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Daft Punk – Random Access Memories (Columbia Legacy)

Una carriera racchiusa in soli quattro album in studio ciascuno a suo esclusivo modo un capolavoro: vi ricorda qualcuno? Ecco: a parte che quegli altri ebbero una storia assai più breve e di insuccesso, mentre invece il duo parigino formato nel 1993 da Thomas Bangalter e Guy-Manuel De Homem-Christo e sciolto ufficialmente nel 2021 (ma da sette anni non pubblicava nulla) ha venduto decine di milioni di dischi, si può ragionevolmente affermare che i Daft Punk sono stati i Velvet Underground dell’elettronica da dancefloor. Tappe della loro epopea: il retrofuturibile “Homework”, che nel 1997 faceva una cosa sola di house e techno, funk, disco ed electro, una spiccata sensibilità pop presente anche nei momenti di più massiccio martellamento; “Discovery”, del 2001, un po’ più orientato verso la forma canzone; “Human After All”, del 2005, bpm ancora in calo, depistantemente minimalista quando la frequentazione prolungata svela tesori di idee e con un’indefinibile aura come di innocenza (di nuovo: vi ricorda qualcuno?); e infine il lungamente atteso “Random Access Memories”, il cui decennale viene ora celebrato con una voluminosa ristampa che ne porta la durata dagli originali 74’39” a ben 110’46”, per fortuna senza che i bonus lo deprezzino come spesso accade in questo genere di operazioni.

Un’altra faccenda ancora rispetto ai predecessori, è il loro primo album da avere per chi dalla disco in giù certe sonorità non le ha mai gradite granché: qui inscenavano simultaneamente le loro storie d’amore con certo rock classico nell’ampio arco dai Beach Boys ai Pink Floyd e con quello nuovo ma antico di Animal Collective e Strokes. Scorrete la lista degli ospiti: fra un Giorgio Moroder e un Nile Rodgers vi imbatterete in Panda Bear e Julian Casablancas.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.455, agosto 2023.

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Everything But The Girl – Fuse (Buzzin’ Fly)

Gli Everything But The Girl tornano insieme a ventiquattro anni dal decimo lavoro in studio e ventitré da un ultimo concerto destinato a quanto sembra a restar tale (però avevano anche detto che dischi in duo non ne avrebbero più fatti) senza essersi in realtà mai separati. Giacché da quattro decenni Tracey Thorn e Ben Watt sono coppia nella vita oltre e prima che sodalizio musicale. All’altezza dell’uscita di “Temperamental” erano da poco diventati mamma e papà di due gemelle, un altro pargolo si è aggiunto poco dopo e nel lunghissimo iato che ha separato quell’album da “Fuse” figlie e figlio hanno fatto in tempo a diventare adulti e lasciare casa mentre i genitori pubblicavano quattro dischi da solisti lei e tre lui, si affermavano come scrittori (lei soprattutto) e insomma gli Everything But The Girl in questo quasi quarto di secolo devono essere mancati più al resto del mondo che a loro. E forse nulla sarebbe cambiato non si fosse messo di mezzo il Covid, rinchiudendo i due fra le mura domestiche in un isolamento particolarmente rigoroso per via di una sindrome autoimmune di cui soffre Ben.

Come non fosse passato un giorno da quando decisero che non avevano bisogno di essere famosi (capace che abbiano accolto con fastidio che “Fuse” abbia esordito al numero 3 della classifica UK: il loro piazzamento migliore!). Proprio come il lontano predecessore media fra il sofisticato folk-pop-jazz degli esordi e la successiva svolta elettronica. Da subito, da una Nothing Left To Lose in odore di dubstep cui va dietro la pianistica Run A Red Light. Più avanti e fra il resto, Time And Time Again ha vaghi tratti trap laddove Interior Space è ninnananna ambient. La precede Forever, ballabilissima, balearica, una possibile hit.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.454, giugno/luglio 2023.

