Archivi del mese: dicembre 2014

I 15 migliori album del 2014 di VMO

The Black Keys - Turn Blue

15) The Black Keys – Turn Blue (Nonesuch)

Paolo Nutini - Caustic Love

14) Paolo Nutini – Caustic Love (Atlantic)

Allah-Las - Worship The Sun

13) Allah-Las – Worship The Sun (Innovative Leisure)

Goat - Commune

12) Goat – Commune (Rocket Recordings)

Eno & Hyde - High Life

11) Brian Eno/Karl Hyde – High Life (Warp)

TV On The Radio - Seeds

10) TV On The Radio – Seeds (Harvest)

Sharon Van Etten - Are We There

9) Sharon Van Etten – Are We There (Jagjaguwar)

Lucinda Williams - Down Where The Spirit Meets The Bone

8) Lucinda Williams – Down Where The Spirit Meets The Bone (Highway 20)

Jack White - Lazaretto

7) Jack White – Lazaretto (Third Man)

Flying Lotus - You're Dead

6) Flying Lotus – You’re Dead (Warp)

Swans - To Be Kind

5) Swans – To Be Kind (Young God)

Earth - Primitive And Deadly

4) Earth – Primitive And Deadly (Southern Lord)

Neneh Cherry - Blank Project

3) Neneh Cherry – Blank Project (Smalltown Supersound)

Damon Albarn - Everyday Robots

2) Damon Albarn – Everyday Robots (Parlophone)

D'Angelo & The Vanguard - Black Messiah

1) D’Angelo & The Vanguard – Black Messiah (RCA)

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Tv On The Radio – Seeds (Harvest)

TV On The Radio - Seeds

La prima bella notizia è che i TV On The Radio sono ancora vivi e lottano insieme a noi, che “Seeds” esiste e non era scontato dopo la tragedia che colpiva il gruppo newyorkese nell’aprile 2011, quando a otto giorni dalla pubblicazione del precedente “Nine Types Of Light” veniva a mancare per un tumore il bassista Gerard Smith. Vero che la leadership della band da sempre riposa sulle spalle dei fondatori Tunde Adebimpe e David Andrew Sitek, ma la perdita risultava devastante umanamente prima che artisticamente e metteva a rischio il prosieguo di uno dei progetti più eccitanti – di uno dei pochi eccitanti davvero – del rock anni 2000. Se a scomporne il proteiforme canone, alla cui definizione avevano concorso prima di quello (non contando un debutto autoprodotto acerbo e clandestino) tre album, non si rinviene un elemento di assoluta originalità, non vengono in compenso in mente altri che siano stati capaci di fondere armoniosamente influenze tanto diverse: da Eno ai Last Poets passando per Bowie e i Talking Heads, lì memori dei Banshees o dei Pixies e qui prossimi a Prince come a Curtis Mayfield, ora pop come i Cars, spigolosi come gli Wire o deflagranti come i Living Colour, ora “etnici” alla Peter Gabriel e così via. Il tutto al servizio, oltre che di un suono che ha acquisito nel tempo una riconoscibilità sua e solo sua, di una scrittura via via sempre più raffinata e incisiva.

Senza il minimo dubbio la nostra cosa migliore di sempre”, dice di “Seeds” Tunde Adebimpe ma, 1), è parte in causa e, 2), credo sia buona norma porre della distanza rispetto a un lavoro per poterlo collocare correttamente nell’ambito di una produzione, a maggior ragione se già eccezionalmente importante come quella dei TV On The Radio. Se non altro perché era lì che si evidenziava plasticamente la raggiunta maturità degli artefici, a me pare che “Dear Science” resti ancora il disco più significativo dei Nostri, quello da avere se – sbagliando – se ne vuole avere uno e basta. Però questo nuovo si colloca appena sotto, probabilmente al livello di un “Nine Types Of Light” da cui lo distinguono una produzione di raro nitore e un’urgenza come festosa. È bello vivere, un dovere farlo al meglio per onorare chi non c’è più.

