equalizzazioni estreme) nella sua nascita e nella sua evoluzione e l’uso creativo del mixer, assurto con esso alla dignità di strumento; la sovrapposizione di ritagli di melodie con una tecnica accostabile al cut up burroughsiano; l’accento posto sull’improvvisazione (di molti titoli di Lee Perry – come dei vari King Tubby, Bunny Lee, Joe Gibbs – non esiste master, perché la manipolazione del nastro originale venne impressa sulla lacca in diretta) che rende ciascuna version un esemplare unico come nel jazz, dal be bop in avanti, ogni esecuzione live; infine, l’effetto straniante che ne fa la più lisergica delle musiche. Ma ove nel rock psichedelico l’effetto allucinatorio è raggiunto di norma con l’addizione di elementi, nel dub è ottenuto per sottrazione.

Prosegue per altre 15.200 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.8, novembre/dicembre 1998. Lee “Scratch” Perry ha lasciato ieri il pianeta Terra, alla bella età di ottantacinque anni. Buon viaggio, Maestro. Stupisci gli alieni.

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Squid – Bright Green Field (Warp)

L’album d’esordio degli Squid, quintetto di Brighton con l’insolita caratteristica di avere un cantante che è anche il batterista, contiene undici brani. Sono quattro di meno di quelli pubblicati dal 2016, alcuni solo come file audio e gli altri sparsi su vinili che coprono l’intero arco dimensionale del supporto (7”, 10” e 12”), nessuno dei quali è qui ripreso. L’auspicio è che prima o poi la Warp, etichetta storica della più nobile elettronica “di consumo” che non disdegna di avventurarsi anche in lande chitarrose, convinca Ollie Judge e soci a recuperarli su una raccolta che varrebbe poco meno di un debutto che vale tanto. Forse, tantissimo: “The Quietus” lo ha salutato come uno dei migliori di questo secolo e più gli ascolti si susseguono più cresce la convinzione che non si tratti del solito “hype” cui sovente la critica di quelle parti indulge. Per certo anche perché punto di arrivo di un percorso non breve.

Da cui una maturità, non a discapito della freschezza, inusuale per degli esordienti in lungo. Come degli abili coreografi che mantengono alla danza un’illusione di spontaneità benché ogni movimento sia stato in precedenza accuratamente provato (lo ha scritto “Pitchfork”, per una volta azzeccandoci), gli Squid. Qui il cosiddetto “nuovo post-punk” appare, se non del tutto nuovo (come potrebbe?), in sintonia con lo zeitgeist. E se non rinuncia a fare esercizio di critica dissezionandolo (e allora e per esempio se G.S.K. incrocia i P.I.L. con i King Crimson reinventatisi new wave Narrator è funk come lo erano i Gang Of Four ma pure i Contortions, se Paddling revisiona indie i Neu! Peel St. rilegge i Fall in chiave LCD Soundsystem) a prevalere nel recensore è un epidermico entusiasmo. Merce rara.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.432, giugno 2021.

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Elvis Presley – Una storia americana

Qui è dove l’anima di un uomo non muore mai.” (Sam Phillips, a proposito del suo amore per la musica nera)

Elvis era un eroe per i più/ma non ha mai voluto dire un cazzo per me/Era un razzista quel fottuto/fatto e finito/Vadano a fare in culo lui e John Wayne.” (Public Enemy, Fight The Power)

C’è stato un tempo in cui anche per me Elvis non voleva dire un cazzo. Quindicenne, da poco scottato dalla fiamma della musica e ignaro che le ustioni mi avrebbero segnato per il resto della vita, appresi con un’alzata di spalle della sua dipartita da un Tiggì di ora di pranzo. Roba da vecchi, pensai. Mi impressionò all’incirca quanto avrebbe potuto impressionarmi la morte di uno dei suoi imitatori italiani, un Bobby Solo o un Little Tony qualunque. Così continuai a mangiare e subito dopo mi immersi di nuovo nel vento e nel sole di una vacanza siciliana noiosa come possono esserlo soltanto le vacanze trascorse, da adolescente, in famiglia e presso parenti, ma del cui scorrere di giorni perlopiù uguali l’uno all’altro ho tuttavia conservato ricordi sorprendentemente numerosi. Scorci di natura domestica eppure selvatica. Lo stormire degli ulivi in una campagna riarsa. L’odore del mare. Resse e risse di ormoni in subbuglio alla vista di carne giovane e abbronzata disinvoltamente esposta in spiaggia. Guardare e non toccare. E poi rammento, come fosse ieri, lo speaker che annuncia che Elvis non è più. Possibile? Eppure lui davvero non rappresentava nulla per me, non avevo mai sentito un suo disco, era un sorpassato. Ma qualcosa mi si scavò nella memoria, forse un presagio dell’esistenza che l’amore per la musica mi avrebbe regalato o per meglio dire inflitto.

