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Un grande affresco collettivo di Americana – Il Ry Cooder di “Paradise And Lunch”

Probabile che non se ne accorga nessuno, ma proprio nei giorni in cui questo numero di “Audio Review” raggiungerà le edicole uno dei più importanti agitatori culturali dell’ultimo mezzo secolo americano compirà settant’anni. Agitatore culturale e dunque politico, sì, in primo luogo. Poi musicologo. E solo in terza istanza straordinario chitarrista, ottavo (per quanto possano valere certe classifiche) nella lista dei cento campioni dello strumento che stilava nel 2003 “Rolling Stone”. Qualche lettore potrà legittimamente dissentire, rovesciando le posizioni in questo mio personale podio, e mi sia allora permesso di argomentare. Ricordando per cominciare che nel 1972 Ry Cooder, perché è di lui che stiamo parlando, sceglieva per aprire “Into The Purple Valley”, suo secondo LP da solista dopo un omonimo esordio in cui aveva riletto fra il resto Woody Guthrie e un classico dell’era della Grande Depressione quale How Can A Poor Man Stand Such Times And Live? di Alfred Reed, un brano di Agnes “Sis” Cunningham. A dire il vero, Cooder ignorava che la fondatrice dei Red Dust Players e di quella bibbia del folk di oltre Atlantico che fu “Broadside” fosse l’autrice di How Can You Keep Moving (Unless You Migrate To) e lo indicava come “traditional” (l’errore, presente nella prima edizione, verrà corretto nelle successive ristampe), ma non ha importanza. Conta il concetto alla base di una canzone che risolveva come stridula marcetta: in genere non si emigra per scelta bensì per necessità e la politica non può fermare ciò che l’economia ha innescato. Qualcuno lo spieghi al muratore Donald Trump. A proposito: rileggo quanto scrissi su queste pagine recensendo nel 2012 il disco che è a oggi l’ultimo di Cooder, “Election Special”, e mi scappa da ridere agro quando mi scopro a definire Mitt Romney il peggiore candidato alla presidenza mai espresso dal partito repubblicano.

Ryland Peter Cooder nasce a Los Angeles il 15 marzo 1947, da padre statunitense e madre italiana, e le origini conteranno senz’altro qualcosa in una concezione del mondo con al centro la fecondità del meticciato. Che è l’unico filo conduttore che lega una vicenda artistica che, dopo averlo visto federatore di una musica dalle mille radici quale è quella popolare americana, lo vedrà collaborare con Vishwa Mohan Bhatt come con Ali Farka Touré, con i Chieftains come con Manuel Galbán, e nel mezzo regista dell’operazione Buena Vista Social Club. E di sicuro molto contava pure l’incontro, giovanissimo, con uno spirito affine, praticamente un suo gemello di colore, Taj Mahal, con cui condivideva l’avventura precoce e acerba ma intrigante dei Rising Sons, quintetto fra folk-rock e country-blues elettrico che registrava nel 1966 un 33 giri che la Columbia pagava solo per inverecondamente tenerlo in un cassetto fino al ’92. Talento precocissimo, avendo messo le mani per la prima volta su una chitarra treenne, Ry arriva al debutto in proprio datato 1970 con un curriculum pazzesco per uno che ha ventitré anni: è stato il fulcro della prima Magic Band di Captain Beefheart (sua l’elettrica in “Safe As Milk”), ha prestato la sua abilità di strumentista al Randy Newman di “12 Songs” e a Judy Collins in un tour che ha fruttato un live, ha collaborato con Van Dyke Parks come con i Little Feat e, quel che più conta, a lungo è stato una sorta di sesto (o meglio settimo, contando Ian Stewart) uomo nei Rolling Stones: Love In Vain (su “Let It Bleed”) e Sister Morphine (su “Sticky Fingers”) i contributi più importanti. In “Ry Cooder” e in “Into The Purple Valley” il nostro eroe comincia a elaborare un manifesto del folk in senso lato d’America tanto più “suo” perché in luogo di scrivere (fintanto che non si darà alle colonne sonore – formidabile carriera “a latere” che a momenti mi stavo dimenticando – sarà quasi sempre interprete, rarissimamente autore) sceglie e peculiarmente si appropria, pescando in un catalogo sterminato. Sono lavori già intriganti, ma il colpo da maestro – il capolavoro, a detta di una critica praticamente unanime al riguardo – lo piazza dopo averlo lungamente preparato, nel 1974, con “Paradise And Lunch”. Lì folk, blues, soul e gospel, e un pizzico di jazz, si mischiano inestricabilmente in un assieme ineffabilmente coeso. Nessuno come Cooder ha saputo sistemare tanto armoniosamente nello stesso album, chiarendo come siano parte della medesima tradizione, cose così diverse: il funky-gospel di Married Man’s A Fool, un Blind Willie McTell riletto come fosse The Band, e una processione antifonale da Esercito della Salvezza quale Jesus On The Mainline; il Bobby Womack già rifatto dagli Stones e ora girato in calypso di It’s All Over Now e lo schietto blues elettrico If Walks Could Talk; una Tattler di gusto caraibico e infiltrata di archi e il Burt Bacharach trasferito sul serio sul Border di Mexican Divorce; per suggellare il tutto, avendo aperto con la collisione fra spiritual e dixie prossima a tante cose Hot Tuna di Tamp ’Em Up Solid, con lo strepitoso duetto fra la sua acustica e il piano ragtime di un gigante del jazz quale Earl Hines di Ditty Wah Ditty.

