Archivi del mese: marzo 2014

Audio Review n.350

Audio Review 350

È in edicola il numero 350 di “Audio Review”. Include mie recensioni degli ultimi album  di Bardo Pond, Tom Brosseau, Rosanne Cash, Excitements, Luscious Jackson, Marissa Nadler, Sepiatone, Silver Mt.Zion Memorial Orchestra, Sleepy Sun, Spain, Bruce Springsteen e Xiu Xiu e di recenti ristampe di Del Amitri, Hapshash And The Coloured Coat, Manu Chao e Neil Young. Nella rubrica del vinile ho scritto di Paul Simon e Bob Dylan.

4 commenti

Archiviato in riviste

Emozioni da poco (23): XTC

I Beatles della new wave. Sfortunatamente per loro, all’insaputa delle masse.

Cheap Thrills 5

2 commenti

Archiviato in archivi

Blow Up n.191

Blow Up

È in edicola il numero 191 di “Blow Up”.  Il mio principale contributo è stato la curatela (in collaborazione con Roberto Calabrò, Roberto Municchi, Fabio Polvani, Federico Savini e Marco Sideri) della rubrica 20 Essentials dedicata al grunge. Ho inoltre firmato recensioni e/o segnalazioni degli ultimi album di  Peter Buck, Baseball Project, Benmont Tench, Drive-By Truckers  e Blood Red Shoes e di recenti ristampe di Bob Mould, Dick Dale, Guitar Slim, Johnny Kidd & The Pirates, Michael Bloomfield e Shadows.

4 commenti

Archiviato in riviste

Suzanne Vega – Tales From The Realm Of The Queen Of Pentacles (Amanuensis Productions)

Suzanne Vega - Tales From The Realm Of The Queen Of Pentacles

Non hanno certo avuto a patire crisi di astinenza, ultimamente, i cultori di più stretta osservanza di Suzanne Vega: i ben quattro volumi pubblicati a cavallo fra il 2010 e il 2012 della collana “Close-Up” (rivisitazioni in chiave rigorosamente acustica di una parte cospicua del non foltissimo catalogo precedente) dovrebbero avere provveduto a saziarne ogni voglia. Per il resto del mondo “Tales From The Realm Of The Queen Of Pentacles” è l’album che infine interrompe un lungo silenzio, essendo trascorsi sette anni dacché questa artista quintessenzialmente newyorkese in tutto fuorché nei natali dava alle stampe una collezione di canzoni inedite. Non converrà però lamentarsene: magari ce ne fosse di più di gente così, che apre bocca solo quando sente di avere qualcosa di importante da dire. Magari ce ne fosse di più di gente che applica a sé un sì rigoroso controllo di qualità: uscirebbe un ventesimo dei dischi che escono – forse! – e vivremmo tutti meglio. “Tales From…” è appena l’ottavo lavoro in studio di Suzanne in qualcosa come ventinove anni. Dei sette precedenti non ne butti uno. Poteva deludere uno tanto atteso?

Per essere una che si muove nel solco di una ben precisa tradizione di cantautorato non soltanto tipicamente newyorkese ma tipicamente del Village, be’, non si può certo dire che alla signora sia mai difettata la varietà d’accenti. Sin dal formidabile uno-due – l’omonimo debutto dell’85, “Solitude Standing” dell’87 – che ne lanciava la carriera (spalancando nel contempo le porte dell’industria a tante altre ragazze di talento, da Tracy Chapman a Michelle Shocked) mai un suo album si è limitato a ricalcare il predecessore, ciascuno ha offerto almeno un piccolo scarto, un cambio di passo o di atmosfere. A maggior ragione lo si attendeva da quello che più si è fatto desiderare e che è il primo a raggiungere i negozi dopo che la serie di cui sopra ha apposto, in un racconto trentennale, un ideale “punto e a capo”. Ebbene: “Tales From The Realm Of The Queen Of Pentacles” stupisce scegliendo di non stupire, offrendo un repertorio di Suzanne Vega in qualche modo ciascuna già sentita. Una delusione, allora? Assolutamente no. Conquista egualmente da subito e più lo frequenti più ti incanta. In forza di una penna ispiratissima, di arrangiamenti di rara efficacia, di una voce che avvince come non mai, limpidezza che a oggi lo scorrere del tempo (non lo diresti dalle foto, ma il cinquantacinquesimo compleanno incombe) non ha minimamente offuscato. Giova anche la maneggevolezza dell’assieme: dieci canzoni, trentasei minuti e quaranta secondi. Molte candidabili a future antologie, da un’iniziale Crack In The Wall ricamata su scansione marziale di dolcezze ineffabili e accensioni quietamente stordenti alla ballata Horizon (There Is A Road), che suggella illuminandosi d’immenso quando avanza al proscenio la tromba di Alison Balsom. Amo in particolare il riffeggiare di I Never Wear White, il folkeggiare di Portrait Of The Knight Of Wands, il funkeggiare pigro di Laying On Hands. Più di tutto, una Don’t Uncork What You Can’t Contain che nel suo arabeggiare rimanda ai Page & Plant di “No Quarter”. Nel mentre campiona 5o Cent!