Ho comprato il mio primo album di Elvis a inizio 1983, da un mercante torinese di vinili di seconda mano all’anticipo alla stragrande sui tempi, visto che molto prima che il carrozzone delle fiere del disco raro si avviasse usava praticare prezzi discretamente esosi. “Ma come!”, protestai indignato, “mi fa pagare un usato e in serie economica come se fosse nuovo e a prezzo pieno?” “Guarda che l’hanno messo fuori catalogo e non lo si vede più mica tanto. Comunque lascialo pure lì, che è roba che appena metto fuori va subito via.” Naturalmente, non mi sognai neppure di lasciarlo.  Mi separai mugugnando da qualche banconota da mille e me lo portai a casa. Avevo appena scritto quello che sarebbe stato il mio primo articolo pubblicato (ancora ne ero all’oscuro) e grazie a una mia naturale inclinazione per la storia (sempre stata la mia materia preferita) e all’insegnamento dei Clash, che con “London Calling” e “Sandinista!” mi avevano spalancato universi, oltre che un entusiasta dell’attualità del rock stavo cominciando a diventare uno studioso del suo passato anche remoto. Mi piacevano fra l’altro parecchio all’epoca gli Stray Cats (ehi! là fuori! qualcuno se li ricorda gli Stray Cats?) e avvertivo l’incongruenza dell’avere negli scaffali materiali neo-rockabilly, o i Cramps, e poco o nulla delle fondamenta del rock’n’roll. E poi era un bell’inizio (sono un tipo metodico, io) partire proprio da dove tutto era cominciato, vale a dire dalle prime sedute di registrazione di Elvis Presley per Sam Phillips. Diciannove anni dopo la “Sun Collection” continua a essere, e sempre sarà, uno dei miei dischi da isola deserta. Pur essendomi da allora passate per le mani stampe, pure in vinile, più belle, non ho mai cambiato la mia copia RCA Linea Tre (una delle prime serie economiche in Italia, così detta perché dapprincipio aveva un prezzo imposto di 3.000 lire). E se anche un giorno dovessi cedere alla tentazione di un CD con l’integrale delle incisioni di Elvis per l’etichetta di Memphis la terrei con me, non solo come memento della giovinezza che fu ma perché convinto che le edizioni allargate pubblicate in seguito non abbiano in realtà aggiunto niente e forse sottratto qualcosa alla perfezione di quelle cinque facciate più cinque, con resto di cinque più un doppione per la RCA già famelica. Il contorno sono sfizi da filologo e vizi da guardone. È lì, sappiamo che c’è, ma non ne abbiamo davvero bisogno. Di quelle quindici canzoni sì.

Le sto riascoltando proprio adesso, brividi ed elettricità sulla spina dorsale come sempre. La voce di Elvis singultante e calorosa, innocente e teneramente istrionica e Scotty Moore e Bill Black che ci danno dentro, chitarra e contrabbasso al trotto in lande con già molto di familiare al tempo, nondimeno inesplorate. Perché, come capirono subito i due Phillips (Sam il discografico e Dewey il dj, che mandò in onda un acetato di That’s Alright Mama l’8 luglio 1954, tre giorni dopo la registrazione), non era musica né bianca né nera, non country, non pop, ma un mondo nuovo. Quasi tutto quello che posseggo del nostro uomo è stato comprato fra l’83 e l’86. Diverse antologie da trentadue successi per volta e senza sovrapposizioni, l’ultimo LP in studio degno di nota (un “Elvis Country” del 1971), minutaglie. Non sorprenda la mancanza degli album i cui titoli potete rintracciare in qualunque enciclopedia. Fui presto consapevole che, tralasciando la gran messe di colonne sonore che sanno solo intermittentemente offrire momenti di grazia, Presley ragionò sempre in termini di singola canzone, di 45 giri, mai di 33. Per comprare allora compilazioni d’epoca con gli inevitabili riempitivi, tanto valeva e vale procurarsi antologie concepite in seguito (la stessa “Sun Collection” vide la luce a un ventennio dal periodo che documenta) e dunque con meno cadute. Appiccicato al muro da That’s Alright Mama e compagnia blues e hillybilleggiante, apprezzai quasi altrettanto le prime cose per la RCA, pur percependone la natura già in qualche misura addomesticata, e con mio grande stupore mi scoprii non meno colpito da talune incisioni dei tardi ’60 e persino dei primi ’70. Sarebbe dovuto essere (era) l’Elvis appesantito nel fisico e ottenebrato nello spirito che si avviava a una morte grottesca come i suoi ultimi anni di dischi, sempre più raffazzonati, e concerti, alla fine imbarazzanti persino per un fandom che l’aveva elevato a figura cristologica. Ciò nonostante nel fragore della caduta si avvertivano con chiarezza echi e qualcosa di più delle glorie trascorse.

