Archivi del mese: febbraio 2014

Blow Up n.190

Blow Up

Il numero 190 di “Blow Up” è da oggi in edicola.

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28 febbraio 2014 · 11:28

La macumba psych degli Os Mutantes

Os Mutantes

Ha origini lontane e non musicali la rivoluzione che dal 1967 e per un triennio (ma le sue ombre si allungano sul presente e l’influenza sul rock pure: citofonare Beck per informazioni) mette a soqquadro il pop brasiliano: nel Manifesto antropofago che Oswald de Andrade pubblica nel 1928 e in cui teorizza un cannibalismo “artistico”, vale a dire l’ingestione da parte della cultura autoctona dell’influenza euro-statunitense e per tramite di questo assorbimento la nascita di un qualcosa di terzo, eppure pur sempre (più che mai) brasiliano. I tropicalisti ne colgono la lezione rivendicando la proprietà di samba e bossanova nel mentre le infiltrano di beat e psichedelia, funk e avanguardia, musiche da circo e da cinema e da altri angoli di Terzo Mondo. Ray Charles incontra Jobim e insieme rifanno “Sgt. Pepper’s” o all’incirca, giacché più cerchi di metterlo in un angolo, il tropicalismo, e più si rivela sfuggente e inclassificabile, nello stesso tempo colmo di ironia e in qualche strana maniera innocente. Come il Bob Dylan che qualche tempo prima aveva elettrificato il suo folk,  Caetano Veloso e Gilberto Gil, Jorge Ben e Tom Zé, Gal Costa e Milton Nascimento non vennero accolti bene, tutt’altro, accusati da sinistra di essersi venduti all’imperialismo e quanto alla destra, che tornava al potere grazie a un colpo di stato, alcuni persino li imprigionò, per poi esiliarli. Pare impossibile oggi che brani così scanzonati (ma sempre di grande spessore) abbiano suscitato repulsione e addirittura odio, quando è un’incredibile gioia di vivere ad animarli. Per un’ideale introduzione al fenomeno, si punti la raccolta su Soul Jazz “Tropicália” (corredata oltretutto da un corposissimo libretto) di cui qualche mese fa avete potuto leggere, su queste stesse pagine, mirabilie. Lì il primo brano è Bat Macumba, nella versione di Gil di poco antecedente quella degli Os Mutantes, spesso suoi accompagnatori all’epoca. Il secondo è A Minha Menina, di Ben e nella versione, stuprata da un fuzz che fa delirante il grazioso folk-beat di partenza, degli Os Mutantes stessi.

Da dove partire per dire di costoro? Magari da un aneddoto, da un Kurt Cobain che nel 1993, alla vigilia di un tour brasiliano, rimaneva a tal punto colpito dall’ascolto dei loro album da scrivere al bassista e tastierista Arnaldo Baptista supplicandolo di fargli l’onore di rimettere insieme il gruppo giusto per aprire quei concerti. Ancora bastian contrari dopo tutti quegli anni, i Mutanti (nel nome un programma) ringraziavano ma declinavano. Si sono in ogni caso tolti da allora molte e globali soddisfazioni, avendo visto crescere a dismisura, grazie a una raccolta curata da David Byrne e alle ristampe degli LP originali, un culto che in precedenza viveva solo del passaparola dei collezionisti della psichedelia più oscura. Ma nemmeno l’ampissimo mantello della psichedelia basta a coprire la vastità di uno stile eternamente cangiante. Lisergici per antonomasia, i Nostri, e dire che l’LSD non lo assaggiarono che nel 1970, nel loro primo – ahem – viaggio a Londra. Erano insomma matti di DNA. Curiosamente o forse significativamente, sarà dopo quel soggiorno, dopo che ebbero modo di immergersi direttamente in una cultura di cui in precedenza non avevano potuto cogliere che qualche eco, che la loro musica si farà assai meno originale, persino prevedibile nel suo ossequiare stilemi pseudo-progressivi nel poker di 33 giri realizzati dal ’71 al ’75, l’anno dello scioglimento. I “veri” Os Mutantes vanno rintracciati piuttosto nella caleidoscopica trilogia 1968-1970 costituita dall’omonimo debutto, dal quasi omonimo – “Mutantes” – seguito e da “A Divina Comédia Ou Ando Mejo Desligado”. Eccezionali soprattutto il primo – che oltre ai due pezzi succitati vanta il Nino Rota sotto funghi che si dà alla musica concreta di Panis Et Circenses, il bossa-blues a orologeria Baby, una bucolica Le premier bonheur du jour – e un terzo che shakera garage e funk in Quem tem medo de brincar de amor, scaraventa Graham Bond in Spagna in Meu Refrigerador Nao Funciona e fa carioca Question Mark & The Mysterians in Preciso Urgentemente Encontrar Um Amigo.

C’è però chi dice che a sciupare la magia dei Mutanti non fu l’Europa ma la defezione nel 1972 di Rita Lee, che in breve diventerà – e lo è tuttora – una delle grandi signore della canzone brasiliana. Offre solidi argomenti a sostegno la fresca riedizione su Rev-Ola di quello che proprio nel fatidico ’72 fu il suo secondo LP da solista, “Hoje È O Primeiro Dia Do Resto Da Sua Vida”: titolo  fuorviante siccome per la Lee non fu “il primo giorno del resto della sua vita” ma semmai un ultimo. Un addio a un glorioso passato, non una porta sul futuro. È per organico, ispirazione e suoni, se non formalmente, il congedo degli Os Mutantes classici. Dovrebbe bastare a indurvi all’acquisto la collisione fra Isaac Hayes e Santana di Vamos Tratar Da Saudade. Se no, l’Hendrix soggiogato dalla batucada di Teimosia, o la distillazione funkadelica Tapupukitipa.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.628, novembre 2006.

