Archivi del mese: agosto 2020

Moses Sumney – græ (Jagjaguwar)

Singolari le modalità di pubblicazione del secondo album di questo trentenne californiano di origini ghanesi. Da lì conviene cominciare a raccontare “græ”, la cui prima metà ─ dodici tracce, 38’08” ─ veniva commercializzata in digitale il 21 febbraio. La seconda metà ─ ulteriori otto pezzi, 27’36” ─ ha visto la luce il 15 maggio e ha completato l’album vero e proprio, stavolta reso disponibile nella sua interezza (per la gioia di quanti avevano acquistato la “Part 1”) anche su CD, oppure doppio vinile. Un senso c’è. È che il nostro uomo, conscio dello spessore di un’opera ambiziosissima, desiderava che gli ascoltatori iniziassero ad assimilare la metà (abbondante) che segna uno stacco netto rispetto all’esordio del 2017 “Aromanticism”. È che, pur essendoci un’unità di fondo, si tratta quasi di due dischi in confezione unica. Nondimeno qualche perplessità resta.

Ciò premesso: ci si può sbilanciare e affermare che trattasi del primo capolavoro del nuovo decennio, album capace insieme di fotografarlo e trascenderlo e quindi destinato a non invecchiare. Quanto sono diverse le due parti che lo compongono, allora: a fronte di una seconda assai più lineare e introspettiva, nella prima l’inestricabile intersecarsi di folk, art-rock, jazz ed elementi di musica classica produce brani più complessi, e a tratti contundenti, che tolgono definitivamente il patentino di artista neo-soul (da lui del resto sempre rifiutato) a Sumney. In ogni caso invisibile una sutura sagacemente affidata alla sofferta ballata acustica Polly e alla Björk in versione pastorale di Two Dogs. Lo spazio a disposizione non consente di diffondersi citando almeno qualche altra traccia. Ne resta abbastanza per dire di una voce di rimarchevole estensione, a suo agio soprattutto con un falsetto di rara versatilità.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.421, luglio 2020.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, recensioni

Quello che sta oltre – Il 1969 di Miles Davis

Non suonare quello che ti piace. Suona quello che sta oltre.

Istruzioni per la registrazione: impartite da Miles Davis a Dave Holland un imprecisato giorno del 1969, probabilmente in agosto, probabilmente durante una delle tre epocali sedute in sala d’incisione che fruttarono “Bitches Brew” – ma il contrabbassista non ne è certo. Ricorda in compenso altre frasi al pari perentorie e sibilline di colui che per due anni, dall’estate 1968 a quella del 1970, fu il suo datore di lavoro: “Non suonare quello che c’è ma quello che non c’è”, e ancora: “Non suonare dove ti cascano le dita”. Il fiatista Dave Liebman, che con il Man With The Horn incrociò la strada dal gennaio 1973 al marzo 1974, rincara la dose con “non completare la tua idea, lascia che la finiscano gli altri” e “termina il tuo assolo prima di finirlo”. Mentre a un John McLaughlin già nervosissimo, all’esordio in studio con Davis il 18 febbraio 1969 e impegnato nell’ardua reinvenzione dello spartito di In A Silent Way, Miles intimava, gettandolo nel panico: “suona come se non sapessi suonare”.

Ma si vada a riascoltarli quegli stupefacenti quattro minuti e quindici secondi a firma (e poco di più) Josef Zawinul prestando un’attenzione speciale alla chitarra. L’eleganza di tocco e la limpidezza di suono usuali per McLaughlin sono ben presenti ma si accompagnano a un senso come di esitazione, a una timidezza che è esattamente ciò che rende memorabile una melodia in transito da lì al sassofono soprano, quindi alla tromba. Il contrabbasso disegna un bordone, due pianoforti traslucidi gli intrecciano attorno danze colpite al cuore da una chitarra fattasi ora dissonante – però con gentilezza. A finire su disco fu la prima take e i musicisti ne restarono sbalorditi, convinti com’erano che non si trattasse che di una prova. Un ennesimo incantesimo riuscito per il Mago – “Sorcerer”, aveva ammiccantemente battezzato un album due anni prima; “Dark Magus” sarà il titolo di un altro.