Non è stato però che nel 1988 che ho iniziato a capire sul serio cosa abbia rappresentato Elvis al suo apparire per l’America, grazie a un surrogato di macchina del tempo in forma di festival cinematografico, in quel di Firenze. Seduto nel buio di una sala, mi feci ipnotizzare da immagini del 1956 di una forza a tal punto stravolgente da scoprirmi schiacciato alla poltroncina, le mani strette convulsamente ai braccioli, gli occhi sgranati. Erano spezzoni di concerti e apparizioni televisive e mai in vita mia avevo visto qualcosa di altrettanto… non primitivo, no… primordiale. Adrenalina pura. Quintessenza di sesso. Paragonabile solo, per esperienza personale, ai Cramps che osservai nel 1980 fare infuriare fino ai tentativi di linciaggio un intero Palasport in attesa dei Police. Medesima la carica selvaggia, con però un quarto di secolo di rock in mezzo e l’ulteriore differenza che Lux Interior me l’ero visto a pochi metri in carne, ossa e sudore ed Elvis stava su uno schermo in sbiadite immagini in bianco e nero. Pensai all’effetto che doveva avere fatto a chi lo aveva allora guardato in TV e la mia mente vacillò. Cercai di immaginare cosa potesse avere significato per chi aveva assistito a qualcuno dei suoi fulminanti concerti (venti minuti, al massimo mezz’ora la media dell’epoca) e non ce la feci.

Prosegue per altre 39.374 battute su Extraordinaire 1 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per La prima volta su “Extra”, n.5, primavera 2002. Elvis ci lasciava quarantaquattro anni fa. Ne aveva quarantadue.

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David Crosby e l’inizio della sua terza giovinezza

Una sigla anonima come ragione sociale, una copertina che non dà indicazioni su cosa si ascolterà e oltretutto bruttina assai: poco da stupirsi se nel 1998 “CPR” si vendeva in quantitativi modesti e presumibilmente perlopiù a chi aveva avuto occasione di ascoltare il gruppo nel tour che lo aveva preceduto invece di seguirlo. Stupisce di più, ma non tanto per quante copie ne circolano a due spiccioli nei negozi che trattano usato, offerte e fuori catalogo, che non fosse mai stato riedito. Provvede, peraltro senza integrarlo con uno straccio di bonus quando con l’aggiunta dell’autoprodotto e dello stesso anno “Live At Cuesta College” avrebbe potuto confezionare una “Deluxe” coi fiocchi, lo stesso marchio (Samson) che lo dava alle stampe in origine.

Va bene lo stesso, perché ci offre il destro di riascoltarlo con orecchie tornate vergini e dargli il giusto peso nella straordinaria quanto tormentata vicenda artistica di David Crosby: lui la “C” dell’acronimo, laddove la “P” sta per Jeff Pevar, chitarrista sublime, e la “R” per James Raymond, gran tastierista, produttore, arrangiatore, soprattutto figlio perduto dello stesso Crosby, che lo dava in adozione e lo ritrovava decenni dopo e con lui instaurava miracolosamente un felicissimo sodalizio, sia umano che artistico, che tuttora dona frutti succosi. Questo era il primo, disco di autentica rinascita per Crosby dopo troppi anni sprecati fra droghe e mattane e funestati da disgrazie assortite e gravi problemi di salute. Una seconda (terza?) insperata vita prendeva le mosse da questi undici raffinatissimi quadri di cantautorato da Laurel Canyon rivisitato in chiave jazz-rock, con l’occasionale tocco latineggiante, il piccolo strappo funk e a volare altissime sulle sontuose basi armonie vocali degne di quell’altro trio là con David Crosby, quello più famoso.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.423, settembre 2020. David Crosby compie oggi ottant’anni. Li ha festeggiati in anticipo pubblicando il 23 dello scorso mese un album splendido, apice di quella che potrebbe essere detta la sua quarta giovinezza. Si intitola “For Free”. Regalatevelo.