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I migliori album del 2022 (4): Ibibio Sound Machine – Electricity (Merge)

Un’Eno c’entra sempre ma in questo caso (da cui l’apostrofo) trattasi non di Brian bensì di Eno Williams, anglo-nigeriana voce e frontwoman dell’attualmente settetto (completano la formazione un chitarrista, un bassista, un percussionista e tre fiatisti che – ahem – si sdoppiano fra tromba, trombone, sax e sintetizzatori) londinese, giunto con “Electricity” al quarto album: a oggi il più variegato, compiuto, entusiasmante. Impossibile non pensare ai Talking Heads dell’incredibile trittico prodotto giustappunto da Brian Eno fra il ’78 e l’80 ascoltando il vorticoso, implacabile funk Protection From Evil, che lo inaugura. Come una outtake da quel “Remain In Light” che a quarantadue anni dall’uscita suona ancora modernissimo. Laddove più avanti 17 18 19 rimanda piuttosto al disco precedente di Byrne e soci, “Fear Of Music” (fra l’altro contenente una canzone che prima di venire ribattezzata Drugs si intitolava… Electricity), e la più pop Something Will Remember sa smaccatamente di Tom Tom Club.

Grave errore sarebbe però ridurre gli Ibibio Sound Machine (nella ragione sociale un rimando alle origini della cantante: ibibio è una delle lingue che si parlano in Nigeria) a pur talentuosi epigoni. È questo l’approdo di un percorso che li ha visti aggiungere influssi electro (una Truth No Lie da urlo, con bonus di ottoni errebì e chitarrona rock), post-punk e qui pure (in una traccia omonima incrostata anche di dancehall) elementi di dub poetry all’iniziale miscela di afrobeat e highlife (le ultime gemme si chiamano Afo Ken Doko Mien e Oyoyo), disco e drum’n’bass. Per la prima volta si sono affidati a dei produttori esterni, gli Hot Chip (la cui mano si avverte particolarmente in All That You Want), e hanno fatto bene.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.442, maggio 2022.

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C’mon Tigre – Scenario (Believe)

Registrato fra Bologna, New York, Chicago e Montreal e con vari ospiti stranieri (per limitarsi ai due di più alto profilo: l’ispano-americana Xenia Rubinos, il cui recente “Una rosa” è stato lodato pochi mesi fa su queste pagine, e il jazzista di confine Colin Stetson) nel lungo elenco dei crediti, il terzo album dei C’Mon Tigre ne ribadisce valore e profilo internazionale. Ne conferma, a partire dalla splendida copertina che rimanda al debutto omonimo del 2014 e al seguito datato 2019 “Racines”, la capacità di restare inconfondibili aggiustando ogni volta il tiro, aggiungendo elementi, spostando le coordinate. “La nostra ricerca è una parabola variabile che è partita dall’Africa e ha poggiato i piedi in Asia”, raccontavano lo scorso anno in un’intervista ad “Alias”, aggiungendo che “per il prossimo disco abbiamo altre mete, imprevedibili”. Dichiarazione di intenti che “Scenario” vidima.

È musica continuamente in viaggio: enorme la distanza che separa i 55” per oud e synth tremolante dell’inaugurale Deserving My Devotion dalla dance a cassa dritta del congedo Sleeping Beauties, che sarebbe spiazzante non l’avesse anticipata qualche traccia prima una fulminea incursione in area Underworld chiamata Burning Down. Eppure tutto si tiene e fluisce armoniosamente, in special modo in una prima facciata che all’electro-afrobeat di Twist Into Any Shape fa andare dietro la brasiliana e cinematografica Kids Are Electric, a una Supernatural che evoca Tricky una Automatic Control dalla orchestrazione alla Portishead. Prima facciata, ecco: per ora “Scenario” è previsto che esca solo in vinile. L’auspicio è che, come accadde con “Racines”, si provveda in seguito a renderlo disponibile pure in CD.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.441, aprile 2022.

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La dance astratta di Mira Calix (R.I.P.)

Se l’è meditato bene questo esordio sulla lunga distanza Mira Calix, al secolo Chantal Passamonte, sudafricana da tempo trapiantata in Gran Bretagna. Arrivò colà con un bel portfolio di fotografie nel 1991 e trovò subito lavoro da Gucci, salvo lasciarlo dopo sei mesi perché si annoiava e andare a fare la cameriera. Salvo poi pubblicare suoi scatti su “Esquire”. Salvo poi impiegarsi in un negozio di dischi a Soho e cominciare a fare la dj in giro per feste illegali e club sempre più prestigiosi. Salvo infine accasarsi presso la Warp, da dieci anni marchio leader nell’ambito dell’elettronica di consumo limitrofa a quella più sperimentale. Era il 1995 e da Londra Chantal si trasferiva prima a Manchester, quindi a Sheffield, la città dove la Warp ha sede. L’anno dopo, mentre l’attività come dj travalicava i confini britannici (ha messo dischi un po’ ovunque in giro per il mondo, Italia compresa), uscivano i suoi primi 12″. Roba strana anche per gli standard Warp, etichetta che dell’originalità da sempre fa una bandiera: techno scheletrica e narcolettica prossima alla musica industriale, jungle spastica e rarefatta, paesaggi ambient, sprazzi di una nuova musica da camera suonata da macchine in preda a turbamenti sentimentali. Roba buona.