C’è chi fa cose straordinarie e nondimeno è una persona in apparenza ordinaria. Miles Davis ha fatto cose straordinarie – determinante come pochi nella complessiva storia musicale del Novecento, non una, non due, non tre ma quattro volte ha deciso dove dovesse andare il jazz – senza mai fingere di essere uno qualunque. Carismatici si nasce e lui, modestamente, lo nacque, “a puzzle wrapped in an enigma” secondo la celebre definizione di Michael Zwerin. Si stupirà allora il lettore se dico che per costui il 1969 non cominciò il 1° gennaio né finì il 31 dicembre, come per tutti i comuni mortali? Senza neppure forzare troppo, si potrebbe azzardare che il 1969 di Miles Davis inizi oltre un anno prima, il 4 dicembre 1967. È il giorno in cui, negli studi di New York della Columbia, sulla Trentesima Strada, il quintetto classico si allarga a sestetto con l’aggiunta per la prima volta di un chitarrista, Joe Beck – presenza invero transitoria. Si registra Circle In The Round e ci vorranno dodici anni perché una casa discografica che non sa più che inventarsi per riempire il silenzio del trombettista lo pubblichi, su un omonimo doppio. Bizzarramente, un brano assolutamente cruciale (non solo perché introduce una chitarra amplificata, anche per le inedite influenze indiane) per l’evoluzione dell’arte davisiana sfuggirà ai radar per l’intero primo periodo per così dire “fusion”, anello la cui mancanza finirà per falsare tante analisi.

Il 28 sempre di dicembre la medesima formazione imprime su nastro Water On The Pond, ed è una seconda gemma a lungo perduta che marca un’altra “prima volta”: Herbie Hancock seduto a una tastiera elettrica, un Wurlitzer, non il Fender Rhodes che adotterà, in forza di una timbrica più varia, da lì a breve. Non il 15 febbraio 1968 quando, alle prese con quella Sanctuary di Wayne Shorter che sarà designata due anni dopo a suggellare “Bitches Brew”, suona acustico ed è allora George Benson a regalare fremiti di corde sotto tensione, non elettrizzanti però quanto avrebbe desiderato il padrone di casa.

Slabbrando di meno il calendario, non l’evidenza, il 1969 davisiano potrebbe essere invece fatto cominciare l’11 oppure il 27 novembre del 1968.

Prosegue per altre 20.438 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta in 1969 – Da Abbey Road a Woodstock, Giunti, 2009.

1 Commento

Archiviato in Hip & Pop

Chicano Batman – Invisible People (ATO)

Esce una quantità di dischi senza senso e non vi è addetto ai lavori che possa starci dietro. Così, mentre magari ti tocca frequentarne di brutti o anche discreti ma inutili, finisci per lisciarne di ben più intriganti, salvo magari scoprirli mesi o anni dopo. Andava così per il sottoscritto con l’album prima – il terzo ma era come fosse il secondo, visto che l’omonimo esordio autoprodotto del 2010 fuori da Los Angeles era passato del tutto inosservato – di questo quartetto che sin dal nome rivendica(va) le proprie radici ispaniche. A farmi investigare “Freedom Is Free” era, più che la presenza nelle zone basse di qualche playlist, la fantasmagorica copertina di gusto etno-lisergico. Si rivelava all’altezza quanto ascoltavo, policroma fantasia di funk latino alla Santana prima maniera, soul alla Curtis Mayfield, tropicalismo alla Os Mutantes, psichedelia westcoastiana. Piccolo dettaglio: ascoltavo nel dicembre 2017 un disco uscito a marzo e per una recensione era troppo tardi. Per “Invisible People” mi sono prenotato sulla fiducia.