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Play it loud, mutha! – I Twisted Sister di “Stay Hungry”

Parabola singolare quella dei Twisted Sister, gavetta lunghissima e poi un successo travolgente quanto effimero. Gli inizi datano fine 1972, quando il chitarrista Jay Jay French si unisce a un quintetto del New Jersey, i Silver Star. French, che è appena stato bocciato a un’audizione di tali Wicked Lester, assume presto le redini del complesso e convince i sodali a cambiarne il nome in Twisted Sister. Non cambia il modello di cui i ragazzi offrono copia conforme, ossia i New York Dolls, almeno fintanto che non comincia a farsi strada l’influenza di un gruppo in prepotente ascesa e destinato a mietere ben più ricco raccolto rispetto alle Bambole: e altri non sono, costoro, che i Wicked Lester, ribattezzatisi Kiss. La prima svolta si ha quando nel ’76 entra alla voce Dee Snider, presenza scenica spettacolare, buona penna (sicché è presto lui a firmare l’intero repertorio), una passione divorante per il grand guignol di Alice Cooper. Eppure: nonostante una fama locale crescente i Twisted Sister, che passando per vari cambi di organico hanno assunto la classica formazione a cinque (la completano l’altro chitarrista Eddie “Fingers” Ojeda, il bassista Mark “The Animal” Mendoza e il batterista A.J. Pero), non arriveranno a esordire a 45 giri che nel 1979 e a 33 tre anni dopo. “Under The Blade” vende abbastanza da convincere la Atlantic a rilevare il contratto del gruppo dalla Secret e pubblicare nel giugno ’83 “You Can’t Stop Rock’n’Roll”. Appena passabili i riscontri commerciali.

A fare il botto undici mesi dopo è “Stay Hungry” e il migliore piazzamento nella classifica di “Billboard”, un numero 15, non rispecchia vendite milionarie. Per un anno i Twisted Sister saranno ovunque e soprattutto, con i loro teatralissimi video, su MTV. Sovraesposizione letale. Tanto che già con “Come Out And Play”, dell’85, i numeri fletteranno e “Love Is For Suckers” nell’87 sarà accolto da stroncature epiche e acquistato solo dagli irriducibili. Il che non toglie che “Stay Hungry” resti un piccolo classico dell’hard’n’heavy più simpaticamente caciarone, forte di inni adolescenziali come la traccia inaugurale e omonima, We’re Not Gonna Take It e I Wanna Rock e di una The Price da manuale della power ballad. Per quanto questa ristampa su Original Master Recording che ne esalta la rutilante carica certifichi che a essere invecchiate meglio sono le escursioni sabbathiane Burn In Hell e The Beast. “PLAY IT LOUD, MUTHA!”, come invita a fare una scritta nell’interno di copertina.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.425, novembre 2020.

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Matt Sweeney & Bonnie Prince Billy – Superwolves (Drag City)

Natura gregaria in senso buono, l’oggi cinquantunenne chitarrista Matt Sweeney ha messo lo zampino in decine di dischi da quando nel 1989 il suo primo gruppo, i post-hardcore Skunk, pubblicava il primo di due album su Twin/Tone. Di costoro oggi si ricordano in pochi, mentre qualcuno in più serba memoria della band successiva del nostro uomo, gli Chavez, esponenti del cosiddetto math-rock anche loro con un paio di lavori in studio all’attivo. Sweeney è stato poi coinvolto in un’infinità di altri progetti, sfiorando il mainstream con gli Zwan di Billy Corgan, dando una mano a Dave Grohl quando costui si prese una sbandata per il death metal con il supergruppo Probot. Eclettismo incredibile che lo ha portato a prestare le sue notevoli capacità strumentali a Johnny Cash come ai Current 93, a Neil Diamond o Cat Power come a Stephen Malkmus, concedendosi nel frattempo parecchie incursioni nell’hip hop fuor di ogni canone di gente come El-P o Run The Jewels. Due sole volte, con questa, Sweeney ha però visto il proprio nome su un davanti di copertina invece che fra i crediti e la prima risaliva al 2005, quando sempre a quattro mani con il quasi coetaneo Bonnie Prince Billy, uno che nel moderno cantautorato USA fa categoria a sé e ama molto le collaborazioni, firmava “Superwolf”. Album cui questo seguito si pone in scia sin dal titolo.