È l’album “pop” dei Nostri, il più innodico se è di rock che si parla, il più insidioso sul versante delle ballate e testimoniano il tal senso per un verso la frenesia ebbra di fuzz di una Winter all’incrocio fra Stooges e Sonic Youth e una Lazerray esilarantemente Ramones, per l’altro una Test Pilot spericolatamente mediana fra l’AOR e la jam errebì, una Love Stained a combustione lenta, lo squisito collage di suoni trovati, echi folk e fantasmi industrial di Trouble. Opera che vanta inoltre un incipit quale Quartz capace di essere nel contempo estremamente cerebrale e sommamente epidermico (una lezione su come mettere plausibilmente insieme la tradizione della chiesa afroamericana e l’avanguardia cresciuta all’ombra della Big Apple con in testa il mito dell’Europa) e un singolo incredibilmente orecchiabile come Happy Idiot, un’ipotesi di Heroes sottopelle chiamata Ride e sinossi esemplari rispettivamente di techno-pop e di new wave quali Careful You e Right Now, “Seeds” conquista subito senza concedersi forse mai del tutto. Che è il segreto per durare.

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Neil Young – Storytone (Reprise)

Neil Young - Storytone

È da lungi (qualche decennio) conclamato: di prevedibile Neil Young ha giusto l’imprevedibilità e una delle dimostrazioni più eclatanti la offriva non più tardi di due anni or sono, quando a pochi mesi l’uno dall’altro dava alle stampe uno dei suoi dischi più imbarazzanti di sempre (e, diomio, stiamo parlando di uno che di dischi imbarazzanti ne ha pubblicati un bel po’) e uno dei suoi più memorabili (ossia capace di rientrare in quella dozzina – anche abbondante – che nessun appassionato dovrebbe farsi mancare). Dalla polvere di “Americana” agli altari di “Psychedelic Pill” come niente fosse, ma averne di quasi settantenni (ma anche di ventenni e trentenni, eh?) così vivi, così disposti al triplo salto mortale senza rete. E pazienza se ogni tanto, anche spesso, ci scappa la caduta rovinosa. In tal senso il Canadese nel 2014 aveva già dato, con lo sconcertante, irritante, irredimibile “A Letter Home”. A parte che non è elettrico, a “Storytone” non riesce di inscenare il tipo di ricorrente resurrezione posto disinvoltamente in essere dalla Pillola Psichedelica. E nondimeno…

Naturalmente avrete già letto e/o ascoltato: un doppio album ma composto di due dischi, ciascuno dei quali mette in fila le stesse dieci canzoni in versioni diverse ma sistemate esattamente nel medesimo ordine. Che però è un doppio solamente nella sua versione “Deluxe” e dunque “lo” “Storytone” che conta dovrebbe essere quello orchestrale. Non fosse che nell’edizione espansa il disco che vede il vecchio Neil cantarsela e suonarsela da solo è il primo: e dovremmo dunque considerare quello il più importante? Secondo logica sì, non fosse che “logica” e “Neil Young” insieme nella stessa frase non possono starci. Avrebbe potuto fare mezzo e mezzo scegliendo di ciascun brano una lettura? Certo che sì e tuttavia quella che è la debolezza principale dell’opera, la ridondanza, coincide con il punto di forza del suo offrire rese tanto diverse dei medesimi spartiti e alla fine va bene così. Prendere o lasciare. Il doppio, se si decide di prendere. Con la consapevolezza di ritrovarsi fra le mani un Neil Young di sicuro non iscrivibile alla categoria dei disastri ma in ogni caso minore.