Grande lo sconcerto di primo acchito. Come fosse un altro gruppo, benché i musicisti siano sempre i quattro che lo fondavano. Fatto è che costoro si sono incamminati, senza però tappe intermedie, sulla medesima strada presa da una sigla molto celebre e celebrata quale Tame Impala, anch’essa partita da un ambito in parte di neo-psichedelia e approdata a un pop di impronta marcatamente elettronica. Pure in “Invisible People” i synth hanno preso inopinatamente il sopravvento ma per fortuna, passaggio dopo passaggio, una qualità di scrittura che resta alta comincia a emergere, nello iato in ogni caso ampio fra massicci electro-funk e brani più ariosi per i quali si potrebbe parlare di French Touch. Insomma: promossi. Però “Freedom Is Free”…

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.421, luglio 2020.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, recensioni

The First Cat (Stevens) Is The Deepest

Sono passati quattro decenni dacché Cat Stevens esordiva a 45 giri con un onorevole piazzamento (ventottesimo) nella graduatoria britannica. Ventisette sono invece gli anni trascorsi dacché si ritirava a vita privata dopo così tanti successi che a elencarli si riempirebbe di numeri una colonna. “Numeri”, come recitava il titolo del nono dei suoi undici LP in studio, edito trentun anni fa e cioè due prima che si facesse musulmano. Dodici ulteriori anni dopo, alcuni dj americani avrebbero organizzato un falò di suoi dischi, mentre a testimoniare un dissenso meno gridato ma al pari significativo i 10,000 Maniacs annunciavano che avrebbero eliminato dalle ristampe di “In My Tribe” la sua Peace Train. Simili gesti di intolleranza sarebbero sempre da deprecare, ma era quello un rogo con poco a che vedere con quelli appiccati oltre Atlantico molto prima, quando John Lennon dichiarò i Beatles “bigger than Jesus”. Era un protestare, forse contraddittorio, contro l’intolleranza anziché un propugnarla: Yusuf Islam, nome assunto dopo la conversione da Steven Demetre Georgiou in luogo dell’alias da popstar, aveva appena dichiarato di appoggiare la fatwa emessa nei confronti dello scrittore Salman Rushdie dall’ayatollah Khomeini e grande in Occidente era l’indignazione. Dirà in seguito di essere stato frainteso e manipolato, ma una chiara abiura di quelle frasi sciagurate non l’ha mai pronunciata e la macchia, su una vita altrimenti specchiata, resta. Così come la sorpresa, dolorosa, per un’esibizione di fanatismo fra l’altro in totale contrasto con una fama di uomo mite e caritatevole. Piace pensare che intimamente se ne sia pentito e che sia solo per non innescare nuove polemiche che non è mai tornato sull’argomento. Piace pensare, e più che indizi in tal senso ci sono frasi nette, pronunciate nel 2000 in un’intervista a “Mojo” (la prima a un giornale musicale dopo oltre vent’anni!) e ulteriormente messe nero su bianco nel 2001 nel libretto di un box quadruplo, intitolato semplicemente “Cat Stevens”, che abbia fatto da allora pace con se stesso. E che con la maggiore tolleranza nei confronti del giovane che fece cantare milioni di giovani sia tornata la comprensione, magari l’empatia, rispetto a chi in materia di religione ha convinzioni diverse. Nel frattempo quello di Cat Stevens è un nome che non soltanto rifiuta di sparire dagli annali del pop-rock ma ogni tanto vi si riaffaccia. Valgano come esempi del fascino immutato di canzoni dall’appeal universale e transgenerazionale due cover del suo brano più celebre, Father And Son, realizzate da personaggi che non potrebbero essere più distanti fra loro: i fatui Boyzone la riportavano in cima alle classifiche nel 1995, il compianto Johnny Cash qualche anno dopo ne registrava una straordinaria, intensissima versione (inclusa nel 2003 nel cofanetto “Unearthed”) in duetto con Fiona Apple.

Prosegue per altre 7.038 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.628, novembre 2006.