Che peccato che non incrocino più spesso le loro strade, gli artefici. Si completano a meraviglia, svariando dall’Americana a un folk dagli accenti British (abbagliante, degna del miglior Bert Jansch, la rilettura di I Am A Youth Inclined To Ramble), ora sporgendo lo sguardo sul Laurel Canyon e ora (in una Hall Of Death tambureggiantemente elettrica) su lande desertiche.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.432, giugno 2021.

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Genio, controvoglia, controvento – L’arte di Caetano Veloso

Camminando controvento/a testa scoperta e senza documenti/nel sole di quasi dicembre, io vado…/perché no? perché no?” (Alegria, alegria, da “Caetano Veloso”, 1968)

Ormai più vicino ai sessanta che ai cinquanta (il prossimo 7 agosto festeggerà il cinquantasettesimo compleanno), Caetano Veloso conserva il fisico di un ragazzino. Snello, i capelli corti appena brizzolati, il volto pochissimo segnato dallo scorrere delle stagioni. Da qualche anno si presenta sul palco vestito con eleganza oxfordiana, lui che da giovane amava le chiome fluenti e i vestiti chiassosi dell’hippysmo e corteggiava l’ambiguità sessuale, fino a spingersi a fare il verso a Carmen Miranda. Oggi l’aria è quella del carismatico docente universitario per il quale le allieve muoiono. A volte porta con sé un libro e, come testimonia “Prenda minha”, magnifico live uscito lo scorso inverno, fra una canzone e l’altra ne legge qualche pagina. Il pubblico applaude. Tutto è permesso a Veloso dacché è un’icona del pop, non solo del suo paese ma mondiale, ma c’è stato un tempo in cui ogni disco, ogni concerto scatenavano faide dialettiche. Non che abbia perso il gusto della controversia, ma cosa è mai la reprimenda del cardinale di Bahia per una canzone (Camisinha) che elogia il preservativo rispetto alla paradossale contestazione mossagli nel 1968 nientemeno che da certa gioventù contestataria brasiliana per É proibido proibir? Il cofanetto di quattro CD “Caetano”, che riassume esemplarmente il primo quarto di secolo della carriera del Nostro, scorciatoia ideale se non si ha voglia di perdersi nei meandri di una discografia che consta di decine di titoli, immortala quel brandello di storia. Ai fischi Veloso rispondeva sprezzante: “Non capite nulla! Ma che gioventù è questa! Non conterete mai niente”. Dimenticata quasi subito la canzone (del resto una delle più dimenticabili fra le centinaia di un catalogo con pochi eguali nella musica di questo secolo), rimosso in fretta lo scandalo, proprio quella Sinistra che accusava i tropicalisti di connivenza con l’imperialismo culturale amerikano ne recuperava l’emblematico titolo come slogan. Più coerente, la dittatura militare gettava in carcere il sovversivo, insieme all’amico fraterno Gilberto Gil, e poi costringeva entrambi dapprima al confino, quindi all’esilio.

Sono passati trent’anni dal concerto di addio al Brasile che Veloso e Gil tennero al Teatro Castro Alves di Salvador, munifica concessione del governo per permettere ai due di togliersi di mezzo con qualche soldo in tasca, e il disco che testimonia l’evento, “Barra 69”, è ancora straordinariamente emozionante. A dispetto di una qualità tecnica che fa il paio con quella del coevo “1969” dei Velvet Underground. Siamo insomma ai limiti dell’ascoltabile, ma che importa se il cuore è in gola, il pugno serrato, la lacrima sul ciglio? Non c’è in scaletta, ovviamente, É proibido proibir, ma figura quella Alegria, alegria che due anni prima aveva fatto sobbalzare le vestali della canzone brasiliana con la bestemmia delle prime chitarre elettriche in un contesto post-bossa nova.

Sui tropicalisti Peter Sarram ha fatto, sullo scorso numero di “Blow Up”, considerazioni acute e che condivido in toto. Rimando a quell’articolo il lettore e in questa sede mi limito a sottolineare che l’apporto che Caetano Veloso offrì a quel movimento fu propulsivo, essenziale, determinante.

Io non ho scelto la musica, la musica mi ha scelto. Avevo molto talento per le arti e una di loro mi ha scelto. Perché la musica? Perché sono brasiliano.