Non avrei mai creduto: complessivamente meglio i pezzi dove il nostro uomo si fa accompagnare da un’orchestra più coro di novantadue elementi e in particolare laddove si esce dal quadrilatero delimitato da Hollywood, Disneyland, Las Vegas e Broadway. Ossia in una Say Hello To Chicago con swing da big band e nelle due tracce – Like You Used To Do e soprattutto I Want To Drive My Car – eseguite come avrebbe potuto un B.B. King. Suggestivo il gusto cinematico dell’attacco di Glimmer, a rischio di overdose glicemica ma senza arrivarci il country-pop di When I Watch You Sleeping e All Those Dreams. Nella versione “solo” preferisco davvero giusto Plastic Flowers (che sarebbe una canzone grandissima se solo Neil After The Gold Rush non l’avesse già scritta quei quattro decenni e mezzo fa) e una Tumbleweed che in solitario accentua la prossimità al classico di Buddy Holly Everyday. Mentre Who’s Gonna Stand Up la trovavo insopportabile fatta con i Crazy Horse, ridotta all’osso non sta in piedi (e resta fastidiosa) e non la salva l’orchestra, giacché per quanto si possa lucidarla la merda resta merda. Provate a indovinare quale brano e in quale lettura ha scelto Old Neil per promuovere “Storytone”.

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Elvis Goes To Church: il Presley gospel

Elvis Presley - His Hand In Mine

Nella vulgata comune a rovinare il Re del Rock’n’Roll, che comincerà allora a “normalizzarsi” avviandosi sulla strada che lo trasformerà rapidamente da inconsapevole rivoluzionario a innocuo intrattenitore, è la chiamata alle armi nel marzo 1958. Per quanto ci sia in essa molto di vero, non è esattamente così. Quando arriva a Fort Chaffee, Arkansas, Elvis su quella via è in realtà bene incamminato e pare lontanissima, quando non sono passati che quattordici mesi, la sua terza e ultima apparizione all’“Ed Sullivan Show”, quella in cui lo hanno inquadrato solo dalla vita in su per evitare che con gli ammiccanti movimenti del bacino quel bianco troppo negro eserciti appieno la sua influenza corruttrice sulla gioventù d’America. Quel breve lasso di tempo è bastato al Colonnello Parker per rendere pienamente operativo un piano tanto semplice come obiettivo quanto complesso e sofisticato nell’attuazione. Un piano che non ha nulla di ideologico, sia chiaro, essendone l’unico scopo gettare le basi per una carriera nello showbiz che duri a lungo, che continui quando la moda del rock’n’roll non sarà che un vago ricordo. Essenziale in tal senso è che il pubblico adulto smetta di percepire Elvis come un lascivo delinquente che sta minando alla base un intero sistema di valori che arriva da lontano, dai Padri Pellegrini, e cominci a cogliere quanto sia invece un bravo ragazzo. Nella metamorfosi presleyana da teppista con il quale non fareste mai uscire vostra figlia a genero ideale giocano un ruolo decisivo, quasi alla vigilia di un servizio militare che il manager trasformerà in un circo mediatico come non se n’era mai visto uno simile, le riprese del primo film da attore protagonista, King Creole, e la pubblicazione di un “Elvis’ Christmas Album” che trascorrerà un mese filato in cima alla classifica degli LP pop di “Billboard” e da allora ha venduto nei soli Stati Uniti oltre dieci milioni di copie, cifra che ne fa la raccolta di brani natalizi di maggior successo di sempre. Il lettore che ce l’ha presente ricorderà bene come gli ultimi quattro dei dodici titoli in scaletta non siano canzoni natalizie in senso stretto bensì dei gospel. Proprio quelle tracce lì avevano già visto la luce, nell’aprile precedente, sull’EP “Peace In The Valley”. Lungo preambolo per dire che sbaglierebbe grandemente però chi in quelle incisioni datate 12, 13 e 19 gennaio ’57 volesse vedere il momento cruciale in cui il nostro eroe si lasciò alle spalle – ormai marionetta mossa da un abilissimo burattinaio – la rivoluzione inscenata da That’s Alright Mama. La verità è che nel percorso formativo del giovane Elvis Presley il gospel ebbe un ruolo importante, che lo amò sempre moltissimo, che non solo il Colonnello non dovette affatto insistere per fargliene registrare ma che addirittura fu l’artista a premere in tal senso. Al manager non dovette sembrare vero.