Matthew & Son (da “Matthew & Son”, Deram, 1967)

Here Comes My Baby (da “Matthew & Son, Deram, 1967)

The First Cut Is The Deepest (da “New Masters”, Deram, 1967)

Father & Son (da “Tea For The Tillerman”, Island, 1970)

1 Commento

Archiviato in Hip & Pop

Joan As Police Woman – Cover Two (Sweet Police)

Mentre scrivo su Discogs è disponibile, a € 55, un’unica copia della precedente collezione di reinterpretazioni di materiali altrui di Joan Wasser, meglio nota come Joan As Police Woman. D’altronde: “Cover” (2009) non arrivava mai nei negozi, l’artista americana lo vendeva ai concerti e sul suo sito e oggi, per chi volesse ascoltare un disco in cui rifaceva, annullando le distanze fra gruppi e solisti fra loro talvolta distantissimi, Jimi Hendrix, Britney Spears, T-Pain, Iggy Pop, T.I., Adam & The Ants, Public Enemy, Sonic Youth, David Bowie e Nina Simone, la sola possibilità è il download, sulle piattaforme che lo offrono… o altrimenti. Per il successore, che vede la luce a due anni dall’ultimo album di materiali autografi, “Damned Devotion”, e uno da una “Joanthology” che fa il punto su una quindicennale carriera solistica la ragazza (insomma… i primi cinquant’anni sono all’orizzonte, ma portati in ogni senso splendidamente) ha fortunatamente optato per una distribuzione convenzionale. Va da sé che “Cover Two” verrà comprato perlopiù da gente che ha già in casa il resto della discografia. Nondimeno, la rappresenta così bene che il neofita potrebbe approcciarla partendo da queste dieci tracce.

Selezione appena meno eclettica della precedente ma riletture al pari peculiari, con soltanto Life’s What You Make It dei Talk Talk prossima all’originale e fra il resto autentiche trasfigurazioni: Under Control degli Strokes e Out Of Time dei Blur rese come avrebbe potuto la Carole King di “Tapestry”, Not The Way di Cass McCombs trasformata in un cupo intreccio di bordoni e sassofoni, On The Beach di Neil Young che si fa catatonico valzer. Apre Kiss, di Prince, in una versione rallentata e jazzata. Se vi conquista, il resto verrà di conseguenza.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.421, luglio 2020.

4 commenti

Archiviato in archivi, recensioni

Audio Review n.422

È in edicola da giovedì il numero agostano di “Audio Review”. Contiene mie recensioni degli ultimi album di Badly Drawn Boy, Phoebe Bridgers, Deerhoof, Steve Earle & The Dukes, Jayhawks, Khruangbin, Ray LaMontagne, La Priest, L.A. Salami. John Legend, Marc Olson & Ingunn Ringvold, Owen Pallett, Brigid Mae Power, Rolling Blackouts Coastal Fever e Neil Young e di due recenti ristampe di Roberta Flack e Bobbie Gentry. Nella rubrica del vinile ho scritto in lungo dei National e più in breve di Marvin Gaye.

Lascia un commento

Archiviato in riviste

Public Practice – Gentle Grip (Wharf Cat)

Per essere una vicenda che inizia (l’EP del 2018 “Distance Is A Mirror” sorta di episodio pilota) con questo esordio in lungo, la… ahem… pratica Public Practice ha una quantità di “prequel”, inusuale per musicisti ancora giovani, sui quali merita soffermarsi. Il quartetto newyorkese nasce dallo scioglimento di due band che hanno fatto in tempo a lasciare tracce importanti. Se la cantante Samantha York e il chitarrista Vince McClelland provengono dai WALL, con i quali hanno intessuto trame post-punk e no-wave nel pregiato debutto del 2017 “Untitled”, l’altra cantante e bassista Drew Citron e il batterista Scott Rosenthal arrivano dai Beverly, gruppo noise-pop con all’attivo due non meno riusciti album, “Careers” e “The Blue Swell”, del 2014 e 2016 (e ancora prima Citron è stata con gli Avan Lava, titolari di un 7”). Come succede quando si mischiano colori primari il risultato è però un qualcosa di differente e nuovo. Sebbene con antecedenti lontani tanto evidenti quanto dichiarati: un’altra Big Apple, quella in cui nei tardi ’70/primi ’80 la collisione fra pop, punk e funk, new wave e il nascente hip hop generava storie di successo chiamate Blondie e Talking Heads e altre destinate a restare di culto ma la cui influenza perdura come ESG e Liquid Liquid.