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Who’s Best: Who’s Next

The Who - Who's Next

Questa volta non ci sono santi. Per una questione di abbondanza e non di suono, che è fantastico in entrambi i casi (siamo su un livello certamente superiore, e non di poco, alla media dei dischi rock dell’epoca), vince il CD. Fatto è che di “Who’s Next” Universal metteva in circolazione un due anni fa la “Deluxe Edition” e per i fans era una festa da non credere ai propri occhi (bellissimo il libretto) e alle proprie orecchie: sul primo dei due compact la scaletta nota seguita da sei fra inediti e versioni diverse, sul secondo il leggendario concerto al londinese Young Vic Theatre con il quale nel febbraio 1971, qualche settimana prima di trasferirsi ai Record Plant per porre infine mano a un album la cui gestazione si sarebbe rivelata decisamente difficile, invano Pete Townshend cercava di mettere ordine nella grande confusione che aveva in testa. La storia è nota: alle prese con l’arduo compito di dare un seguito a “Tommy”, e dopo avere piacevolmente per noi tergiversato con il micidiale “Live At Leeds”, il nostro uomo si gingillava con un secondo concept. Titolo di lavorazione: “Lifehouse”. Problemuccio: nemmeno lui aveva ben chiaro che storia raccontassero le canzoni che continuava a buttar giù. Fallimentari le sedute newyorkesi, anche per colpa di un Keith Moon completamente fuori controllo, e dopo un passaggio appena meno infruttuoso presso Stargroves, la casa di campagna di Mick Jagger, ci pensava il produttore Glyn Johns, agli Olympic di Barnes, a tagliare il nodo gordiano persuadendo Townshend e compagni a registrare una scelta di brani a quel punto ormai collaudati. Avrebbe provveduto poi lui a ordinarli in forma di album. E che album ne sarebbe venuto fuori! Per taluni l’ultimo classico degli Who, per quasi tutti il capolavoro della band, “Who’s Next” riesce nell’impresa di unire a un’irriverenza (esemplificata in maniera deliziosamente puerile dalla celeberrima copertina) e a un’energia ancora da pieni ’60 un’attitudine progressiva nel giusto modo. Mirabile l’equilibrio e fa il resto una manciata di canzoni superbe, da quella Baba O’Riley dall’inconfondibile introduzione tastieristica omaggiante l’autore di A Rainbow In Curved Air all’innodica Won’t Get Fooled Again, passando fra il resto per l’hard di Bargain, una tumultuosa My Wife (pregevole contributo di Entwistle) e gemme di inaudito romanticismo quali The Song Is Over e Behind Blue Eyes.

La nuovissima stampa Classic Records naturalmente non regala alcuno dei supplementi di inchiesta offerti dalla succitata edizione digitale, limitandosi a replicare esattamente il 33 originale sebbene con una presenza mai così vivida su vinile. Il problema è che costa più questa del doppio CD e bisogna essere un po’ matti per preferirgliela. Cioè: un po’ più matti che ad averle in casa entrambe. Oltre a quell’altra copia, comprata tanti, tanti anni fa e consunta dai troppi passaggi su stereo della mutua. Ehi! Si vive una volta sola…

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.254, febbraio 2005.

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Emozioni da poco (18): Television

Era stata una monografia sui Television scritta nel dicembre 1982 e pubblicata sul numero di aprile dell’anno dopo a guadagnarmi la collaborazione al “Mucchio”. Quando nella primavera dell’88 decisi di lasciare quel giornale, per provare a dare vita a un altro, fu una scelta quasi ovvia, obbligata chiudere il cerchio consegnando come ultimo pezzo un altro articolo sulla banda Verlaine. Il mio ultimo “Bassifondi” vedeva la luce sul numero di settembre della rivista. Già il mese dopo la rubrica riappariva sulla nuova testata, “Velvet”,  con un nuovo nome , “Cheap Thrills”.

Bassifondi 18

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Satchmo e il Duca

Louis Armstrong & Duke Ellington - Recording Together For The First Time

Potere compiere un viaggio nel passato, potere trasformarsi in un insetto (una “mosca sul muro”, come recita il titolo del CD aggiunto alla nuova versione del beatlesiano “Let It Be”) e inosservati osservare, senza perdersi un attimo, quanto accadde il 3 e il 4 aprile 1961 nello studio newyorkese in cui, per la prima volta, i due massimi giganti del jazz pre-bebop si ritrovarono per incidere un album: privilegio per il quale nessuna cifra potrebbe essere troppo esosa, nessun sacrificio esagerato, non proprio un farsi testimoni dell’assassinio di Cesare (o del Golgota, o dell’evento storico che vi pare) ma per noi che siamo malati di musica quasi. Anche se sia Satchmo, che vedeva i sessant’anni all’orizzonte, che il Duca, che da lì a pochi giorni ne avrebbe compiuto sessantadue, avevano alle spalle le loro cose migliori e non moltissimo tempo dinnanzi. Ma essere lo stesso lì, a godere degli ammiccamenti fra questi due grandi vecchi che enormemente si rispettavano vicendevolmente e ciò nonostante fino agli ultimi mesi del 1960, quando di tutti i posti possibili si erano ritrovati su un set cinematografico in quel di Parigi, non avevano mai collaborato. Bastian contrario come suo solito, Scott Yanow osserva che sarebbe stato meglio se fosse stato Louis Armstrong a unirsi all’orchestra di Duke Ellington e non quest’ultimo a congiungersi agli All-Stars del primo. Ha ragione? Non so. Mi cruccio al limite che non si siano potute avere le due cose. Mi dispiace, non avendo a disposizione wellsiane macchine, che non mi sia mai successo di imbattermi in un filmato (ignoro se ne esistano) che documenti l’incontro. Mi accontento, e non è  poco, del racconto minuzioso di Stanley Dance e naturalmente della musica. A momenti come esserci quando dalle casse emerge con simile nitidezza, la tromba che si scusa mentre va a baciare il cielo come farà la chitarra di Hendrix, il piano che trilla, carezza e swinga, trombone e clarinetto sornioni e spassosi come gatti che si apprestano a combinarla grossa, la sezione ritmica che caracolla con un’eleganza al di là del dicibile. Tutti lì, nella tua stanza, con una presenza, soltanto ad alzare appena il volume, stupefacente. È un super audio CD? Macché. Vinile, signori miei, massiccio e silenzioso e luccicante e alloggiato in una copertina apribile che già di suo pesa un’esagerazione, la parte interna (non plus ultra di attenzione al dettaglio) incollata come si usava. Perfettamente riprodotta pure l’etichetta (Roulette), giusto la grammatura da audiofili, la busta antistatica e una cartolina svelano che non è un originale quello che ammirati si sta maneggiando ma una ristampa, della solita Classic Records. Benemerita ma esosa ma benemerita. Rinunciarci quando si è appena sostenuto che si sarebbero commesse follie per una gita à rebours? Dio mio no, come diceva Lucio Battisti. Si vive una volta e ogni tanto bisognerebbe godersela. Siate generosi con voi stessi e concedetevi “Recording Together For The First Time” esattamente in questa libidinosa edizione. Più del prezzo a infastidire semmai è che si tratti della versione corta, metà di quanto venne registrato, buona scusa per perdere ogni ritegno e procurarsi pure il CD Original Master Recording, che offre l’integrale e suona bene, ma comunque un po’ di meno: ma volete mettere la bellezza dell’oggetto?