2 commenti

Archiviato in recensioni

Beck – Morning Phase (Capitol)

Beck - Morning Phase

Lunga, lunghissima al di là dei ventun’anni trascorsi la strada che da un singolo d’esordio memorabile sin dal titolo – MTV Makes Me Want To Smoke Crack – ha portato l’oggi quarantatreenne Beck Hansen a questo che è il suo dodicesimo album “vero”. Il più atteso in ogni senso, giacché quello prima (non contando naturalmente “Song Reader”: bizzarramente, provocatoriamente pubblicato solo in forma di spartiti) è una faccenda dell’ormai lontano 2008. Oltretutto (ma che resti fra me e voi): non è che “Modern Guilt” fosse proprio uno splendore di disco. Come del resto non lo erano stati “The Information” nel 2006 e “Guero” l’anno prima. Per quanto, sia chiaro, anche un Beck di non particolare brillantezza fa sempre e comunque mangiare la polvere a un buon 90%, o 99, della mostruosamente sovrabbondante produzione odierna. Attesissimo, “Morning Phase”, e al suo apparire subitaneo lo scrosciare di applausi. Nel coro plaudente giusto qualche timido distinguo. Dopo un mese che lo ascolto e lo riascolto mi schiero con quelli che qualche perplessità ce l’hanno. Ciò premesso: in ogni caso la sua cosa migliore dal 2002. Usciva allora “Sea Change” e fu l’ultima occasione in cui un autore che fino a quel punto del continuo détournement aveva fatto la caratteristica principe della sua cifra artistica riuscì a sorprendere sul serio. Era il suo “Blood On The Tracks”, racconto a cuore aperto della fine di un rapporto sentimentale, e dall’ironia post-moderna cui ci si era abituati si passava con un triplo salto mortale a un cantautorato confidenziale di taglio decisamente più classico. Opera dai toni sobri e dalle emozioni grandi. Per la prima volta il nostro uomo parlava al sentimento più che all’intelletto, lasciandoci disarmati.

Dodici anni dopo, “Morning Phase” è sorta di seconda puntata e ha un bel provare a negarlo (dopo averne ammesso esplicitamente l’evidenza, addirittura nel comunicato stampa) l’autore. Molti dei musicisti presenti in quello tornano in questo, analoghi paiono colori e atmosfere e ascoltare Morning, il brano che dopo la solenne intro orchestrale di Cycle apre effettivamente il lavoro, e tornare con la memoria a quello che fungeva da incipit a “Sea Change”, The Golden Age, è un tutt’uno. E dunque perché questa sottile insoddisfazione? Questo senso come di disagio che più la frequentazione si prolunga e più monta. È che passaggio dopo passaggio pare sempre maggiormente l’album “della maturità” di Beck, quello di una pacificazione che si adagia in (pur dorata) routine. È che un tempo le regole si sovvertivano, grammatica e vocabolario si mischiavano e oggi le si ossequia. Nella sua media età l’artista pare arrendersi alla medietà e opta per la calligrafia elegante, per una malinconia compiaciuta e artefatta ove “Sea Change” vibrava di vita vera. Quello che ci restano sono raffinati esercizi di estetica: il Nick Drake di “Bryter Layter” che incrocia i Crosby, Stills & Nash primevi di Heart Is A Drum (laddove il Neil Young di “Harvest” fa capolino in Country Down), il post-bluegrass di Say Goodbye, i Fleet Foxes con vista sul Laurel Canyon di Blue Moon, la potenziale Björk che corteggia i Radiohead di Wave, una Turn Away in cui uno dei Wilson (più Dennis che Brian) prova a riscrivere Simon & Garfunkel. Da quasi chiunque altro sarebbe tanta roba. Non da Beck, ma converrà forse rassegnarsi e, accontentandosi, rimediare ancora qualche gioia spicciola.

2 commenti

Archiviato in recensioni

Riciclando il blues (e non solo): l’esploratore Taj Mahal

Taj Mahal - Recycling The Blues & Other Related Stuff

Sessantacinque anni compiuti da poco, Henry Saint Clair Fredericks, in arte Taj Mahal, continua a essere mosso dalla curiosità che diciassettenne lo indusse, in un’epoca in cui l’interesse per le musiche etniche era roba da ricercatori universitari, a immergersi nello studio delle radici della cultura afroamericana. E, già padrone della chitarra nonostante ne avesse imbracciata una appena due anni prima, a cominciare a misurarsi con qualunque strumento a corda gli capitasse fra le mani. All’altezza del 1964 era una piccola star – unico nero – della scena folk di Boston e da lì a breve, trasferitosi in California, avrebbe stretto con Ry Cooder uno storico sodalizio chiamato Rising Sons. Ozioso ma intrigante esercizio interrogarsi su cosa avrebbero potuto combinare assieme se le loro strade non si fossero separate nel ’67. Resta la constatazione di quanto per molti versi i percorsi si siano somigliati e più che mai da un tre lustri in qua, con Cooder impegnato in proficue gite prima nel Mali e poi a Cuba e dal canto suo il nostro uomo intento a mischiare il sempiterno blues con il calypso come con il raga, con la tradizione malindi e con la musica hawaiiana. Due anni fa un soggiorno a Zanzibar fruttava lo strepitoso “Mkutano” ed erano in molti a segnalarlo come la sua cosa migliore – eccettuata la collaborazione con Toumani Diabaté di “Kulanjan”, AD 1999 – dalla lontanissima trilogia che ne battezzò la carriera discografica fra il ’68 e il ’70. Al limite da “Recycling The Blues & Other Related Stuff”, del 1972, importante in prospettiva per il suo mettere un punto a capo. Nel 1974 “Mo’ Roots” – altro gran bell’album e insomma del Nostro tocca averne sei o sette – si confronterà con cajun e reggae.