Di questa roba buona troverete sedici esempi in “One On One”. Niente di ballabile: chi potrebbe danzare, per dire, quel delizioso congegno a orologeria che è Routine (The Dancing Bear)? Questa è musica da ascoltare comodamente seduti, con molta attenzione al gioco infinito di dettagli che si cela dietro disegni in apparenza semplicissimi. O sdraiati, perdendosi in sogni di dimensioni alternative.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.387, 7 marzo 2000. La Warp ha annunciato due giorni fa che Mira Calix non è più fra noi. Non aveva che cinquantun anni.

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I migliori album del 2021 (10): Parquet Courts – Sympathy For Life (Rough Trade)

Un bel casino se debutti con un album, “Light Up Gold”, che subito acquisisce una nomea di classico confermata quando a fine decennio (è del 2012) non vi erano giornale o sito che non si cimentassero nella compilazione di liste dei migliori dischi degli anni ’10. Che fare se, pronti e via, produci un capolavoro? Come scansare l’ansia da prestazione e i fucili puntati di chi pronostica che non potrai che ripeterti e in peggio? I Parquet Courts hanno scelto di mantenersi in movimento, procedendo inizialmente per piccoli aggiustamenti e quindi allontanandosi sempre più da un sound aggressivo, post-punk con tratti noise da qualche parte fra Fall, Pavement e Sonic Youth, che ha fatto scuola. Come ha osservato il chitarrista e cantante Austin Brown, “mi è capitato di ascoltare un sacco di pezzi che suonavano come nostri, ma non lo erano”. Laddove l’altro chitarrista e cantante Andrew Savage racconta di una passione sempre più spinta, e alimentata a sostanze psicotrope, per la dance. Poco da stupirsi se il settimo album in studio dei newyorkesi comincia con un brano, Walking At A Downtown Pace, che pare una outtake di “Screamadelica”.

D’altra parte già nel precedente “Wide Awake!” i Nostri avevano optato in diversi episodi per un funk che a questo giro si fa talvolta cerebrale. Ed ecco una Marathon Of Anger in scia ai Talking Heads di “Remain In Light” e una Zoom Out che evoca quelli di “Little Creatures”, una Plant Life che sono i King Crimson di “Discipline” alle prese con Fela Kuti, una Trullo che incrocia Ian Dury con le ESG. Rappresentano (felici) deviazioni il krautrock motoristico Applicatus/Apparatus, una scorticata Homo Sapien che unica potrebbe arrivare dal lontano esordio e l’onirica ballata a suggello Pulcinella.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.437, dicembre 2021.

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Woman Child – I formidabili anni giovani di Neneh Cherry

A leggerlo oggi fa ridere, ma forte. Nel 1990 Neneh Cherry, in forza del suo prodigioso esordio “Raw Like Sushi”, album dal quale erano stati anche tratti tre singoli di successo, fu candidata al Grammy nella categoria “Best New Artist”. Vinsero i Milli Vanilli. Cristosanto. Ma ve li ricordate i Milli Vanilli, ne avete mai sentito parlare a dispetto di vendite che furono al tempo multimilionarie? Se sì, è solo per la figuraccia planetaria quando ammisero che nei “loro” dischi non facevano letteralmente nulla, manco ci cantavano, e a ragione di ciò il premio venne ritirato, fu la prima volta che accadeva e a oggi resta l’unica. I Milli Vanilli… la più grande barzelletta della storia dell’industria discografica ma per niente divertente, visto che qualche anno dopo uno dei componenti il duo morì appena trentaduenne, di alcol, droga e vergogna. Neneh Cherry per fortuna non soltanto è fra noi ma, dopo una lunghissima assenza dalle scene, negli anni ’10 è tornata a far musica, e che musica! Ardita e sovente geniale come nella sua fantastica giovinezza ma con un sacco di spigoli in più. Papà Don ─ che poi in realtà era il patrigno e tuttavia fu lui a crescerla e di lui assumeva il cognome, essendo venuta alla luce Neneh Marian Karlsson il 10 marzo 1964, figlia di una pittrice svedese e di un musicista della Sierra Leone che si separavano poco dopo la sua nascita ─ ne andrebbe fiero. Del resto fece in tempo ad ascoltare, apprezzare, amare almeno i primi due album della fanciulla.