Sulla copertina di “His Hand In Mine”, 33 giri pubblicato originariamente nel novembre 1960 su RCA Victor e fresco di ristampa su Speakers Corner non nella bella edizione mono ma nella comunque al pari convincente versione d’epoca in “living stereo”, il titolare siede a un pianoforte (che provvedeva in realtà Floyd Cramer a suonare) in abiti che sono la versione adulta del classico vestito da prima comunione. Faccia da ragazzino, occhione ceruleo spalancato, espressione innocente da bravo figliolo tutto casa e chiesa che sconfinerebbe nel verginale non provvedesse la sensualità delle labbra a fare sospettare che non è tutto santo ciò che a santo si atteggia. Sia come sia: Elvis ci credeva davvero, in tutti i sensi. Sia come sia: a mettere da parte ogni sovrastruttura ideologica, non si può non riconoscere, oltre che la sincerità, la grandezza nell’ambito e non solo nell’ambito della dozzina di incisioni qui contenute. Il primo dei tre album di gospel pubblicati dal nostro uomo (nel 1967 sarà la volta di “How Great Thou Art”, nel ’72 di “He Touched Me”) resta uno dei classici del genere, assolutamente all’altezza dei grandi maestri neri. Qui alcune delle migliori ballate della sua intera produzione, qui una strepitosa dimostrazione – offerta con la massima naturalezza, quasi distrattamente – di una capacità più unica che rara nel bilanciare energia, controllo della stessa, precisione. E come cantano i Jordanaires! Insomma: non è sempre il diavolo ad avere i ritornelli migliori.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.351, maggio 2014.

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Natale con chi vuoi

James White & The Blacks – Christmas With Satan (Tiger Style, 2002; registrazione originale del 1983)

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RadioHeads: Thom Yorke vs. Philip Selway

Thom Yorke vs Philip Selway

Ma quanto ha fatto comodo agli U2 che si sia discusso moltissimo del loro “regalare” su iTunes “Songs Of Innocence” e quasi niente di un’operina di avvilente pochezza? Direi tanto e ci ho pensato a lungo se valesse o meno la pena di spendere qualche contumelia al riguardo per poi decidere che no. Se non altro per risparmiarmi un altro ascolto di un disco che per un gruppo che pure contò qualcosa, e a un certo punto parecchio, è pietra tombale sulla quale c’è scritto “era meglio morire da piccoli”. O minimo in una media età in cui si seppe – contro ogni pronostico – reinventarsi, stupire. Che razza di uscita di scena impossibilmente memorabile sarebbe stata se si fossero congedati con “Achtung Baby”! Non trovate?

Dovevo cavarmelo ’sto dente, via. Passo a Thom Yorke, che è come dire al Bono (ma un Bono infinitamente più problematico) della sua generazione. Scorrevano fiumi d’inchiostro nel 2007 quando i “suoi” Radiohead si pubblicavano da soli “In Rainbows” mettendolo sul loro sito, in forma di file zippato, a offerta libera. Oppure, ma sempre sul sito e prima che l’album trovasse una distribuzione regolare nei negozi griffato XL, in forma di costosissima stampa “vinile più CD”. Modello che ha fatto epoca e scuola e rispetto al quale Yorke per il suo secondo lavoro da solista (a otto anni dal debutto, tre dall’ultima uscita della casa madre, uno dall’esordio del progetto Atoms For Peace) ha introdotto alcune significative variazioni: “Tomorrow’s Modern Boxes” è stato il primo album a venire posto in vendita per tramite di un protocollo P2P, al prezzo modesto (ma per degli mp3 a me pare che qualunque cifra più di “gratis” sia ingiustificata) di qualcosa meno di cinque euro. Unica alternativa comprarlo dall’artista in un’edizione vinilica extralusso spendendo otto volte tanto. Salvo ripensamenti non lo troverete mai in un negozio, da Amazon o su iTunes, né potrete mai ascoltarlo su Spotify e se non altro per questo il nostro uomo andrebbe applaudito. Dopodiché bisognerebbe pure parlare di musica, no? Una collezione di brani di elettronica (non una chitarra alle viste) crepuscolare la cui malinconia minaccia di farsi monotonia senza mai diventarlo sul serio. Invano cercherete una melodia cui appigliarvi, ma attenti: l’ascolto ripetuto potrebbe indurre assuefazione. Il che è in ogni caso un bel progresso rispetto alla noia noiosa fino a farsi irritante indotta dagli Atoms For Peace.