Il mio consiglio, nel malaugurato caso Taj Mahal non sia rappresentato nella vostra collezione, è di procedere in ordine d’uscita. Per primo l’omonimo debutto, copertina facile a ricordarsi, con il nostro omone assiso, chitarra in braccio, dinnanzi a una casa colonica, e in scaletta tre brani di Sleepy John Estes e uno a testa di Blind Willie McTell e Robert Johnson: lavoro nel solco di una tradizione ma non per questo museale, freschissimo anzi nelle interpretazioni. Per secondo “The Natch’l Blues”, ove Memphis incontra Chicago, i suoni si raddensano, i volumi si alzano. Toccherà quindi (ma se, sbagliando, voleste averne uno solo è quello da catturare) al monumentale “Giant Step/De Ole Folks At Home”. In origine un doppio e più che altro due distinti album raccolti in un’unica confezione: il primo elettrico, una passeggiata di pigra eleganza in un repertorio diviso fra composizioni autografe e cover che spaziano da Carole King a Leadbelly, da Buffy St. Marie a The Band; piacevolissimo e tuttavia il capolavoro è il secondo disco, acustico e registrato in solitudine, con giusto una chitarra o un banjo ad accompagnare una voce che talvolta fa del tutto da sola. Piaciuto? Non potete allora fare a meno di “Recycling The Blues & Other Related Stuff”.

Disponibile in vinile in un’impeccabile stampa Pure Pleasure, pur’esso nettamente diviso in due metà ma stavolta le facciate sono soltanto due. La prima proviene da un concerto al Winterland di San Francisco e impressiona come il nostro eroe domini il palco. A permanere nel ricordo è però il lato inciso in studio, ove ciascun brano è una gemma, le due collaborazioni con le Pointer Sisters di Sweet Home Chicago (girata in gospel) e Texas Woman Blues incastonate fra l’umoristico caracollare con tanto di tuba di Cakewalk Into Town e una Gitano Negra profumata di flamenco. Potrà sembrare, al di là di ogni giudizio artistico, che registrazioni siffatte dicano in definitiva poco sotto il profilo tecnico all’audiofilo. Invece no. Il calore e la naturalezza delle voci sono fuori dal comune, le corde rintoccano in maniera tale che ti pare che ad allungare le mani potresti toccare il legno.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.281, luglio/agosto 2007.

Lascia un commento

Archiviato in archivi

Emozioni da poco (22): Public Image Ltd

La sorprendente vita post-Pistols di Johnny Lydon fu Rotten.  Il post-punk che già si immaginava post-rock in un’irripetibile stagione all’inferno.

Cheap Thrills 4

1 Commento

Archiviato in archivi

Sarah Vaughan in alta fedeltà

Sarah Vaughan In Hi-Fi

Io li adoro questi dettagli: sul davanti di copertina in alto a destra la sigla “Lp”, una primizia per il tempo e stiamo parlando dei primissimi anni ’50, inserita in un cerchio a sua volta inserito in un quadrato sormontato da una scritta che promette “a high fidelity recording”. Ove sul retro si precisa che la sigla di cui sopra è “un marchio esclusivo della Columbia Records”. Il meglio sono, sempre sul retro di questo stupendo “Sarah Vaughan In Hi-Fi”, i consigli per l’acquirente che occupano una fascia in basso. Si va dall’abbastanza ovvio – “non usate una puntina già adoperata oltre il periodo consigliato (vedi tabella a destra)” – all’ovvissimo: “la superficie del disco deve essere tenuta pulita” e un impagabile “il piatto deve essere posizionato in piano”. Si avvisa che nessuna puntina è eterna e che eterni sono piuttosto i danni che uno stilo usurato può causare a una preziosa collezione di dischi (preziosa sul serio: chi si lamenta del prezzo dei CD dovrebbe andare a controllare quanto costava ovunque, in termini reali, la musica nel secondo dopoguerra e da lì fino a metà ’70; avrebbe una grossa sorpresa). E naturalmente si invita a chiedere al proprio rivenditore “la nuova puntina Columbia” (andrà bene uguale la mia Shure V 15 Type IV?), “progettata, testata e garantita dalla Columbia Records”. Vi interessa la tabella con le durate degli stili? Se in osmio (!) non bisogna superare le venti ore, se di zaffiro le sessantacinque, ove il diamante garantisce invece ben ottocento ore di ascolti in alta fedeltà. Magari oggi qualcuna (non troppe) in più.