Come vieni su sei figliastra di uno dei trombettisti che hanno fatto la storia del jazz? Non può essere che un’infanzia particolare, sempre circondata da musicisti, spesso in viaggio con Don e per il resto divisa fra Stoccolma e New York, studi irregolari e abbandonati a quattordici anni per trasferirsi poco dopo a Londra (ma papà ti manda sola? sì; ogni tanto però viene a trovarti e magari dà una mano in sala d’incisione, lui che ne ha frequentato mille). Lì subito si immerge in quella scena punk che sta mutando e maturando in new wave. Fonda le Cherries, per breve tempo fa parte di Slits e Nails. Si sposta a Bristol e lì si unisce ai neonati Rip Rig + Panic. Nome preso da un LP di Rahsaan Roland Kirk e costola del disciolto Pop Group, costoro in tre LP ineguali ma che suonano ancora freschi e godibilissimi incroceranno free jazz e reggae, avanguardia, soul, funk e post-punk, che era più o meno la ricetta della band di provenienza ma reinterpretata con piglio decisamente più ludico e spogliandola di ogni sovrastruttura ideologica. Palestra preziosa per Neneh, che ne diveniva presto il punto focale, a un certo punto cambiavano senza alcun motivo il nome in Float Up CP e con la nuova ragione sociale davano alle stampe un 33 giri che risultava il loro più venduto. Poi ognuno per la sua strada, ma restando amici. Era il 1985 e la ragazza una cosina in proprio già l’aveva messa in curriculum, tre anni prima, un brano contro la guerra delle Falklands, Stop The War. La strada che la porterà al primo lavoro da solista comprenderà come tappe intermedie una collaborazione con The The e, crucialmente, il sodalizio stretto con Cameron McVey aka Booga Bear (per qualche tempo partner sentimentale oltre che artistico) e il lato B di un singolo del duo Morgan-McVey prodotto nientemeno che da Stock, Aitken & Waterman. Chiamata Looking Good Diving è chiaramente una canzone troppo buona per restare relegata sul retro di un 45 giri comprato da pochi e destinato a venire dimenticato in fretta. Neneh ci torna su, per rimodellarla chiede aiuto a Tim Simenon, in arte Bomb The Bass, e quando infine ne è soddisfatta la propone alla Virgin, con cui è rimasta in contatto dopo la fine dell’avventura Rip Rig + Panic. Adesso il pezzo si intitola Buffalo Stance, viene pubblicato a fine novembre 1988 e comincia subito a scalare classifiche un po’ ovunque, fino al terzo posto in Gran Bretagna, USA, Canada e Norvegia e al primo in Olanda e Svezia, mentre in Germania e Grecia è secondo, in Belgio quarto, in Finlandia quinto, in Austria settimo e così via. Un trionfo commerciale che premia quella che artisticamente resta una pietra miliare, uno di quei rari brani capaci da soli di aggiungere qualcosa al canone della musica pop.

In curioso ritardo di quasi otto mesi rispetto all’uscita originale datata giugno 1989 la Virgin ha appena ripubblicato (via Universal) “Raw Like Sushi” in una lussuosissima edizione per il trentennale in triplo vinile e box con allegato un libro con testi, disegni, foto, un’intervista, il tutto rimasterizzato comme il faut (sto facendo girare la stampa italiana d’epoca e, per quanto sottile, la differenza si coglie in un suono insieme più arioso e dinamico, con una gamma bassa dall’impatto più deciso e una alta appena arrotondata). Il secondo 33 giri è occupato quasi interamente da remix (fra gli altri due di Arthur Baker e uno di Kevin Sanderson) di Buffalo Stance, il terzo da versioni alternative di vari altri brani, senza però nemmeno un inedito. Raccontata così pare un’operazione “only for fans”, ma è possibile acquistare a parte il solo LP originale. Nondimeno l’oggetto è talmente bello che la differenza fra i 55 euro circa che costa portarsi a casa il triplo (prezzo relativamente economico) e i 25 (un po’ caro) richiesti per il singolo è sufficientemente modesta da mettere in difficoltà l’acquirente. Decida il lettore, che a suo tempo consumò il disco o viceversa non se l’è mai messo negli scaffali, magari ritenendolo “leggero” quando è invece opera di clamorosa consistenza e rilevanza. I tre singoli – l’esplosivo incrocio fra pop, soul e funk aromatizzato hip hop di Buffalo Stance, la romantica Man Child, la latineggiante Kisses On The Wind – aprono una prima facciata completata da una Inna City Mamma impossibilmente esultante, eppure intrisa anche di jazz, e dalla post-electro di The Next Generation. Vale uno zero virgola qualcosa di meno una seconda inaugurata da una Love Ghetto che insieme prefigura e umilia tanto modern R&B a venire e che, con in mezzo la sbarazzina Phoney Ladies, sciorina principalmente rap da Old Skool, ma mai pedissequo, per certi versi anzi in anticipo su un trip-hop che era dietro l’angolo. “Raw Like Sushi” ha trent’anni (e qualche mese) ma non è invecchiato di un giorno.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.418, marzo 2020. Neneh Cherry compie oggi cinquantasette anni.