Chiaro che se suoni come qualcosa che già c’era quarant’anni fa (altri numi tutelari: Suicide, B-52’s, Slits) le discriminanti per decidere se la tua esistenza abbia o meno un senso sono due: qualità della scrittura e abilità nel mischiare le carte. Sull’uno e l’altro fronte i/le Public Practice se la giocano alla stragrande. Sì da risultare eccitantissimi/e, in dodici brani ritmicamente e melodicamente irresistibili. Speriamo non si sciupino in fretta, tipo Interpol. Speriamo durino, tipo LCD Soundsystem.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 420, maggio/giugno 2020.

6 commenti

Archiviato in archivi, recensioni

Perché il mio primo libro autoprodotto è un’esclusiva Amazon (e lo saranno anche i successivi)

Come spiegato nell’introduzione a Venerato Maestro Oppure (se non lo avete acquistato, potete recuperarla qui), quando il 31 dicembre 2011 diedi vita a questo blog l’idea era di mettere un piede in Rete per instaurare un dialogo diretto con chi ancora mi leggeva sulle riviste e insieme ricordare la mia esistenza a chi, pur restando appassionato di musica, le riviste non le comprava più, o solo occasionalmente, o non quelle su cui scrivevo/scrivo io. Una platea che si rivelò discretamente folta (parla chiaro in tal senso un contatore che certifica a oggi quasi due milioni di pagine viste e questo senza includere le centinaia di abbonati che ricevono i post via mail) e cui cominciai a offrire gratuitamente una piccola percentuale dei miei immensi archivi. Mi cito: “Era pubblicità a costo zero a parte il tempo dedicatogli, era un regalare con l’idea che un giorno da quell’archivio avrei potuto cavarci dei libri. Essere finalmente l’editore di me stesso…”. Fu pure a ragione di questo progetto in nuce (di più al riguardo nell’introduzione alla seconda antologia, che conto di fare uscire in novembre) che i miei rapporti con la Stemax, che all’epoca mandava in edicola il mensile “Il Mucchio” e vari supplementi fra cui il semestrale “Extra”, da già non idilliaci quali erano si fecero pessimi. Accadde quando colei che si era issata ai vertici della cosiddetta (molto cosiddetta) cooperativa ventilò una ristampa in formato digitale di tutti i numeri di “Extra”. Ipotizzando un prezzo di vendita ridicolo e chiarendo che non pensava minimamente a compensare – neppure con una cifra simbolica! – gli autori che pure, ai sensi delle vigenti normative in materia, detenevano ogni diritto su quei materiali. Per una parte rilevantissima il mio catalogo di articoli lunghi si sarebbe così trovato a non valere più nulla. Non la presi bene, ma – ripeto – è vicenda che affronterò più estesamente in altra sede e giusto perché non lo si può evitare, senza trarne piacere alcuno e men che meno con intenti vendicativi, giacché il tempo è stato galantuomo e la farina del diavolo è andata in crusca.