Appoggiate dunque la puntina al primo solco e, immergendovi nel resoconto dell’avvenimento diffusamente offerto dalle note di copertina, createvi da soli il migliore DVD possibile: mentale. Ecco arrivare i musicisti in sala. Degli abitudinari non c’è il pianista Billy Kyle e anche perché indisposto, non solo perché ubi maior. Arriva Ellington e sulla porta ad accoglierlo affabilmente è il trombonista Trummy Young. A lungo nell’orchestra del Duca, al suo ingresso il clarinettista Barney Bigard si alza ed emozionato lo abbraccia. Gli presenta il contrabbassista Mort Herbert e il batterista Danny Barcellona. Manca Satchmo. Entra, fa gli onori di casa, passa l’ideale bacchetta di direttore a Ellington: tutto suo il materiale che si va a suonare, gesto di fantastica modestia da parte del trombettista. Sarà lo stesso mattatore, facendo nuovi i brani scelti non soltanto con la sua tromba ma con l’inconfondibile voce tutta grinze e umorismo, svelando una familiarità con il materiale significativa. Sicché, nella foltissima discografia ellingtoniana, tante altre e meravigliose versioni si sono ascoltate ad esempio di Mood Indigo e di The Mooche ma queste restano uniche, più giunglesca ed exotica che mai la prima, cartoonesca ma con un tocco di malinconia la seconda. Ove Duke’s Place e Cotton Tail sprintano suscitando ilare affanno, I’m Just A Lucky So And So alternativamente scintilla e blandisce, In A Mellowtone esibisce ossessività rara. Epperò il momento che più resta nella testa e nel cuore è Drop Me Off In Harlem, il brano che più Satchmo fa suo cambiando il testo e infondendogli con il cantato una buffonesca umanità che, in qualche strana maniera, insieme diverte e commuove.

Oggettivamente: bellissimo LP, ma sono altri i dischi determinanti per le vicende del jazz e fra essi altri di Ellington, altri di Armstrong. “Recording Together For The First Time” era operazione di retroguardia da parte di due artisti geniali che in gioventù e nella maturità immensamente avevano contribuito, di codesto stile, a delineare il canone. Ma se qualcuno mi chiedesse di fargli ascoltare un album che del jazz renda le radici blues, il calore, la propensione ludica, il romanticismo, oggi metterei questo sul piatto.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.242, gennaio 2004.

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Cose che non tutti sanno sui Doors

The Doors

Il famoso incidente sull’autostrada cui assistette Jim Morrison a quattro anni, da lui raccontato in più occasioni, citato in Peace Frog e alla base di Dawn’s Highway (“gli spiriti di quegli indiani morti/forse uno o due di loro/stavano lì intorno a correre come impazziti e penetrarono nella mia anima/e sono ancora lì”), non è mai avvenuto, stando ai suoi stessi genitori. “Il piccolo Jim aveva una fantasia fervida”, spiegano.

Anche con un conto in banca ormai milionario, Morrison non ebbe mai una casa sua e adorò sempre soggiornare in alberghi di infima categoria. Il suo preferito era il Tropicana Motel, prospicente un club a luci rosse e un bar gay. Lì aveva sempre una camera riservata. Con il tempo bello non era insolito che dormisse sotto le stelle, sulla spiaggia di Venice.

In stato alterato o meno, il cantante dei Doors era un pessimo guidatore e sfasciò diverse automobili. Potrebbe avere avuto un certo peso il fatto che non prese mai la patente.

La Buick offrì una cifra con cinque zeri al gruppo di Los Angeles per potere utilizzare Light My Fire in uno spot. Morrison negò il permesso.

L’inclusione di Alabama Song in “The Doors” fu del tutto casuale. A suggerirla fu Manzarek, che aveva in casa una raccolta di canzoni brechtiane.

Jim Morrison detestava la copertina del primo album. Adorava invece quella del secondo, che pure fu un ripiego rispetto al progetto originale che prevedeva uno foto di gruppo con contorno di trenta cani.

Nell’ambiente musicale i comunicati stampa redatti dall’addetto dei Doors Leon Barnard erano chiamati “bull sheets”.

Dopo i fatti di Miami (scena di una denuncia con conseguente arresto per atti osceni) il popolare conduttore televisivo Jackie Gleason organizzò in città una “Marcia per la pubblica decenza”. Il presidente Nixon gli inviò un telegramma di congratulazioni.

Richiesto da un intervistatore di come si sentisse a essere l’ispiratore del Decency Movement, Morrison rispose che “è sempre bello essere il padre di qualcosa”.

A un altro giornalista che lo definiva “il Jesse James del rock”, il cantante replicò: “Sarebbe più corretto chiamarmi un nuovo William Booney. Jesse James delinqueva per avidità, Billy The Kid lo faceva per divertirsi. Ma in fondo noi americani siamo tutti dei fuorilegge”.

Il libro preferito di Morrison era La nascita della tragedia, del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche.

Il suo poeta preferito era il francese Arthur Rimbaud. Incidentalmente, pure Rimbaud morì in una vasca da bagno.

Fra le vittime di Charles Manson si contò anche un amico dei Doors, Jay Sebring.

I Doors furono il primo gruppo statunitense ad aggiudicarsi sette dischi d’oro consecutivi.

L’immagine di Jim Morrison crocefisso a un palo del telegrafo sulla busta interna della stampa originale USA di “L.A. Woman” viene dal video promozionale di venti minuti che, alquanto in anticipo sui tempi, il quartetto girò per The Unknown Soldier.

Il brano L’America venne composto per la colonna sonora di Zabriskie Point ma il regista Michelangelo Antonioni lo scartò, preferendogli Careful With That Axe Eugene dei Pink Floyd.

In L.A. Woman la canzone appare un Mr Mojo Risin’ che, ne avesse avuto il tempo, sarebbe potuto diventare un alias alternativo al Lizard King. Fateci caso: è un anagramma di “Jim Morrison”. A idearlo fu John Sebastian dei Lovin’ Spoonful, ospite nel precedente “Morrison Hotel”.