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I miei due centesimi su “Homework”, all’epoca dell’uscita e con il senno del poi

Nell’impaziente attesa che i Chemical Brothers ci regalino infine un secondo album, nulla di meglio se si è in cerca di qualcosa di simile, vale a dire techno di classe stellare interpretata e vissuta con piglio rock, che porre mano al debutto sulla lunga distanza dei Daft Punk, giovanissimo duo parigino che prima ancora di essere profeta in patria ha mietuto consensi, e di pubblico e di critica, oltre Manica. Dell’ecclettismo e delle radici di Thomas Bangalter e Guy-Manuel de Homem-Christo fanno fede il fatto che esordirono per l’etichetta degli Stereolab, la Duophonic, e che le influenze che dichiarano sono fra le più varie che mai si siano viste: gli Chic ma anche i 13th Floor Elevators, Prince e Marc Bolan, Sun Ra e i Can, gli Spacemen 3, Bob Marley, Isaac Hayes e Jimi Hendrix, e cento altri nomi che lo spazio a nostra disposizione non basterebbe a mettere in fila.

Non aspettatevi tuttavia da loro un guazzabuglio, sebbene geniale. Nella musica dei Daft Punk tali numi tutelari sono presenti più in spirito che nei suoni. È un sound variegato ma nel contempo compatto quello del duo, peculiare e irruento, in battuta costantemente alta, talvolta frenetica. Dei sedici episodi che compongono “Homework” diversi hanno la statura dei classici: il James Brown cibernetico di Da Funk, gli Chic incrociati con i Kraftwerk di Around The World, l’assalto ai limiti dell’industriale di Rollin’ And Scratchin’ e i Public Enemy virati house di Revolution 909 varrebbero da soli, non fosse il resto dello spettacolo di livello uniformemente alto, il prezzo del biglietto.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.168, marzo 1997.

Chissà se il giornalista del “Melody Maker” che, stroncando l’unico brano pubblicato dai Darlin come “daft punk”, vale a dire punk sciocco, ispirò ai due ragazzi parigini il cambio di ragione sociale ha mai pensato di chiedere i diritti sul nome. Potrebbero ancora avere abbastanza sense of humour, Thomas Bangalter e Guy-Manuel de Homem-Christo, da concederglieli e sarebbero bei soldi. Quel che è certo è che l’avventura Darlin, una sigla omaggiante i Beach Boys, finiva lì, con la partecipazione a un doppio singolo su Duophonic, l’etichetta degli Stereolab. Dall’indie rock il duo, entusiasta per la scoperta, in quegli stessi primi ’90, di house e techno, passava armi e bagagli all’elettronica “di consumo”. Non avrebbe per questo rinnegato, facendosi all’inizio guidare da uno spiritello birbone bello settantasettino, passioni giovanili fra le quali già se ne annoveravano alcune scandalose per l’ortodossia rock: non solo Brian Wilson e soci, Led Zeppelin, Who (vedi libretto del CD in questione) ma anche Kiss e Chic (idem).

Anticipato da alcuni 12” spettacolari (The New Wave e Musique, retro di Da Funk, purtroppo non ripresi e dunque da recuperare fra usato e raccolte), “Homework” deflagra con effetti ben al di là del bacino d’utenza cui si rivolge conquistando, nonostante il sostanziale minimalismo della proposta, ampi consensi pure fra un pubblico che di solito frequenta poco questi suoni. Sarà che è facile cogliere, fra un rotolare di basso funk e un ammiccamento al superomismo (Marvel, non Nietzsche), la discendenza in linea diretta dai Kraftwerk. Sarà che anche dai momenti di più massiccio martellamento traspare una spiccata sensibilità pop. Sarà che ispira alcuni video veramente memorabili. Fatto è che in un attimo i due sono ovunque e non c’è da stupirsi che paghino in seguito dazio passando quattro anni a sudare su un seguito più orientato alla canzone e decisamente meno convincente di questo Asimov che, viaggiando su una autobahn alle volta delle luci di una Parigi gibsoniana, si trasforma in un cibernetico George Clinton: batti batti le manine robottino del papà.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.14, estate 2004.