Un peccato allora che, prima ancora di togliere il cellophane allo sfizioso quanto costoso oggetto (due spiccioli meno di cinquanta euro se lo acquistate direttamente dall’importatore, Sound And Music; presumibilmente qualcosa di più nei negozi e si arriva così al quadruplo del corrispondente CD), l’illusione di maneggiare un reperto di epoca sia evidenziata come tale dall’indicazione “(alt. take)” che campeggia nei crediti vicino a quasi tutte le tracce incluse sul secondo dei due pesanti vinili. Per poi venire completamente cancellata all’apertura della copertina da un congruo corredo di note datate 1996. D’altronde questa volta per i signori della Pure Pleasure essere filologi fino in fondo avrebbe voluto dire non servire bene l’appassionato, che apprezzerà certamente il trovarsi fra le mani un catalogo comprendente ventuno articoli (certe versioni alternative sono alternative sul serio) e non gli otto di una primissima stampa che la Columbia pubblicava nel 1950 con un altro titolo, “Sarah Vaughan” e basta, e in formato dieci pollici. Erano gli otto brani incisi il 18 e il 19 maggio di quell’anno dalla allora venticinquenne cantante con un ottetto favoloso ad accompagnarla: Miles Davis alla tromba, Benny Green al trombone, Budd Johnson al sax tenore, Tony Scott al clarinetto, Jimmy Jones al piano, Freddie Green alla chitarra, Billy “Pickles” Taylor al contrabbasso e J.C. Heard alla batteria. Curiosamente in questa edizione Davis non era però accreditato, c’è chi dice perché sotto contratto per la Capitol, chi perché si equivocò pensando che il trombettista fosse George Treadwell, al tempo marito e manager della Vaughan. Lo sarà invece in “Sarah Vaughan In Hi-Fi”, che del primo dischetto era una versione espansa in diametro, portato ai dodici pollici che stavano diventando usuali, e in un programma che veniva rimpolpato con quattro registrazioni effettuate in altre date, una con un’orchestrina jazz di una dozzina di elementi, le restanti con formazioni orchestrali più ampie e operanti di norma in area pop. Che equivoco da parte della Columbia che la ragazza andasse sfruttata soprattutto in quell’ambito! Fra il 1949 e il 1953 pubblicava facciata dopo facciata a 78 giri con un repertorio certamente di classe ma leggero e in tale perimetro si autocircoscriveranno pure gli altri 33 giri (un formato fresco di introduzione e su cui l’etichetta puntava molto, cercando però nel contempo di tenere salda la presa sul mercato dei singoli) griffati dal suddetto marchio; “After Hours” e “Linger Awhile” i più celebri. Troppo tardi – era il 1956 e l’artista era passata già da un paio di anni alla Mercury, dove in ogni caso continuerà ad alternare pop e jazz, magari con qualche attenzione in più per il secondo – si cercava di porre rimedio con “In Hi-Fi”. Album con il senno di poi classico e tanto di più nella ristampa – ulteriormente allargata – in digitale del ’96 per la collana Legacy di cui questo doppio Pure Pleasure è il corrispettivo in plastica nera e lucente.

Album grazioso laddove sono arrangiamenti da musical a spadroneggiare, in Pinky (ove però la voce è fuori da ogni schema), nelle romantiche Spring Will Be A Little Late This Year e It’s All In The Mind, in un’irruenta, maliziosa e da big band quasi fuori tempo massimo Ooh, What-cha Doin’ To Me. Ma superlativo nelle predominanti pieghe jazz: nella ballata generosa di sottili variazioni melodiche East Of The Sun come in una swingante Nice Work If You Can Get It, sospinta verso vette paradisiache da un assolo del divino Miles, in una Ain’t Misbehavin’ resa tantopiù vivace dal’estasiante susseguirsi di uscite alla ribalta della sezione fiati al gran completo piuttosto che negli intarsi di chitarra che incrementano la luccicanza di una felpata Come Rain Or Come Shine. Nella miniatura di duetto fra Davis e Scott in coda a una dolcissima It Might As Well Be Spring. Quanto all’“alta fedeltà” di queste incisioni consideratela ovviamente tale in rapporto agli standard di oltre mezzo secolo fa. Regolatevi, allora.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.277, marzo 2007.

1 Commento

Archiviato in archivi

Sull’artista di nuovo conosciuto come Prince

Un po’ anche per emendarmi dalle emerite fesserie scritte su di lui in gioventù mi è poi capitato non una ma ben due volte di firmare autentiche apologie, di robusta consistenza, dell’artista un tempo noto come Prince e oggi invece pure. Una appariva su “Blow Up” ed è stata poi ripresa nel volume Scritti nell’anima. Da lì a qualche anno firmerò un altro pezzo – un po’ meno lungo e dettagliato – sulle pagine del “Mucchio”. La scusa era un 2006 che prometteva di essere l’anno del grande e definitivo ritorno dell’uomo nato Roger Nelson. Arrivati al 2014 siamo punto e a capo: si attendono nuove eccitanti da costui e per intanto “Mojo” sul numero di aprile lo ha messo in copertina.