Al Whiskey à Go-Go i Doors si trovarono ad aprire alcuni concerti dei Them, degli idoli per loro. I due gruppi simpatizzarono e finirono per lanciarsi in chilometriche versioni congiunte di Gloria. In particolare simpatizzarono i due Morrison, Jim e Van. Le loro gare a chi riusciva a bere di più sono ancora oggetto di racconti mitologici in California.

Il leader dei Doors era un grande estimatore dei Canned Heat. Sempre in prima fila nei loro concerti a Los Angeles, salì spesso sul palco per delle jam ispirate dall’alcool. Come dire: blues’n’booze.

A proposito di jam: a cavallo fra ’70 e ’80 circolava un bootleg attribuito a Jimi Hendrix, Johnny Winter e Jim Morrison. Fondamentale il contributo del Lizard King: in Peoples Peoples Peoples urla un po’ di volte “feel alright”.

A proposito di Hendrix: nel marzo 1968 un Morrison in stato di ebbrezza da record raggiunse il chitarrista sulla ribalta del Fillmore East, si mise carponi e cominciò a strillare: “Ehi Jimi, voglio succhiarti il cazzo. Ti prego! Fammelo succhiare!”. Arrivata al concerto insieme a lui, Janis Joplin si sentì spinta a fare subito altrettanto.

I Doors furono i massimi ispiratori del rinascimento psichedelico vissuto da Liverpool nei primi anni ’80, Julian Cope un autentico Lizard King Jr.

Fra le cover dei Doors degne di nota c’è la versione di People Are Strange di Echo & The Bunnymen. Trovatosi ad assistere a un loro spettacolo, Ray Manzarek decise di andare nei camerini per congratularsi e venne accolto da uno spettacolo che dovette sembrargli familiare: il cantante Ian McCulloch giaceva comatoso sul pavimento.

Altra gente che ha riletto canzoni dei Doors: Aerosmith (Love Me Two Times), Cure (Hello, I Love You), Julie Driscoll & Brian Auger (Light My Fire), Perry Farrell & Exene Cervenka (Children Of The Night), Billy Idol (L.A. Woman), Alexis Korner (The WASP), Annabel Lamb (Riders On The Storm), John Mellencamp (Twentieth Century Fox), Nico (The End), Rose Of Avalanche (Waiting For The Sun), Rosetta Stone (The End), Simple Minds (Five To One), Siouxsie & The Banshees (You’re Lost Little Girl), Stone Temple Pilots (Break On Through).

Canzoni altrui che i Doors eseguirono dal vivo ma non hanno mai inciso in studio: Carol (Chuck Berry), Get Out Of My Life Woman (Lee Dorsey), Summertime (George Gershwin), People Get Ready (Impressions), Cross Road Blues (Robert Johnson), Fever (Little Willie John), I’m A Man e Mannish Boy (Muddy Waters), Heartbreak Hotel (Elvis Presley), Goin’ To New York (Jimmy Reed), I’m A King Bee (Slim Harpo), Heroin (Velvet Underground).

A proposito… Non tutti furono distrutti dal dolore per la prematura scomparsa di Jim Morrison. In un’intervista a “Melody Maker” nel 1977 Lou Reed lo ricordò con queste affettuose parole: “Non avevo nessun rispetto per lui e nemmeno mi dispiacque quando morì. Ricordo che mi trovavo con un gruppo di amici a New York quando squillò il telefono e qualcuno disse che Jim Morrison era appena morto a Parigi in una vasca da bagno. La reazione immediata fu “Fantastico. In una vasca da bagno a Pa-ri-gi. Fa-vo-lo-so!”. Non mi disturbò la mancanza di compassione, se l’era cercata… Era un vero idiota”.

Appena meno tagliente in anni molto più recenti (2001, in un’intervista a “Uncut”) David Crosby: “Jim Morrison come poeta era valido ma umanamente era un individuo estremamente spiacevole. Un alcolizzato e, davvero, non una bella persona”.

Dopo avere sviscerato ogni più sordido risvolto della vita di John Lennon, Albert Goldman si apprestava a fare lo stesso con quella di Morrison quando improvvisamente morì. Una prova dell’esistenza di Dio?

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.21, primavera 2006.

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Frankie HI-NRG MC: l’impresa di esprimersi

Che io detesti fare interviste è notorio (massimo ne avrò fatte quindici in vita mia). Grande sorpresa dunque presso la redazione dell’allora settimanale “Il Mucchio” quando, all’altezza della pubblicazione di “Ero un autarchico”, mi offrivo volontario per andare a fare quattro chiacchiere con Frankie HI-NRG MC. È che mi era venuta la curiosità di verificare che tipo di persona fosse un artista per il quale nutrivo un’enorme stima sin dai tempi del pionieristico e capitale – per il rap italiano – Fight da faida. Per certo non ne rimasi deluso. Anzi! Fui talmente colpito dalla signorilità e dall’affabilità del nostro uomo che da lì a qualche anno mi candiderò a una seconda trasferta milanese giusto per il piacere di potere trascorrere un’altra ora con lui.

Questa prima intervista usciva accompagnata da una scheda di Federico Guglielmi che potete leggere qui.

Frankie HI-NRG 2003

Sono quasi le sette di una sera milanese di inizio autunno indaffarata e rumorosa come stereotipo vuole quando, con buona mezz’ora di ritardo rispetto al fittissimo programma di incontri, vengo ammesso in presenza di Frankie. Sono l’undicesimo giornalista cui si concede e nemmeno l’ultimo in questa giornata dedicata alla promozione di “Ero un autarchico”, il suo terzo album, atteso non per modo di dire siccome quello prima è una storia di sei anni fa. È evidentemente stanco il nostro uomo (ma anche felice e la ragione di questa sua felicità gli siede a fianco) per questo tour de force di parole parole parole, lui che pure con le parole ci sa fare come nessuno in Italia nel suo ambito. E non bastasse è raffreddato. E non bastasse ancora odia farsi intervistare. Io odio intervistare. Cominciamo.

Luogo comune, che come tutti i luoghi comuni contiene un fondo di verità, vuole che un romanziere rifaccia sempre lo stesso romanzo e così un musicista lo stesso disco. Fra il tuo nuovo lavoro e i precedenti ci sono evidenti elementi di continuità…

Ad esempio il titolare del disco.

Ad esempio. Magari anche certi vezzi, tipo quello di cominciare e finire sempre allo stesso modo, con un’introduzione – Prima nel ruolo che fu di Entro e di Incipit – e un’uscita di scena – che oggi si chiama Dopo quando ieri era stata Outcipit e ieri l’altro Esco –, quasi si trattasse più di un atto teatrale che di un album.