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The Orb – Abolition Of The Royal Familia (Cooking Vinyl)

Diciamo che la concisione non è mai stata una caratteristica degli Orb, sin da quando nell’ottobre 1989 esordivano con un singolo dal titolo chilometrico, A Huge Ever Growing Pulsating Brain That Rules From The Centre Of The Ultraworld, quanto la durata, oltre diciannove minuti, cui sette mesi dopo davano seguito con il debutto in… ahem… lungo “Adventures Beyond The Ultraworld”, 109’41” e per contenerlo ci volevano due CD. Facevano scalpore ma a fare il botto era nell’estate ’92 “U.F.Orb”, “appena” settantaquattro minuti, subito acclamato come un classico (giustamente: lo è) e dritto al numero uno delle classifiche UK. Diciamo che la concisione per la creatura di Alex Paterson – nel cui vasto repertorio non mancano i brani da tre, quattro o cinque minuti ma spesso usati, oltre che per dare respiro, con funzione di raccordo o per agevolare un cambio di stile, passo o atmosfera – sarebbe controproducente, perché è questa musica che ha bisogno per rendere di un respiro ampio. Diciamo però che, alle spalle l’era in ogni senso aurea degli anni ’90, anche la mancanza di concisione l’ha danneggiata, perché per reggere certe durate l’ispirazione deve volare alta, se no si cade e ci si fa male e – peggio – si annoia. Talvolta gli Orb hanno rischiato di ridursi a macchietta, ma qui no.

Congiura di opposti per la quale si dovette inventare un’etichetta che è un ossimoro, ambient-house, il loro diciassettesimo album è forse il più solido e intrigante del secolo seminuovo, 77’45” con agli estremi una Daze fra soul e Ibiza e le fughe per tangenti Tangerine Dream di Slave Till U Die No Matter What U Buy. In mezzo, l’intero catalogo di suggestioni della casa: dalla techno al dub, da scorci floydiani a momenti in cui fanno capolino lì Jon Hassel, là David Sylvian.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 418, marzo 2020.

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Il capolavoro dimenticato di Andrew Weatherall

Negli innumerevoli omaggi apparsi ieri all’uomo che più di ogni altro contribuì a mettere in comunicazione rock ed elettronica da dancefloor, in una stagione felicemente, estaticamente irripetibile, tutti si sono naturalmente diffusi su “Screamadelica” e sul ruolo che ebbe Andrew Weatherhall (venuto a mancare davvero troppo presto) nel suo concepimento. In pochissimi hanno viceversa anche solo citato un altro grande classico griffato dal nostro uomo. Talmente negletto da non essere mai stato ristampato da quando vide la luce, la bellezza di ventisei anni fa.

Sabres Of Paradise – Haunted Dancehall (Warp, 1994)

Uomo di fatica e tecnico al seguito dei Clash a sì e no vent’anni (e già solo per questo andrebbe invidiato e idolatrato), Andrew Weatherall incrocia nel 1989 il percorso di un altro gruppo importante, i Primal Scream. È rimasto nel frattempo folgorato dalla acid house e così Bobby Gillespie e soci. L’incontro frutta prima il remix di Loaded e quindi, nel 1991, l’epocale “Screamadelica”, nettamente l’esito più succoso della copula fra rock e dance. Poco dopo Weatherall si inventa una sua carriera discografica non solo come produttore e remiscelatore dando vita, con Jagz Kooner e Gary Burns, ai Sabres Of Paradise, titolari di due album più una raccolta prima che il leader cambi ragione sociale e collaboratori avviando la saga Two Lone Swordsmen. “Haunted Dancehall” è il secondo: un viaggio notturno nelle viscere di Londra dagli umori affatto diversi (stacco che si nota soprattutto nella preziosa edizione vinilica che lo divide in quattro facciate) fra una prima metà smargiassa e ludica (favolosi l’elettro-jazz di Duke Of Earlsfield, una Wilmot fra Arabia e golfo di Napoli e una Tow Truck fra surf e dub e parecchio clashiana) e una seconda via via sempre più cupa e rarefatta.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.14, estate 2004.

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