Sia come sia: dell’ultima fatica del cantante dei Radiohead si è parlato parecchio, parecchissimo per essere un non-disco disponibile sostanzialmente solo in forma liquida, mentre a “Weatherhouse” (Bella Union) sono stati dedicati trafiletti o poco più. D’altro canto: se per ipotesi Bono pubblicasse domani un lavoro da solista e Larry Mullen gli andasse dietro a distanza di una o due settimane son certo che del primo si parlerebbe anche ai telegiornali e del secondo discuterebbe giusto qualche fan e qualche addetto ai lavori. È il destino dei batteristi essere sottovalutati, non venire mai presi granché sul serio quando si alzano dal seggiolino e si mettono una chitarra a tracolla, o magari vanno a sedersi davanti a una tastiera, e cominciano a scrivere canzoni. Ecco, è questa la parola chiave: canzoni. Laddove Thom Yorke in “Tomorrow’s Modern Boxes” declina elettronica sprovvista di qualsivoglia seduzione melodica, Philip Selway l’elettronica non la disdegna ma la colloca sullo sfondo, totalmente al servizio di un artigianato deliziosamente in bilico fra art-rock e avant-pop. Brani come It Will End In Tears (fra Beatles tardi ed XTC), Don’t Go Now (super Pink Floyd) o Turning It Inside Out (certi U2 estatici che si sono persi per sempre) certificano che può esserci vita dopo i Radiohead. Fosse mai che decidano di sciogliersi al momento giusto (che era forse ieri), loro.

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Father & Son – Leonard Cohen vs. Adam Cohen

Leonard Cohen vs Adam Cohen

Stupisce lo stupore di chi, all’uscita di “Popular Problems” (Columbia), si è stupito che Leonard Cohen sia tornato con un album nuovo formalmente ad appena due anni – in realtà quasi tre: “Old Ideas” vedeva la luce a fine gennaio 2012 – dal predecessore. Intervallo in ogni caso breve per uno che già esordiva trentatreenne, metteva sedici mesi (parecchio, per l’epoca) fra il debutto e il secondo LP e un suo disco è arrivato a farcelo sospirare poco meno che un tondo decennio. Ma tempus fugit e se pure sei in una forma, sia fisica che mentale, pazzesca per un fresco ottantenne la consapevolezza che i tuoi giorni siano contati non può non metterti fretta. E poi ce l’aveva promesso, che almeno un altro album lo avrebbe pubblicato, e per un gentiluomo come lui ogni promessa non può che esser debito. Eccoli qui allora altri nove articoli che vanno ad aggiungersi a un catalogo tanto (relativamente) smilzo quanto di una qualità media senza eguali (e peggio per chi invece ha insieme più facilità a scrivere e meno equanimità nel giudicarsi) nell’ambito della canzone d’autore. Ci stanno benissimo, ad accompagnare un paio di dozzine di classici e qualche decina di altri pezzi comunque – quale più, quale meno – memorabili. Si può qui rubricare qualcosa alla prima voce? Pur con il difetto di prospettiva dato da una sì fresca frequentazione punterei molto su una Almost Like The Blues disegnata da un piano elegante che piuttosto jazzeggia, fra percussioni sincopate, archi pungenti e fiati che sistemano strada facendo punti e virgole, e su Slow, che la precede e quella sì che è un blues. In seconda istanza sul virile incantesimo a tempo di valzer di Samson In New Orleans e su Born In Chains, organo chiesastico e coro che subito gospeleggia. Laddove Did I Ever Love You – country al trotto e piglio e voce singolarmente più Zimmie che Lenny – e l’inquietante, ipnotica escursione mediorientale di Nevermind sono grandi canzoni ma forse troppo “poco Cohen” per venire sistemate a fianco dei capisaldi conclamati. Però in fondo lo pensai anche di First We Take Manhattan, la prima volta che mi illuminò d’immenso.