Son soddisfazioni… Un giorno metterò pure l’intervallo.

Già fatto! Alla fine della prima facciata di Verba manent invitavi l’ascoltatore a girare il disco.

È vero. Purtroppo funziona solo con cassetta e vinile.

Certamente ci sono marcati elementi di continuità, dicevo, ma si notano scarti non meno pronunciati. La discontinuità più lampante a mio giudizio è data dall’umore dell’artefice. Riascoltato dopo “Ero un autarchico”, “La morte dei miracoli” mi è parso ancora più depresso (scoppia in una risata) di quanto non ricordassi. Qui non si ha più la sensazione di trovarsi davanti a uno che – per citarti – prende le distanze da sé. Trovo quest’album molto più… ironico. Magari dici pure cose pesanti, meni randellate da paura a partire da Chiedi chiedi che oltretutto è il singolo, ma anche quando lo fai è sempre… quasi con il sorriso sulle labbra.

Hai ascoltato lo stesso disco che abbiamo ascoltato noi. Sono d’accordo. Se peraltro dovessi riprendere in mano quello prima ancora lo scopriresti…

…molto più prossimo! Infatti.

Perché è proprio una questione umorale. Hai colto in pieno. Ed è anche una questione di crescita che c’è stata nel frattempo, nel senso che sono cresciuto numericamente e non si tratta di pura e semplice aritmetica. Fatto è che la geometria degli affetti ha acquisito forme multispaziali e l’avere avuto una maturazione mi fa sentire più forte nelle scelte che devo operare nella mia vita – che dobbiamo operare nella nostra vita – e mi ha fatto divertire di più quando si è trattato di dire delle cose. Allora ho cercato di porgermi come mai prima, con una certa… leggerezza. Non mi interessa più parlare da un avello fumante, da un pulpito mezzo diroccato. Non mi viene più. Non me ne frega più niente. Sia chiaro: non disconosco “La morte dei miracoli”. Però è indubbiamente un disco a tratti torvo, mentre questo nuovo sa sorridere.

Ci sono parecchi più siparietti del solito. Non che siano mai mancati, ma stavolta addirittura sopravanzano le canzoni vere e proprie.

È un album contemporaneamente più divertente e più divertito di quello prima. Più brillante, brioso, ballabile.

Ove “La morte dei miracoli” al confronto vanta una maggiore raffinatezza, con sottigliezze negli arrangiamenti che contribuiscono a renderlo un’opera più “di atmosfera”. Questo gioca sull’impatto.

Ah, sicuramente. È figlio dell’aria che si respirava in studio che era figlia del piacere di realizzare collettivamente un qualcosa di gratificante per tutte le persone coinvolte. E quindi è assai meno fosco del predecessore che – non ho difficoltà ad ammetterlo – lo era alquanto. Se pensi che escludendo Cali di tensione, che in ogni caso ha un titolo che la dice lunga, il primo pezzo che scrissi per quel disco, quello che diede la stura a tutto il processo creativo, fu proprio quello che citavi prima, quell’Autodafè che comincia dicendo “prendo le distanze da me/perché non voglio avere niente da spartire con me/da condividere con chi come me non fa nulla per correggersi/sono il mio nemico, il più acerrimo” eccetera… be’, non credo sia necessario aggiungere altro. Resta una canzone che mi piace tantissimo, però adesso… boh…

Vivi meglio. Avevo colto questa vicinanza a “Verba manent” e ciò mi porge il destro per notare che è forse dovuta anche alle collaborazioni. Un elemento di continuità/discontinuità rispetto al passato è che tornano prepotentemente alla ribalta Alberto Brizzi e Marco Capaccioni, che in “La morte dei miracoli” c’erano ma restavano defilati e qui invece hanno avuto, a scorrere i crediti, un ruolo notevole. Brizzi aveva offerto apporti importanti, determinanti addirittura, al tuo esordio adulto.

“Verba manent” ci aveva legati anima e corpo in una maniera un po’ irrazionale nella sua assolutezza ed era probabilmente inevitabile che ci fosse poi una fase nella quale ci siamo allontanati. Chiamiamolo un periodo sabbatico. Ci siamo lasciati senza nemmeno dirci troppe cose, un po’ così, un distacco che mi ha dato sensazioni non granché gradevoli. Quando si è trattato di metter mano a “Ero un autarchico” non ho però avuto dubbi su quello che sulla carta era il migliore team produttivo con cui portare avanti il progetto. Il che non toglie che avessi qualche timore su come li avrei trovati. Riscoprirli forti ed energici come li avevo lasciati, con quel desiderio di lavorare dando quell’impronta stilistica che ci ha sempre caratterizzati, è una cosa che mi ha riempito di gioia. E i loro contributi sono stati sostanziali, a livello di composizione, di arrangiamenti, di ricerca dei campioni. È stato un piacevolissimo ritorno a casa, non esattamente una faccenda da figliol prodigo, perché non è stato sacrificato alcun vitello grasso, ma insomma. Mi sa che invecchiando si diventa più romantici.

Se no ci si incarognisce.

Come i peggiori personaggi di Paolo Stoppa (ridacchia e fa una faccetta buffissima, da cartone animato).

Fin da Fight da faida, che con diecimila copie stabilì un piccolo record in ambito indipendente, i tuoi dischi hanno sempre totalizzato cifre di tutto rispetto. L’avere venduto tanto – centocinquantamila copie di “La morte dei miracoli”, mi si dice – ti ha facilitato nei rapporti con la casa discografica o si è rivelato viceversa un problema? Voglio dire… li hai fatti aspettare un album nuovo per sei anni: ti hanno lasciato in pace perché comunque sei uno che fa fatturato? Oppure ti hanno fatto capire che ci stavi mettendo troppo?

Qualche sollecitazione c’è stata, ma sempre porta con garbo, con la coscienza di quelle che erano le mie esigenze e le mie vicissitudini. La più interessante ed efficace mi è giunta dal presidente stesso della BMG, che in un colloquio che abbiamo avuto mi si è rivolto così, testuale: “Senti, ma tu ha intenzione di fare un altro disco? Oppure vuoi fare… non lo so… un film? Un libro? Parliamone”. Mi ha colpito constatare come un imprenditore potesse essere così aperto riguardo alla possibilità di diversificare il prodotto secondo le esigenze del produttore.