Prince 1

Griffato Universal, esordio per quella casa e secondo consecutivo album di Prince a uscire per una major dalla fine del volontario esilio indipendente, “3121” sarà nei negozi dal 21 marzo. Mentre andiamo in stampa sono noti solo la lista dei titoli, dodici, e la copertina: orrenda. Visti certi precedenti, dovrebbe portar bene. E peparatevi dunque a una primavera in cui il signor Roger Nelson potrebbe essere ovunque come non accadeva da quattordici anni, vale a dire dacché un mastodonte di disco variamente chiamato – “Symbol”, “The Love Symbol Album”, “Prince And The New Power Generation” – strappava ovazioni alla critica e non sarebbe più accaduto, in un decennio in transito dal dileggio all’indifferenza. Se non da diciassette, ossia da quando la sciatta colonna sonora di Batman firmata dal Nostro (abbastanza brutta da ritrovarsi nella lista dei “100 album da evitare” di “Extra”) lo portava per l’ultima volta al numero uno della classifica statunitense. Se non da ventidue, cioè da quel 1984 che per Prince era tutt’altro che un orwelliano incubo, siccome il suo “Purple Rain” soggiornava in cima alla suddetta graduatoria per ventiquattro settimane, nel mentre due singoli tratti da quella pietra miliare andavano pur’essi al primo posto e un terzo si fermava uno scalino sotto. Fatto è che in data imprecisata (era previsto per il 14 marzo ma è stato rinviato) vedrà la luce per Warner un rimasterizzato doppio antologico, “Ultimate” (figurarsi!), che promette di fare scoprire a chi magari ancora non era nato quando “Purple Rain” era dappertutto uno degli artisti più geniali che rock e musica nera – insieme – ricordino. Sia il benvenuto, anche se la scaletta è discutibile e con quello che di fondamentale è rimasto fuori si potrebbe confezionare un altro doppio altrettanto bello o addirittura di più. Suggella in ogni caso una vicenda di resurrezione in primo luogo artistica, quella del Prince degli anni 2000, che fa concorrenza al Neil Young di “Freedom” e al Lou Reed di “New York”, ai Rolling Stones di “A Bigger Bang” e al Paul McCartney di “Chaos And Creation In The Backyard”. Per non diventare blasfemo azzardando antecedenti biblici, mi limito ad affermare che per scovarne un’altra ancora più sensazionale tocca rivolgersi al Miles Davis colto da afasia dopo “On The Corner”, con la differenza che al contrario Prince non ha mai smesso, anche quando quasi più nessuno gli dava retta, di essere un caso clinico, terminale di logorrea.

A proposito dell’Uomo con la Tromba: che tragedia che non si siano mai concretizzati due album, quello che fantasticò di realizzare con Jimi Hendrix e giustappunto quello con Prince di cui vagamente si chiacchierò. Per sopravvenute morti di uno dei due aspiranti sodali. Minuscola quanto sublime consolazione il fatto che in un disco di Prince, “Sign O’ The Times”, dell’87, Davis ci sia sebbene non accreditato, essendo sua la tromba che guizza e ricama nella lenta e supersexy Adore. Il titolare dell’opera lo aveva contattato mandandogli un biglietto in cui, con la modestia che da sempre gli è usuale, si firmava “Dio”.

Ma mi sa che sto già divagando. È che sono così tante le cose che ha combinato Prince e così multiforme, moderno Proteo la sua personalità che non si sa da dove partire per affrontarlo e, non appena inizi un discorso, ti scappano dieci subordinate. Perfettamente in tema con il personaggio, ti perdi. Ebbi a scriverne diffusamente su altre colonne tempo fa e lì cominciai da Kiss, la canzone che nel 1986 mi persuase di averlo in precedenza – distratto dalle pacchiane apparenze e dalla sovraesposizione mediatica – enormemente sottovalutato. Era uscito da un po’ “The Rainbow Children” ed era con quel lavoro che l’uomo che non da molto aveva ripreso a farsi chiamare Prince ricatturava  me e tanti altri rinascendo, paradossalmente per un ex-campione di vendite, come nome “di culto”. Frutto del passaparola la fama guadagnata piano piano da un album reperibile dapprincipio, prima che un marchio oscuro quale Redline Entertainment gli procurasse qualche distribuzione, soltanto in Internet, siglato NPG, l’etichetta personale del nostro eroe. Tutto sommato modesti i riscontri commerciali, nondimeno bastanti a fare drizzare le antenne alla Columbia che difatti da lì a tre anni, nel 2004, pubblicherà il “vero” successore in studio, “Musicology”. Avendo nel frattempo Mister Nelson licenziato una quadrilogia live da appiccicare al muro i pochi che l’hanno frequentata. Ecco, prima che sui dischi storici e storicizzati e finiti nelle enciclopedie e in innumerevoli elenchi del “meglio di”, vorrei concentrarmi su quelli che hanno segnato il nuovo secolo. Procedendo à rebours.

“Musicology”, allora. Una meraviglia di compromesso giacché è un album in cui Prince rinuncia alle sperimentazioni – felici, felicissime a volte e talaltre scombiccherate mattane – delle ultime cose che rifilò alla Warner e dell’altalenante produzione NPG, per concentrarsi di nuovo sulla forma “canzone”. Con eccellenti risultati: a partire dalla traccia che inaugura e intitola, tastiere petulantemente ’80 innestate/innescate in un superbo funk di pura scuola James Brown; proseguendo con il gusto da hip hop primigenio di Illusion, Coma, Pimp & Circumstance, la squisita seduzione soul (dalle parti di Purple Rain) di Call My Name, il rotolante basso wave e la chitarra hard di Cinnamon Girl, il blueseggiare di On The Couch. Non male per uno affacciatosi alla ribalta un abbondante quarto di secolo prima e quanto è bastato a fare ricordare, in un momento in cui in quanto a influenza l’uomo di Minneapolis è centrale persino più di quanto non fosse nella sua Età dell’Oro, visto il peso degli eredi (D’Angelo, OutKast, Felix Da Housecat, Cody ChesnuTT, N.E.R.D., per non citarne che alcuni), a chi appartenga il brevetto. Di nuovo Maestro e non vale lamentarsi (sono due lati di una medaglia, l’uno non brilla più dell’altro) che a “Musicology” manchino i vertiginosi guizzi e quel frenetico, a momenti zorniano rimbalzare fra generi all’interno di uno stesso brano di “The Rainbow Children”, esemplare in tal senso pure lì il pezzo primo e omonimo, un incrocio fra i Booker T. & The MGs di Green Onions e il Dave Brubeck di Time Out, con arzigogoli vocali alla Manhattan Transfer, uno zompettante sax che distilla errebì e pare King Curtis e chitarre incredibilmente indecise fra Hendrix, Santana e i Black Sabbath. A raccontarlo un insensato guazzabuglio, a gustarselo una roba che di continuo ti sorprendi ad applaudire. Come Muse 2 The Pharaoh che fra gospel e rap lancia un ponte pop-jazz, o Digital Garden che frulla assieme exotica e hard (Last December mischia i DNA di Marvin Gaye e Ozzy Osbourne, ascoltare per credere), o ancora Everywhere, che è funk-latin-jazz come non se ne udiva dai tempi delle Fania All-Stars. Siete andati a indagare e avete scoperto di desiderarne ancora di questa follia con un metodo ferreo come cuore pulsante? Accomodatevi,  “One Nite Alone” vi attende.