Tornando all’argomento del titolo… Quando nacque il blog stampare in proprio aveva ancora costi, se non proibitivi, alti e in ogni caso non alla portata delle mie tasche. In compenso l’eBook era in piena fioritura, i più ipotizzavano addirittura che avrebbe relegato il libro su carta in una sorta di riserva indiana simile a quella in cui era stato confinato il disco in vinile (e invece…), ed era dunque a quel formato a esborso zero che pensavo. Solo che sono uno che impiega ere geologiche a mettersi in moto (per dire: quando iniziai a vagheggiare venerato-maestro-oppure.com doveva essere il 2005). Solo che volevo vedere se sul serio l’eBook si sarebbe preso la più parte del mercato librario e i dati italiani lasciavano molti dubbi al riguardo. Solo che i casi della vita a un certo punto si sono messi di mezzo e ho dovuto preoccuparmi di ben altro dal novembre 2015 all’estate 2016. Solo che nel frattempo i costi tipografici di un’autoproduzione erano scesi tantissimo e maturava sempre più forte in me la convinzione (i fatti l’hanno suffragata) che la stragrande maggioranza della platea cui mi rivolgo sia affezionata alla carta e consideri l’eBook al massimo un (più economico) ripiego. Nel 2018 prendevo allora a considerare seriamente la possibilità di fondare una casa editrice. Per autopubblicarmi, per cominciare. Con il sogno, se fosse andata bene, di offrire in un secondo momento ad alcune persone che stimo la possibilità di aggregarsi, ricevendo per farlo royalties di alcuni ordini di grandezza più alte di quelle che offre (quando le offre) l’editoria ufficiale. E fu a quel punto che fra il progettare e il fare si misero di mezzo burocrazia e balzelli. Si trattava (ovvio!) di fondare una società, una s.a.s. per la precisione, che può anche avere un unico socio ma nel mio caso ne avrebbe avuti due. Le società si fondano davanti a un notaio ed ecco il primo costo. Modesto e una tantum, giusto qualche centinaio di euro. La contabilità della società sarebbe stata delle più semplici ma per non correre rischi è sempre meglio affidarsi a un commercialista, giusto? Aggiungete un 5-600 euro all’anno. Ci si può stare ancora. Poi però mettetene 3.500 che vanno versati forfettariamente all’INPS se anche non hai avuto un centesimo di guadagno. E dal primo centesimo di guadagno i soci pagano l’Irpef. Come è giusto sia, ma forse un po’ troppo rispetto a quello che sarebbe giusto per chi vorrebbe provare a fare impresa. Sommate i costi di stampa da anticipare alla tipografia e poi e anzi soprattutto considerate che i libri occupano spazio e a un certo punto devi per forza affittarlo, a meno di non ristampare mai quando una tiratura va esaurita oppure, se non va esaurita, se vuoi tenerti delle copie per quelli che potrebbero chiedertele a distanza di anni. Mettici il dovere preparare un pacco (non ho mai considerato – MAI – una distribuzione in libreria: sommare quel costo ai già menzionati per una casa editrice minuscola significa condannarsi alla morte per fame e punto) e fare la coda in posta ogni volta che ricevi un ordine. Insomma: una fatica pazzesca per andare forse pari, con le vendite che ipotizzavo tenendomi saggiamente basso, dopo due anni, se non tre. Ne valeva la pena? Stavo scoraggiandomi.

Poi, grazie a un collega che non ringrazierò mai abbastanza, ho scoperto che da qualche tempo Amazon offre la possibilità di pubblicare in proprio non solo eBook ma pure libri “veri”, con la formula del “print on demand”. Fornisci un pdf e, ogni volta che qualcuno lo ordina, una singola copia viene stampata e spedita. Stabilisci tu (entro determinati parametri) il prezzo, Amazon sottrae un costo di stampa prefissato e la sua quota di guadagno e ti versa, mensilmente e al netto delle tasse, il resto. Una volta all’anno ti rilascia la relativa certificazione fiscale. Rischio di impresa: zero. Non puoi perderci altro che il tempo che ci hai dedicato. Che avreste fatto al posto mio? Avreste avviato l’insensato ambaradan di cui sopra pur di non mettervi, per così dire, in società con Jeff Bezos? Cosa che avrei in ogni caso fatto a suo tempo, non essendoci alternativa vera, se avessi cominciato a pubblicare eBook. Che NESSUNO distribuisce in proprio.

Capisco che a qualcuno non piaccia il sistema Amazon. Capisco benissimo chi i libri preferisce acquistarli in libreria, visto che è così anche per il sottoscritto. Ma Venerato Maestro Oppure non sarebbe comunque mai andato in libreria. Senza Amazon, me lo sarei pubblicato e distribuito da solo, salvo magari poi constatare che il gioco non valeva la candela e allora non avrebbe avuto i successori che invece avrà. Grazie ad Amazon, piaccia o meno. Di nuovo: che avreste fatto al posto mio?

21 commenti

Archiviato in casi miei, Hip & Pop