Una dimostrazione di grande rispetto.

Esatto! Poi, è evidente, gli stipendi non sono io a pagarglieli ma Ramazzotti: altri numeri, altra consistenza degli introiti. Ma anch’io offro un apporto al funzionamento della macchina e mi piacerebbe continuare a offrirlo, continuare a vendere tanto, perché è vendere che ti dà l’opportunità di impegnarti in progetti sempre più ambiziosi. E poi puoi fare stare meglio le persone che lavorano con te, ed è importante.

L’hip hop non ha mai avuto nei confronti dell’avere successo l’ipocrisia di certo rock.

È una cosa proprio italiana questa cultura che è stata dominante per decenni e che esige che se un artista ha dei contenuti deve per forza vivere in francescana povertà, e se si arricchisce con i proventi della sua arte ne consegue che ha tradito chissà quale causa: ma che due palle! Non deve essere così. Se lo è stato per alcuni, anche loro hanno ormai cambiato idea. Quando io per primo firmai per una multinazionale mi spararono addosso ad alzo zero, quando tutti hanno firmato…

Guarda caso più di uno per la BMG, usufruendo direttamente del tuo successo.

…allora è diventata una strategia.

Avere successo si misura pure con parametri che non sono quelli puri e semplici del fatturato. Un indizio certo è l’entrare nell’immaginario collettivo. Un altro è prestargli modi di dire. In tempi recenti un noto dizionario è stato pubblicizzato con uno slogan che fu tuo: “potere alla parola”. Chiederai i diritti?

Ci ho pensato! Sinceramente. Però potrei accontentarmi di una copia omaggio. Mi tornerebbe utile, visto che quello che ho non è aggiornato. Credo di meritarmela anche perché ho dimostrato, e non penso di essere arrogante a dirlo, di essere uno che dei dizionari fa buon uso.

Torniamo sul rapporto con il resto del rap italiano. Da un lato conflittuale: mi viene in mente il “di posse già oggi son piene le fosse” in Faccio la mia cosa, AD 1992. Da un altro non sono mai mancati né omaggi, agli OTR nel primo LP, né collaborazioni: con Ice One, con La Comitiva, con Flaminio Maphia. Nei resti di quella che fu una scena, come ti collochi?

Guarda, ho molte difficoltà a definire i contorni di una scena. Non sono mai stato abbastanza addentro al cosiddetto underground, ma nemmeno mai lontano come oggi. Sempre che esista ancora.

È possibile che a essere sparita sia stata solo la sua visibilità?

Se così fosse, è una fortuna. Il meglio che possa accadere all’hip hop di noi altri dopo gli anni del presunto boom è che ci sia un azzeramento e si ricominci tutto da capo, dal basso, da ragazzini che iniziano a ballare, rappare, mettere i dischi e fare scratching, scrivere i pezzi. Che si ricrei un humus, ecco. Sai chi fu letale per la scena? Quel tuo collega che se ne uscì con la formula della “musica posse”, un’assurdità che non stava né in cielo né in terra e metteva assieme Frankie e i Mau Mau, Assalti Frontali, gli Strike, Persiana Jones e il Sud Sound System, realtà e stili che pochissimo quando non nulla condividevano. Aiuto! Per certo all’hip hop non giova nemmeno il fatto che sia diventato una moda. Accendi la radio e senti Eminem, cambi stazione e senti Eminem, o 50 Cent, o comunque sempre quei dieci nomi, sempre quelli, una cosa insopportabile. Che probabilmente è ciò che ha fatto sì che a un certo punto cominciassero a uscire dei gruppi di ragazzotti – che so? – della Bassa Padana che posavano con delle bandane, in posizioni plastiche, davanti a macchinoni e con a fianco le fidanzate in bikini… delle robe imbarazzanti! Ma figli miei, non ce l’avete un po’ di senso del ridicolo? Ma siate buoni! Bisognerebbe mettere un pizzico di Italia nell’hip hop, che è una cultura globale, è questa grossa scatola dove ciascuno infila il suo plug-in e prende il resto. E in tal modo la scatola diventa sempre più grossa, e indefinibile. Invece da noi c’è sempre stato un tipo di fruizione a emulare/simulare gli Stati Uniti. Altrove in Europa non è così. In Germania, in Francia… in Svizzera! In Svizzera c’è una scena incredibile, che spacca le gambe a tutti per quanto è viva, verace, ricca, forte. Vendono dischi e fanno remix per altri e a volte persino per gli americani. Non si autoghettizzano, come masochisticamente si usa o si usava dalle nostre parti.

A proposito di americani: tu sei andato in tour, nei tuoi verdi anni, con Beastie Boys e Run DMC, in seguito hai collaborato con Nas e ultimamente con RZA, del Wu-Tang Clan. Cosa ti è rimasto di queste esperienze?

Sono state tutte gratificanti, anche se naturalmente in misura e maniera diverse. Con Beastie Boys e Run DMC… è successo tanti anni fa, ero giovane e i rapporti furono ridotti all’osso, un po’ per una questione di timidezza da parte mia, un po’ perché nei confronti del gruppo di supporto da parte di un certo tipo di artisti c’è sempre una sorta di naturale scetticismo. Posso dire veramente poco, se non di avere assistito a dei bellissimi concerti dopo essere sceso da quello stesso palco, cosa di per sé emozionante. Per quanto concerne Nas, è stata una collaborazione a distanza. Si trattava di sostituire Puff Daddy e mi dichiaro soddisfatto del risultato. L’incontro con RZA è praticamente piovuto dal cielo, previa telefonata di un discografico che mi fa “C’è un certo Erre Zeta A (la risata è omerica) che vorrebbe…”. Ho colto al volo la possibilità di poterlo conoscere e ho registrato questo pezzo che è una lettera che gli scrivo: Caro Reza (comincia a rappare) qui la storia è tesa, potersi esprimere sta diventando un’impresa, o meglio poterlo fare libero da vincoli politici, senza assecondare orrendi gusti estetici… e quant’altro. È una canzone che affronta il problema dell’esprimersi, del fatto di sentirsi costretti a fare una cosa bella, perché è la tua etica che te lo impone, e poi dovere convincere altri, che sono quelli che venderanno questa tua cosa, che è valida e non va alterata. Trovarmi in una stanza con questo artista che ammiro a raccontargli il brano e sentirmi rispondere “guarda, ho sempre avuto pure io questi problemi e probabilmente sempre li avrò” più che semplicemente piacevole è stato incredibile. Scoprire poi che è un musicista vero, uno che suona benissimo il pianoforte e ha un’approfondita conoscenza della musica classica… fantastico. Colgo l’occasione per rimarcare che, a parte l’incontro con RZA, le collaborazioni che trovo più appaganti, perché più mi aiutano a crescere, sono quelle fuori dal perimetro dell’hip hop. Ci tengo particolarmente a citare quella con Alter Ego, che è questo gruppo romano di avanguardia che dell’accademia ha la formazione ma non la supponenza. Musicisti straordinariamente aperti, che praticano molto l’elettronica (sono stati loro, per dire, a farmi scoprire i Matmos) e hanno una curiosità vivissima, capaci di apprezzare in maniera non superficiale quello che faccio e di motivarmi a essere interprete, cosa che prima non ero mai stato, nel senso che ho sempre maneggiato unicamente materiali miei.