Sono quattro CD, un triplo in cofanetto (non proprio economico il prezzo), un clandestino singolo riservato – credo – ai membri del Fan Club. L’indispensabile – sì, ho scritto proprio indispensabile, pochi spettacoli documentati nella storia memorabili come questo e dire che le canzoni famose sono una minoranza: When U Were Mine, Raspberry Beret, Adore, Diamonds & Pearls, Nothing Compares 2 U, Sometimes It Snows In April – è il concerto immortalato sui primi due dischetti. È come se sullo stesso palco ci fossero contemporaneamente Duke Ellington, il Miles Davis elettrico, i Parliament, Sly & The Family Stone, Jimi Hendrix, Curtis Mayfield, Gil Scott-Heron e Frank Zappa, con il non ininfluente dettaglio che Zappa a swingare non è mai stato capace e Prince invece sì. Letteralmente inenarrabile, mentre a spiegare il terzo compact, “The Aftershow: It Ain’t Over!”, bastano due parole, una è “James” e l’altra è “Brown”. Un’irrefrenabile bestia funk che vi lascerà stremati e pronti, se vi riesce di procurarvelo, per le deliziose smancerie di un – titolo programmatico – “Solo Piano And Voice”. Farò una figura da estremista, ma al neofita totale che mi chiedesse da quale articolo del corposo catalogo iniziare per farsi un’idea di chi sia Prince non consiglierei uno fra la mezza dozzina di conclamati capolavori – “1999”, “Purple Rain”, “Parade”, “Sign O’ The Times”, “Diamonds And Pearls”, “Prince And The New Power Generation” – bensì proprio “One Nite Alone… Live!”, che in un certo qual modo tutti li racchiude. Non potrà poi fare a meno di catturare i classici e saltabecchi allora liberamente lungo la linea temporale, oppure segua l’ordine di uscita, magari facendosi guidare dalla succinta storia – più discografia commentata – a seguire.

(Apro una parentesi per ammonire gli entusiasti a essere cauti nell’approccio ai tanti altri materiali indie del Nostro, eccentrici all’estremo, si tratti del rock flamencato di “The Truth” o del lunare post-jazz di “Xpectation” e di “N.E.W.S.”)

Prince 2

Come potete leggere su ogni enciclopedia dabbene, Prince Roger Nelson nasce a Minneapolis il 7 giugno 1958. Non è un ininfluente dettaglio segnalare il luogo dove vede la luce, poiché è quella una delle città degli USA in cui la presenza di afroamericani è tanto ridotta da non giustificare l’esistenza di una stazione radio a essi specificamente indirizzata. È a motivo di ciò che il ragazzino viene su ascoltando sì gospel, soul e jazz (John Coltrane il primo eroe) ma soprattutto cantautorato bianco (Joni Mitchell gli è particolarmente cara) e tanto rock (Carlos Santana ed Eric Clapton chitarristi a suo stesso dire più influenti che non Jimi Hendrix). Bisogna fidarsi delle biografie che descrivono ciò nonostante come inequivocabilmente black la musica dei primi gruppi che allestisce ancora impubere (Grand Central, Champagne, 94th East i nomi ammantati di mito), visto che toccare con orecchio non si può (forse qualche traccia – gli ultimi incisero dei demo – è finita su questo o quel bootleg ma personalmente non ho mai avuto occasione di ascoltarne, né fremo dalla voglia). Di rock se ne scova ad ogni buon conto pochissimo e del meno pregiato, giusto delle scale di chitarra burina, in quel “For You” con il quale nel 1978 esordisce per la Warner, che ha vinto una vera e propria asta con A&M e Columbia più che con i soldi con la promessa di un completo controllo artistico, concessione inaudita per uno sconosciuto debuttante. Arduo capire all’ascolto cosa abbiano scorto in quel ventenne mulatto minuto ed efebico. Non più di un paio di dettagli annunciano ciò che sarà: la scritta “Produced, arranged, composed and performed by Prince” (il Nostro si circonderà sempre di musicisti notevoli sul palco ma in studio spesso preferirà fare da solo); la foto interna che ahilui immortala l’artista trino e nudo, una chitarra a mascherare le vergogne, immagine di per sé ridicola ma è un anticipo di sessualità tanto ambigua quanto disinvoltamente esibita. È certo meno… indimenticabile la musica, funk troppo flemmatico, soul da boudoir e a peggiorare il tutto le sonorità sintetiche tipiche dell’epoca. Fatene a meno e saltate altresì a pie’ pari il successivo “Prince”, che è appena meglio e di cui un paio di episodi si possono salvare: una I Feel For You che per scoprire quanto sia magnifica bisognerà aspettare la versione di Chaka Khan e il secco funk-rock Sexy Dancer. Epperò: con il fondamentale supporto di un’intensa attività concertistica, l’esordio vende centomila copie, il seguito addirittura un milione, il ben più maturo “Dirty Mind” poco di meno. Decisamente soddisfatti, quelli della Warner rinnovano il contratto. Ancor più dei promettenti riscontri mercantili a fare loro intuire di essere seduti su una miniera d’oro sono stati due brani: quello che intitola il terzo LP con ricordi di Sly Stone e presagi dei Living Colour e una When You Were Mine, sempre sul quel 33, dal riffeggiare invincibile. Hanno capito di trovarsi fra le mani il primo nero in grado di conquistare la nazione rock da Hendrix in avanti e perseverano.