La vocazione del giovane Caetano ha una data precisa: dicembre 1958. Vede allora la luce una canzone chiamata Chega de saudade. Ne è autore e interprete Joao Gilberto, con Antonio Carlos Jobim e Vinícius de Moraes il principale artefice di uno stile inaudito che si è battezzato bossa nova e fonde samba e jazz. Desafinado, “stonato”, titola un altro brano celeberrimo, a firma Jobim/Mendonça, e sarà quella l’etichetta, di cui Gilberto si approprierà senza esitare, che i detrattori appiccicheranno alla novella voga. “Il cantante è completamente stonato, l’orchestra va da una parte e lui dall’altra”: con queste parole un amico racconta al sedicenne Caetano Chega de saudade, che è “una cosa folle che mi ha fatto subito pensare a te”. Veloso l’ascolta e la sua vita da quel giorno non sarà più la stessa.

Quinto in una schiera di nove fra fratelli e sorelle, il ragazzo ama la danza come la pittura e la letteratura e adora il cinema, Fellini in particolare. Coltiva però anche la passione per la musica, trasmessagli sia dalla madre Dona Canô, che gli canta le antiche canzoni nordestine, che dal padre Josè Augusto. E nel mentre acquisisce una conoscenza sempre più approfondita della tradizione brasiliana si incuriosisce per l’elettricità e i ritmi alieni del rock’n’roll e, dopo la folgorazione per Joao Gilberto, si butta sul jazz: Ella Fitzgerald, Thelonious Monk. Più tardi Chet Baker e il Miles Davis di “Sketches Of Spain”. La sorella minore Maria Bethânia lo segue in queste estatiche peregrinazioni. L’antropofagico sincretismo che caratterizzerà “Tropicália” – spericolata sintesi di bossa nova e psichedelia, folk autoctono e avanguardia europea, cultura alta e bassa – pare connaturato nel DNA dei Veloso.

Una delle cose che più mi colpì dei tropicalisti era la naturalezza con cui accettavano che tutto nel mondo fosse mescolato. Più tardi, quando ero a New York e partecipavo alla no wave, mi accorsi di come la musica di tale scena mi suonasse familiare. Sentivo di conoscere già quella combinazione di arte e rock post-punk, così simile a ciò con cui ero cresciuto.” (Arto Lindsay)

Prosegue per altre 20.065 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.13, giugno 1999. Caetano Veloso festeggia oggi il settantanovesimo compleanno.

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The Coral – Coral Island (Run On)

Tutto si può dire del decimo lavoro in studio, con il quale il quintetto del Merseyside festeggia i vent’anni dal primo tour e dal primo singolo (il primo, omonimo album usciva l’anno dopo), tranne che difetti di ambizione. Lampanti i modelli: il doppio bianco dei Beatles (inusitato lo spazio concesso ai compagni dal leader James Skelly in sede compositiva) ma ancora di più un poker di concept, i primi tre datati 1968, il quarto 1969, e comprendente “Village Green Preservation Society” dei Kinks, “Ogdens’ Nut Gone Flake” degli Small Faces, “S.F. Sorrow” dei Pretty Things e “Tommy” degli Who. Elencati in ordine decrescente di influenza. Va da sé che lo stesso “Coral Island” sia un concept, ambientato in una fantomatica località balneare tipicamente inglese e diviso in due atti (coerentemente si è deciso di presentarlo come un doppio, peraltro a prezzo di singolo, anche in CD, quando i suoi 54’19” si sarebbero comodamente accomodati in un solo dischetto). Il primo festoso, l’estate la stagione che celebra, e il secondo dalle atmosfere più sobrie, essendo notoriamente il mare d’inverno “qualcosa che nessuno mai desidera”. Il nostro, figurarsi quello che bagna (bagnerebbe) Coral Island.

Sono ben ventiquattro tracce ma le canzoni sono quindici, essendo le altre nove recitativi di raccordo affidati alla voce rugosa di un nonno dei fratelli Skelly. Il che nel contesto ha un’ovvia funzione ma spezzetta fastidiosamente un programma comprendente alcuni fra i migliori articoli di sempre nel catalogo della band: una Change Your Mind sfacciatamente Byrds, il travolgente garage-folk Vacancy, il tributo a Joe Meek Faceless Angel, una The Calico Girl che quasi quasi nel “White Album” ci sarebbe potuta stare.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.432, giugno 2021.

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