Il primo disco che hai comprato in vita tua…

My Sharona degli Knack.

Un classico assoluto!

Quando poi i Run DMC lo hanno campionato paro paro in “Raising Hell”, un cerchio si è chiuso.

Tu come li scegli i campionamenti? Cosa è che ti ispira?

Non so spiegarlo razionalmente. Sto ascoltando della musica e a un tratto qualcosa chiede prepotentemente la mia attenzione, di essere risentito, enucleato, replicato. Funziona così.

Il tempo sta scadendo e non ti ho ancora fatto la domanda più ovvia: perché “Ero un autarchico”?

Ovviamente è una citazione, ovviamente è un omaggio a Nanni Moretti, che nel titolo del suo primo film diceva Sono un autarchico e oggi secondo me è splendido nel continuare a esserlo, ma come parte di una comunità di persone che si prendono per mano e fanno dei girotondi, che è la cosa più fresca e positiva che sia accaduta alla politica, alla vita di questo paese da parecchio tempo in qua.

“Basta una busta nella tasca giusta in quest’Italia così laida”, rappavi in Fight da faida nel 1991, anticipando di pochi mesi Tangentopoli. Condividi il mio sospetto che si stesse meglio quando si stava peggio? L’album si apre con Raplamento, un anagramma di “parlamento”, che non le manda a dire al riguardo.

Mi piaceva l’idea delle camere viste come le curve di uno stadio in cui ciò che deve succedere succede sugli spalti invece che in campo. Ma a guardarli questi politici non sembra pure a te di vedere un quadro di Bruegel? C’è il gobbo, il nasone, lo smilzo, il baffuto, quello storto, quello che fa la cacca in un angolo, quello che infila un dito in un occhio a un altro. Che brutta gente! Trovo sconfortante una tenzone politica in cui il centro-destra è sempre meno centro, salvo uscirsene con proposte genialmente paracule come quella di concedere il voto agli immigrati…

Tanto per bilanciare deliri come quello sulle droghe.

…giusto. Mentre dal canto suo l’opposizione troppo spesso è tale soltanto di nome. È tempo di rimboccarsi le maniche, di affrontare i problemi veri, quelli con i quali l’uomo della strada ha a che fare ogni giorno, e per altro verso di non essere più muti testimoni di una destra estrema che fa dichiarazioni pesantissime – tipo quella sui giudici antropologicamente matti, tipo quella su Mussolini dittatore benevolo – e poi due ore dopo le smentisce dicendo che erano una battuta. Ma allora non avete il senso dell’umorismo, ma allora siete tutti comunisti! Basta! Io culturalmente, direi addirittura geneticamente, sono di sinistra, ma ciò non mi impedisce di notare le deficienze di questa sinistra inane. Tornando al titolo, mi sono sempre visto come un autarchico, uno che ama fare tutto da sé, ma maturando ho finito per rendermi conto che da soli si ottengono meno risultati che in compagnia. È più fruttuoso cooperare. Sulla copertina c’è un paio di occhiali smontati, tante parti che assemblate fanno un intero. Io sono solamente una di quelle parti.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.552, 28 ottobre 2003.

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Marty Thau (1938-2014)

Vengo a sapere solo ora, con alcuni giorni di ritardo, della dipartita avvenuta lo scorso giovedì di Marty Thau, nome che a moltissimi non dirà nulla ma che a quei pochi cui è familiare dirà viceversa tanto. Butto lì due nomi per chiarire la rilevanza di questo Newyorkese doc a chi non dovesse averlo presente: gli dobbiamo la scoperta dei New York Dolls, di cui fu il primo manager; qualche anno dopo curava la regia dell’epocale esordio dei Suicide. In un curriculum rimarchevole che lo rende uno dei più cruciali produttori del rock americano di epoca punk e new wave (era in realtà in circolazione già da un pezzo) spicca la creazione nel 1977 di un marchio underground importante quale Red Star. A seguire, la scheda che scrissi per un numero di “Extra” in cui venne pubblicato un articolo collettivo sulle cento più significative antologie di autori vari di sempre della raccolta simbolo dell’etichetta.

Marty Thau Presents 2x5

Marty Thau Presents 2×5 (Red Star, 1980)

Ricordate i loro nomi”, invita Marty Thau in conclusione alle note di copertina vergate per questa antologia che, come il titolo (omaggiante gli Stones?) fa intuire, presenta due canzoni a testa di cinque gruppi, e a essere perfidi si potrebbe rilevare che il tempo è stato poco generoso con l’entusiasmo del produttore e discografico newyorkese: il pubblico odierno al massimo conosce i Fleshtones, qualcuno che all’epoca già c’era rammenterà magari i Comateens, il resto sfida gli storici delle minuzie rock più minuzie. Epperò Thau merita rispetto e non solo per essere uno che ha incrociato sulla sua strada New York Dolls e Ramones, Blondie, Suicide e Robert Gordon, ma proprio per avere assemblato questa raccolta frizzante e prodiga di curiosità e qualcosa di più. Verificato che i Fleshtones all’inizio erano meno appiattiti sulla tradizione rock’n’roll di quanto non siano oggi e che il techno-pop all’americana dei Comateens risulta sempre delizioso, sono i due brani dei Bloodless Pharaohs – in particolare il quasi omonimo Bloodless Pharaoh, mediano fra i primi Ultravox! e dei Polyrock più grezzi – ad attirare l’attenzione. Per la firma in calce: Setzer. Proprio lui, il Brian che declinerà rockabilly più realista del re con gli Stray Cats e nella carriera solistica si darà addirittura allo swing. Un bel peccato di gioventù.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.11, autunno 2003.