Pur principiata con un lavoro omonimo nell’ormai lontano 1998, fuori dal Canada la sua carriera è stata a oggi di profilo mediaticamente tanto basso che in pochi sanno che Leonard Cohen ha un figlio cantautore e che anch’egli ogni tanto pubblica un album. L’ultimo è il suo quinto contandone uno con i Low Millions, si chiama “We Go Home”, è uscito a ridosso di “Popular Problems” (una settimana prima, anzi) e in Europa provvede Cooking Vinyl a distribuirlo. Sgombrato il campo da improponibili paragoni, si può serenamente affermare che Adam Cohen merita di essere conosciuto non solo in quanto “figlio di” e che l’illustrissima parentela è stata probabilmente più un handicap che un aiuto. Echi di papà chiaramente risuonano, amplificati dalla costanza con cui voci femminili vanno a fare il controcanto, ma – a parte l’ammirazione per la schiettezza con la quale costui si confronta con l’ingombrante lascito in una confessionale Fall Apart che felicemente disarma – il disco meriterebbe più fortuna della poca che al solito sta riscuotendo. La dessero alle stampe Mumford & Sons, la traccia omonima sarebbe un successone. Ci mettesse mano Bono a una Love Is si potrebbe parlare di un Secondo Avvento. Dategliela una possibilità, ad Adam. Fatevi sedurre dallo shuffle lieve di Song Of Me And You, provate e perdervi e ritrovarvi nell’attacco pianistico che trasmuta in funk e quindi in pop-baroque di What Kind Of Woman e sappiatemi dire.

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Tweedy – Sukierae (dBpm)

Tweedy - Sukierae

C’è un Jeff Tweedy per tutti o quasi – l’autore di ballate country, l’avanguardista, il vecchio punk che traffica con il noise, lo psichedelico, il post-rocker, l’emulo della tradizione di Tin Pan Alley, l’allievo dei Beatles come di Ray Davies – e in quello che sarebbe dovuto essere il suo primo album in proprio dopo ventisette anni trascorsi dividendo con altri, primi gli Uncle Tupelo, le luci della ribalta questi Jeff Tweedy ci sono tutti o quasi. Dice il nostro uomo che nei cassetti nel tempo gli si erano accumulate una novantina di canzoni non usate né con gli Wilco né con quel dopolavoro di lusso chiamato Golden Smog, né ritenute adatte a venire inserite in questo o quello dei diversi dischi altrui prodotti negli ultimi anni. Non è chiaro quante, fra la ventina che sfilano in “Sukierae”, arrivino da lì ma presumibilmente poche. Dice Jeff che dopo averne registrate una quindicina l’album sembrava pronto, ma a metterle in fila non riusciva né a trovare un ordine soddisfacente, che rendesse coeso l’assieme, né a scegliere quali sacrificare per ottenere tale risultato. Un ultimo e inaspettato florilegio di creatività, che gliene faceva buttar giù in men che non si dica ulteriori cinque, quadrava il cerchio, evidente a quel punto che gli album erano due o per meglio dire uno ma doppio, formato da due metà chiaramente distinguibili per il mood prima ancora che per gli spartiti esposti. Prossimo all’ora e un quarto, “Sukierae” è forse troppo, ma il sospetto che a togliere un mattone o due o tre (ma quali?) l’edificio crollerebbe fa sì che lo si prenda com’è. Quasi un grande album. E buttatelo via, voi, ché io non ci penso proprio.