Dovette essere una grande emozione assistere allora allo sbocciare tanto rigoglioso di un talento e anche ad ascoltarli oggi in successione dopo le prime zoppicanti prove “Controversy” (1981) e il doppio (un singolo compact è bastato in seguito a contenerlo) “1999” (di due anni dopo) colpiscono per lo stacco qualitativo rispetto ai predecessori: rimarchevole nel primo, stilisticamente compreso via una Let’s Work degna dei Famous Flames e una rockista Sexuality fra gli estremi rappresentati da una Do Me, Baby da Isaac Hayes voglioso di coccole e una Annie Christian palesemente influenzata da certa new wave; incommensurabile nel secondo, che annerisce i Cars in Little Red Corvette e in Let’s Pretend We’re Married, gli Human League in Automatic e i Devo in Something In The Water, non dimenticandosi nel frattempo né di funkeggiare fino al delirio, come accade per larga parte della cospicua scaletta e in particolare (guarda caso) in Delirious, né di far colare miele e sperma nei solchi ed ecco International Lover, sigillo che più ammiccante non si potrebbe. “1999” regala a Prince la copertina di “Rolling Stone” e, a proposito di Pietre Rotolanti, nell’82 il nostro ometto ha aperto alcune date di un tour USA di Jagger e soci: la prima investitura, anche se ci vorrà ancora un po’ perché l’accettazione da parte della platea bianca sia completa.

Chi non c’era non può lontanamente immaginare quanto fosse onnipresente nell’84 “Purple Rain”, colonna sonora di un film men che modesto (null’altro che una sfilata di stereotipi da rock movie) e a dispetto di ciò pur’esso trionfatore al botteghino (settanta milioni di dollari nei soli Stati Uniti ed era costato quanto un videoclip). Il disco, che sta in piedi benissimo senza immagini, è un indiscutibile capolavoro, una “West Side Story” negra idealmente scritta in collaborazione da Marvin Gaye e George Clinton, Stevie Wonder e Jimi Hendrix facendo trasparire ascolti dall’hard al techno-pop e divertendosi occasionalmente a sovvertire ancora di più le regole della black music, ad esempio rinunciando al basso in una When Doves Cry che fu la prima canzone a spingere l’album in classifica e saranno qualcosa come dieci milioni le copie totalizzate. Questo è quanto penso oggi. All’epoca, e lo rammento con imbarazzo, dissi e scrissi emerite sciocchezze che il fastidio che finisce per indurre pure il più pregiato degli album quando lo  senti ovunque non può giustificare. Una volta di più vado a Canossa. A parte lo stratosferico livello dei materiali in questione avrebbe dovuto farmi squillare un campanello nella capa, prima dell’epifania di Kiss, la mossa commercialmente suicida, e difatti per niente apprezzata ai piani alti della casa discografica, di dare un seguito a un simile campionissimo di vendite con un LP ai suoi antipodi. Non fosse bastato, spedito nei negozi appena nove mesi dopo. Continuo a ritenere che “Around The World In A Day” – una prima facciata di pura psichedelia con influssi di jazz e persino di cameristica, una seconda che cede a qualche tentazione hard e vaghe parentele con i lavori prima le fa scorgere – non sia un album totalmente riuscito. Pochi “fallimenti” sono stati tuttavia così grandiosi e da applaudire, applaudire, applaudire. Per inciso: quadruplo platino negli Stati Uniti, non male per un disastro annunciato. È con “Parade”, che esce nell’aprile 1986 e riesce nel miracolo di unire il meglio degli immediati predecessori nel mentre li scarnifica, che la parabola commerciale del Nostro si inverte, benché le vendite si contino ancora in milioni di esemplari e l’alieno, minimale funk di Kiss vada al numero uno. Ma al contrario che nel caso di “Purple Rain” il film cui è collegato, Under A Cherry Moon, è spernacchiato dalla critica e ignorato dal pubblico, un flop colossale, e quando Prince se ne salta fuori, con i consueti tempi ravvicinatissimi, con un album triplo alla Warner – gli ingrati! – pongono il veto. Il progettato “Crystal Ball” diventa nel marzo 1987 il doppio “Sign O’ The Times” e forse è andata bene così, poiché pare perfetto e dunque non perfettibile, variegato ma coeso e coerente come senza i tagli non sarebbe magari stato. C’è una Kiss più veloce (Play In The Sunshine), c’è della electro (Housequake, Hot Thing), c’è del blues abbastanza canonico (Slow Love) e dell’altro a bagno nell’LSD (The Cross), ci sono una strizzata d’occhio a Barry White (If I Was Your Girlfriend), una ai Parliament (It’s Gonna Be A Beautiful Night), un lento da urlo (la già menzionata Adore). Ottanta minuti e che butti via? Niente.