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Italian Music Club – I primi passi dei Perturbazione

Alla fine, o per meglio dire all’inizio, ci avevo visto giusto con i Perturbazione: un gruppo cui gli abiti dell’underground sono sempre stati stretti e lo scrivevo già all’altezza dell’ormai lontano esordio, datato ’98 e cantato quasi per intero in inglese. Nella settimana in cui ragazza e ragazzi approdano a Sanremo e no, non al Tenco, fa uno strano effetto ripescare queste recensioni d’epoca e trovarci dentro l’oggi. Riguardo alla loro partecipazione al Festival nazional-popolare non mi dilungo. Mi pare c’entrino poco, pochissimo, quasi nulla, e dunque gli auguri glieli faccio non per l’Ariston (che darà loro comunque la possibilità di farsi ascoltare da un pubblico che non li conosce e chissà…) ma più in generale: buona vita. Se la meritano.

Non ho trovato nei miei archivi recensioni di “In circolo” (2002), del quale conservo comunque un ottimo ricordo al di là del fatto che contiene la loro canzone più memorabile, Agosto. I successivi “Pianissimo fortissimo” (2007), “Del nostro tempo rubato” (2010) e “Musica X” (2013) fra molte luci e qualche ombra hanno sostanzialmente mantenuto le promesse formulate in una giovinezza corrucciata e splendida.

Perturbazione - Waiting To Happen

Waiting To Happen (On/Off, 1998)

Sembra che l’unico fra i tredici titoli che sfilano in “Waiting To Happen” cantato in italiano, Happy New Age, sia l’articolo più recente del catalogo dei Perturbazione e sia stato aggiunto all’ultimo momento. Benché il gruppo stesso, a quanto pare, lo consideri poco più che uno scherzo, di rado ripensamento fu tanto proficuo: è una canzoncina fatta di niente – voce, chitarra e (una melodia) scacciapensieri – ma nondimeno irresistibile e pone in una diversa prospettiva il resto di questo debutto e forse l’avvenire dei Perturbazione. Finora oscuro gruppo di culto, in forza di un delizioso 45 giri, per americanofili impenitenti e in futuro, se la scelta dell’italiano dovesse venire confermata, formazione in grado di raggiungere un pubblico ben più vasto.

Per intanto “Waiting To Happen” è un disco destinato a far breccia nei cuori di quanti amano i R.E.M. più bucolici come i  Rex, gli American Music Club come i Walkabouts, i Jack e  Lisa Germano. È folk-rock chiaroscurale e romantico ciò che suonano i Torinesi, generoso di melodie memorabili (come quella, disegnata da una chitarra arpeggiata e dal violoncello e subito doppiata da un’armonica, di Caspiriñha) ma non scevro di accensioni ritmiche fulminanti: Magik Mulatto ad esempio, splendido incrocio fra Feelies, Gang Of Four e B-52’s.

Pubblicato per la prima volta su “Rumore”, n.76, maggio 1998.

Perturbazione - 36

“36” (Beware!, 1998)

Tutti a dire, all’indomani dell’uscita del precedente “Waiting To Happen”, che la canzone più memorabile era la sola cantata in italiano, Happy New Age, e ad auspicare che i Perturbati passassero senza indugi all’idioma di Dante. Manco a farlo apposta (l’avessero fatto apposta?), la canzone più bella del purtroppo breve programma di “36” è l’unica in inglese: un gioiellino per voce (mai così suadente), percussioni, plettri e violoncello (mai così struggente) chiamato Fake B-Movie Star. Siccome il resto della scaletta suffraga comunque l’impressione che al sestetto il passaggio all’italiano giovi e dacché i testi (invero notevoli) si inseriscono a meraviglia nelle consuete trame strumentali American Music Club + Rex + R.E.M. + Lisa Germano, il consiglio è di perseverare. Da qualche parte qui si nasconde (nemmeno troppo) un gruppo in grado di attirare un pubblico ben più vasto di quello dell’underground. In un altro decennio con un brano come Lontano da qui (e vicino al primo Banco del Mutuo Soccorso) si sarebbe andati in classifica. Perché non ora?

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.10, marzo 1999.

Perturbazione - Canzoni allo specchio

Canzoni allo specchio (Mescal, 2005)

Piccoli gruppi (giudizio non di merito in questo caso e fanno fede precedenti recensioni su queste stesse pagine; intendo dire: di culto) crescono e potrebbero presto fare il botto. Tanto prima se si libereranno da un retaggio indie che fa forse ancora guardare al successo con diffidenza: una trappola, un tradimento, tutti e due. A un passaggio importantissimo, probabilmente decisivo della loro vicenda, siccome partiti dalla minuscola On/Off e transitati per la media Santeria approdano ora a quella Mescal già trampolino per i Subsonica (e dalla distribuzione major), i torinesi Perturbazione incomprensibilmente scelgono come singolo apripista per il terzo album Chiedo alla polvere. Intendiamoci: gran bella canzone, scintillante folk-beat che il violoncello di Elena Diana (l’elemento più caratterizzante, con l’inconfondibile voce di Tommaso Cerasuolo) illumina e slancia. Ma quanto avrebbe funzionato meglio alla bisogna Se mi scrivi! Passo sincopato, un ritornello clamoroso, un’istantanea generazionale che a mandarla in rotazione su MTV non te ne liberi più.

Affari loro, in ogni caso. Quel che conta per l’ascoltatore è la crescita lenta ma costante di una formazione che partì già da discretamente in alto. Sorta di American Music Club dal senso della melodia più spiccato, o se preferite di R.E.M più introversi e disposti all’intarsio neocameristico o alla comunella con gli Stereolab (Dieci anni dopo e Il materiale immaginario rimandi abbastanza evidenti al gruppo franco-britannico), i Perturbazione raggiungono la maturità senza negarsi la possibilità di ascese verso empirei anche più rarefatti. Lo provano – ancora – la languida Spalle strette e l’aggraziata, struggente danza di Quattro gocce di blu.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.255, marzo 2005.

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Emozioni da poco (17): Neil Young

Tutta la carriera da solista del Canadese, dall’omonimo esordio a “Live Rust”, in una paginetta. Ventisei anni dopo sono ancora piuttosto d’accordo con me stesso, con due eccezioni: “After The Gold Rush” capolavoro senza “se” e senza “ma” e “On The Beach” album straordinario, altro che buono e basta.

Bassifondi 17

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