La ragione per cui in copertina c’è scritto “Tweedy”, senza “Jeff” davanti, è che i Tweedy che suonano qui sono due (pochissimi gli apporti esterni) e il secondo è Spencer, diciottenne primogenito del Nostro. Nessun familismo, nondimeno. Il ragazzo ha gia un cv importante, è un autentico enfant prodige della batteria e per quanto non sia mai accreditato come co-autore dà un contributo rilevantissimo alla riuscita del progetto, non limitandosi a tenere il ritmo ma tessendo sottotrame, rifinendo, colorando. Nessun dubbio che il futuro sarà dalla sua, quando già il presente lo è.

Informato dalla lotta che la moglie di Jeff e madre di Spencer sta combattendo contro quella che una volta si sarebbe detta, con pietoso eufemismo, “una brutta malattia”, “Sukierae” è come dicevo dianzi due album in uno piuttosto che un canonico doppio: un primo più vivace e ricco di scarti improvvisi, un secondo dall’incedere più piano, dall’umore raccolto e via via più ombroso. Più che una settantina di minuti, come una vita intera pare separare l’attacco punkoide e dissonante Please Don’t Let Me Be So Understood dal suggello intimo e ipnotico I’ll Never Know. Dovendo per forza scegliere un disco opterei per un primo che a più riprese sfiora la memorabilità vera: con la languida e acidula ballata High As Hello, con una World Away che instilla un po’ di Led Zeppelin in The Band o viceversa, con il valzer Wait For Love e una mantrica Slow Love, ma soprattutto con un gioiellino di pop alla Lennon/McCartney chiamato Low Key. Sorta di equivalente di quest’ultimo è, nella seconda parte, Summer Noon, però più sul versante Ray Davies del classicismo melodico britannico. Qualche nota di merito ancora per le dylaniane Desert Bell e Fake Fur Coat e per una Down From Above che ascoltarla e farsi venire voglia di Pavement è una cosa sola.

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Allah-Las – Worship The Sun (Innovative Leisure)

Allah-Las - Worship The Sun

I miei anni ’60 sono stati gli anni ’80. Cominciavano nel 1984, quando i R.E.M. pubblicavano “Reckoning”, i Dream Syndicate “Medicine Show”, gli Smiths esordivano a 33 giri (perché sì, si esordiva ancora “a 33 giri”) e nello scaffale delle offerte di Rock & Folk raccattavo a due lire i volumi 9 e 10 di “Pebbles” e li mandavo a memoria. Naturalmente e per quanto con tanti buchi nelle discografie avevo già in casa un bel po’ di anni ’60 – i Velvet, i Doors, i Byrds, gli Stooges, i Jefferson, Hendrix, i Beatles, gli Stones, i primi Pink Floyd – ma era allora che mi rendevo conto che quel decennio (quel mezzo decennio) in realtà aveva offerto tanto di più e che valeva la pena di esplorarlo approfonditamente (trent’anni dopo non ho ancora smesso). Era il Paisley Underground a farmi arrendere all’evidenza che il punk non era stato un Anno Zero prima del quale solo Lou e Iggy. Ed era grazie al Paisley e alla concomitante voga neo-garage se la prima seria ondata di ristampe (se era su Edsel si acquistava: punto) riportava nella disponibilità degli appassionati dischi di cui in precedenza si era al massimo favoleggiato, dai Moby Grape e dai Kaleidoscope in giù. Andava tutto di pari passo. Compravi i Plasticland e di conseguenza i Pretty Things perché i primi si dichiaravano devoti dei secondi e – toh! – i secondi li avevano appena riediti. Partivi dai Chesterfield Kings e arrivavi alla Chocolate Watch Band, i Nomads ti facevano scoprire gli Standells e così via. I miei anni ’60 sono stati gli anni ’80 e negli anni ’80 un gruppo come gli Allah-Las mi avrebbe cambiato la vita.