Fra qualche rara gemma (le più luccicanti la ballata Anna  Stesia e una Dance On dal titolo programmatico) molto vi è viceversa di francamente dispensabile in “Lovesexy”, messo insieme in fretta e furia all’indomani di un abortito (e superpiratato fino alla pubblicazione ufficiale diversi anni dopo) “The Black Album”, e nelle colonne sonore “Batman” e “Graffiti Bridge”. Sicché sembra miracoloso il ritorno in quota nel settembre 1991 con “Diamonds And Pearls”, che aggiorna il funky-soul-rock psichedelico del nostro uomo all’era dell’hip hop e convince appieno sia nel complesso che con una manciata di titoli da antologia, dall’errebì a rotta di collo di Thunder a una canzone omonima languidissima, dal jazzetto da balera di Strollin’ al rap prima maniera di Jughead e Push, dal funk-blues di Willing And Able agli scampoli go-go di Get Off. Osserva qualcuno che, incorporando nella sua musica elementi di quel hip hop a lungo guardato con diffidenza, Prince per la prima volta insegue i tempi invece di provare ad anticiparli. Vero, ma di che lamentarsi di fronte all’ispirazione ritrovata?  Da lì a poco più di un anno “Prince And The New Power Generation” confermerà quanto sia felice il momento a livello di scrittura sintetizzando in un’ora e un quarto quindici anni di Prince e trenta di musica nera, fra rap mozzafiato e archetipi di modern soul, musical in sedicesimo ed elegantissime quanto vigorose ballate, riffarama e assoli rockisti, organi e cori da chiesa e schizzi di jazz e scratching e sitar e quant’altro. Chi potrebbe immaginarlo, e dire che gli indizi al riguardo si sono sprecati, che sia alle viste una crisi drammatica?

Perenne lo stato di tensione con la Warner sin dacché “Crystal Ball” è stato cassato, si giunge alla rottura quando nel febbraio 1994 la casa discografica decide di chiudere la succursale, Paisley Park, che al Nostro era stato concesso di aprire come ringraziamento per i favolosi incassi di “Purple Rain”. Prince – che bizzarramente ha adottato a pseudonimo un simbolo che sintetizza in sé l’essenza del maschile e del femminile, dimenticandosi però di rendere noto come si dovrebbe pronunciare – la prende malissimo, fonda un’etichetta questa volta tutta sua, la succitata NPG, e come prima uscita dà alle stampe una canzone che la Warner ha rifiutato, The Most Beautiful Girl In The World, cogliendo quello che resterà l’ultimo successo vero da lì a “Musicology”. Bella rivincita che suscita una simpatia prontamente azzerata dalla successione di album che The Artist Formerly Known As Prince consegna a un’etichetta dai cui lacciuoli non vede l’ora di liberarsi: il pornografico “Come”, un alquanto raffazzonato “The Gold Experience”, un “Chaos And Disorder” su cui la dice lunga il titolo. La faida approda all’unica conclusione logica possibile, il divorzio, nel 1996. Peccato che Roger Nelson approfitti della libertà riconquistata per dare il colpo di grazia a quanto resta delle un tempo oceaniche schiere di fans rifilando loro il triplo… triplo!… “Emancipation”, che qualcosa di buono e financo di ottimo contiene ma confuso fra allucinazioni, seghe e ciarpame.

Ulteriore indizio cronache che riferiscono di una vita (tolti i concerti) da recluso in stile Howard Hughes, si direbbe che la megalomania che da sempre caratterizza Prince abbia definitivamente preso il sopravvento e costui non sia più in grado di avere un dialogo sensato con il mondo – musicale e non – che lo circonda, abitandone uno suo proprio. Sono gli anni dei riordini di archivi e dei dischi venduti solo in Internet, ai fedelissimi. Prince sembra essersi irrimediabilmente perso. Ma si ritroverà, eccome se si ritroverà.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.621, aprile 2006.

7 commenti

Archiviato in archivi

Memorabilia (3)

Cosa non si ritrova aprendo certi scatoloni! Ad esempio questa lettera che Daniela Federico mi scriveva dieci anni fa e della quale mi ero completamente dimenticato. Sia chiaro: l’allora e tuttora amministratrice della Stemax aveva assolutamente ragione a riprendermi e a farlo duramente. Nessuna discussione al riguardo. Mi limito solo a osservare che, avesse applicato a se stessa la medesima inflessibilità multandosi di 75 euro al giorno per ogni giorno di ritardo rispetto a un saldo in termini ragionevoli del mio lavoro (diciamo a due mesi dalla pubblicazione, che vuol pur sempre dire a ben tre dalla consegna), io avrei certamente finito da un pezzo di pagare il mutuo. Magari mi sarei persino comprato un casale rock, per quanto non di lusso come il vero e unico casale rock. E senza appropriarmi indebitamente di un solo euro.

Lettera Daniela Federico

24 commenti

Archiviato in casi miei, Stemax