Più californiani di una tavola da surf, più losangeleni dell’insegna di Hollywood, gli Allah-Las si sono letteralmente formati dentro un negozio di dischi (tre di loro lavoravano da Amoeba) e che certi dischi se li siano studiati per bene è evidente dai loro, di dischi. L’omonimo debutto in lungo, una faccenda di due anni fa, prometteva e “Worship The Sun” mantiene anche più di quanto fosse lecito aspettarsi. E se volete chiamarli revivalisti fate pure, ma prima puntate l’unica traccia non autografa di questo nuovo album, la tredicesima di quattordici, e ditemi se riletta da loro l’oscura No Werewolf – che fu dei Frantics: 1960, addirittura – non sa di krautrock quasi più che di surf. Revivalisti? Non più di quanto non lo siano Jonathan Wilson o i TV On The Radio (o non lo fosse LCD Soundsystem) e parecchio meno, per dire, delle Savages. Gli Allah-Las sono innamorati degli anni ’60 (e degli ’80) ma rifuggono la copia conforme, smontano, mischiano e riassemblano con gusto, estro e joie de vivre. Nell’attesa di scrivere grandi canzoni per intanto sanno già regalarne di deliziose. Come una De vida voz che trapianta la chitarra di Johnny Marr sul corpo dei Love ed è incipit da innamoramento subitaneo. Se Artifact rimanda con una certa spudoratezza al classico della Chocolate Watch Band Are You Gonna Be There e da Every Girl ti aspetteresti che spunti la voce del giovane Jagger, Buffalo Nickel incrocia gli Zombies con i Beach Boys e 501-405 mischia dna Dylan e Barrett. Se Nothing To Hide evoca i Turtles Yemeni Jade rimanda ai Felt e Follow You Down potrebbe confondersi in un ideale “Best” dei Brian Jonestown Massacre. La gemma più lucente è Better Than Mine, che sono i Byrds country forse meglio di quanto i Byrds country non siano mai stati. Negli anni ’80 un gruppo come gli Allah-Las mi avrebbe cambiato la vita. Oggi mi fa contento di esserci ancora, di respirare musica, di vivere per la musica. E a culo tutto il resto.

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Scott Walker & Sunn O))) – Soused (4AD)

Scott Walker & Sunn O))) - Soused

Pazzesca la parabola di Scott Walker, come nessun’altra nella musica sia colta che popolare del Novecento: da idolo per teenager poco dopo il giro di boa dei ’60, alla testa di quei Walker Brothers indecisi fra l’essenzialità del beat e i fronzoli di Tin Pan Alley, a cantante confidenziale in un finale di decennio in cui si trasformava in una sorta di Burt Bacharach che cantava Brel facendosi produrre da Phil Spector, con successo dapprincipio ancora enorme ma via via decrescente. E poi una terza vita dedicata a scolpire, con intervalli lunghissimi a separarli l’uno dall’altro, inclassificabili e avanguardistici capolavori capaci di unire idealmente Robert Johnson a Brian Eno via Wagner muovendosi fra Nick Cave e Bartók, Schubert e Van Morrison e no, se non li avete mai ascoltati non potete proprio immaginarveli. Ho citato Eno ed eccolo l’ideale punto di contatto fra costui e il duo formato nei secondi ’90 dai chitarristi Stephen O’Malley e Greg Anderson: pur’essi unici, campioni del doom metal più doom di sempre e da un certo punto in poi autocatalogatisi alla voce – un ossimoro – “power ambient”. Fermo restando che mai Eno ha declinato musica della annichilente intensità dei Sunn O))).

Insomma: sulla carta la collaborazione fra Walker, O’Malley e Anderson prometteva di essere l’album di uneasy listening più uneasy a memoria d’uomo e alla resa dei conti non è così, per quanto non si tratti certo di una ricetta per tutti. Nondimeno i cinque lunghi brani che vi sfilano in cinquanta minuti netti più che terrorizzanti sono (a volumi medio-bassi) incantatori, con quell’inconfondibile baritono a stagliarsi su tappeti di bordoni occasionalmente sfrangiati da stridori industrial che ne spezzano l’effetto mantrico. Si potrebbe persino dirla new age, per quanto ossianica.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.357, novembre 2014.

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