Ecco: la forza di “Paradise And Lunch” sta anche nel suo essere affresco in una certa misura collettivo. Nell’interazione fra il titolare e una ritmica quanto mai fantasiosa (con il batterista Jim Keltner la collaborazione sarà assai proficua, giungendo fino ai giorni nostri) come nell’esplosività delle ricche parti corali, negli interventi misurati di archi e ottoni e in quelle tastiere che ora dialogano e ora legano. Produzione magistrale perché per niente intrusiva di Russ Titelman e Lenny Waronker, “Paradise And Lunch” è fresco di riedizione su Speakers Corner ed è una stampa favolosa, che supera in scioltezza la pur ottima edizione tedesca anni ’80 (su quella USA d’epoca avrei un tot da ridire) che già avevo in casa. “Spumeggiante” è l’aggettivo che meglio si attaglia a un’incisione con voci che scappano da tutte le parti, corde che danzano, una ritmica agile e squadrata nel contempo, più sul versante dello swing che su quello del groove. Se questo mese vi avanzano 32 euro, non saprei consigliarvi un modo migliore di spenderli.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.385, marzo 2017. Ry Cooder spegne oggi settantadue candeline.

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I migliori album del 2018 (7): Ry Cooder – The Prodigal Son (Fantasy)

Affacciandosi sugli anni ’70 un Ry Cooder ventitreenne ma già con un cv impressionante (braccio destro di Captain Beefheart nel primo LP di costui e uno degli Stones in “Let It Bleed”, per limitarsi a due cosucce) debuttava con un 33 giri omonimo. Ormai sporto su altri anni settanta, i suoi (a metà marzo ne farà settantadue), e avendocelo fatto sospirare per sei, lo scorso maggio ha pubblicato questo: il suo sedicesimo album “vero” da solista, che in quasi mezzo secolo non è molto e un po’ ci si inquieta contando le colonne sonore e notando che sono diciassette – una in più! – e meno male che almeno della lista (questo lo distingue dall’amico Randy Newman, che accompagnò in quattro dei suoi lavori più belli) fa parte una delle più memorabili di sempre e di chiunque (“Paris, Texas”, ovviamente). D’accordo: c’è poi un elenco di collaborazioni e dischi co-intestati lungo così e ne fanno parte titoli epocali come “Talking Timbuktu” con Ali Farka Touré e il “Buena Vista Social Club”, e tuttavia vien da pensare che, quantitativamente, il nostro uomo avrebbe potuto darci di più. Poi però te lo ristudi il catalogo e rifletti che, mettendo interminabili diciotto anni fra il bruttino “Get Rhythm” e uno “Chávez Ravine” viceversa da santificazioni future, l’artista ben sapeva cosa (non) stava facendo. Non è che gli si fosse seccata la penna, ché d’altronde è sempre stato interprete e di rado autore. È che doveva avere percepito il venir meno della capacità straordinaria di prendere materiali altrui, quasi sempre vetusti, e farli di nuovo attuali e inconfondibilmente suoi. Nel secolo nuovo gli è tornata.

In un “Ry Cooder” promettentissimo ma non ancora capolavoro – nella sequenza pressoché perfetta, dal ’70 al ’79, dei primi sette album in studio, il colpaccio gli riuscirà per la prima volta con il quarto, “Paradise And Lunch”; secondo me – il brano da antologia dovendone scegliere uno è How Can A Poor Man Stand Such Times And Live, un recupero datato 1929 di Blind Alfred Reed. In “The Prodigal Son” Cooder riattinge a quel repertorio risalendo nel tempo di ulteriori due anni, a quelle “Bristol Sessions” considerate il Big Bang della moderna country music, per rifare You Must Unload: accorata su ritmica marziale, a un primo ascolto la trascuri per la colpa che ha di tallonare l’apice del disco (e fra gli apici della discografia tutta dell’artista), una resa spettrale della Nobody’s Fault But Mine di Blind Willie Johnson di intensità tale da obnubilare – addirittura! – la storica versione dei Led Zeppelin. Solo nei passaggi successivi ne cogli appieno la potenza, chiamata a rispondere a chi di cristianesimo si colma la bocca ma poi comodamente si scorda il dovere della generosità verso i reietti. Lontana la polemica politica diretta del precedente “Election Special”, a parte quando nel dialogo fra Jesus And Woody (uno dei tre brani autografi, essendo gli altri il rauco e metallico country’n’roll Shrinking Man e una Gentrification dai tratti highlife) il primo confessa al secondo che “guess I like sinners better than fascists”.

Laico da sempre attratto da gospel e spiritual quanto dal blues, qui il Nostro resta più sul versante di chiesastiche ascendenze, da una Straight Street dritta da “Bop Till You Drop” a una In His Care nei dintorni di Jesus On The Mainline. In generale, e tornando al punto da cui ero partito: è come facesse un sunto dei suoi anni ’70 arrivato nei suoi settant’anni. Sublime.

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Vita, miracoli e una discografia base di Aretha Franklin (25/3/1942-16/8/2018)

Il 25 marzo 2002 Lady Soul ha compiuto sessant’anni e contemporaneamente celebrato i trentacinque trascorsi da quando per la prima volta una sua incisione ascese fino alla vetta della classifica R&B. Nel 2001 aveva festeggiato un altro anniversario: quarantacinque anni nel mondo dello spettacolo. Registrato dal vivo nel 1956 alla New Bethel Baptist Church di Detroit e pubblicato quello stesso anno dalla Chess, presenza intermittente nei cataloghi e anche per questo spesso dimenticato dalle discografie, “Aretha Gospel” (***½) è un documento straordinario che quasi fa dar ragione a Peter Guralnick che, nelle succinte note a corredo, appunta che la “Franklin produrrà arte superiore in seguito, ma mai musica più grande di quella che regala qui, con la voce e i sentimenti messi a nudo”. Tutto è approssimativo in quest’album, a partire dalla registrazione nasale da blues delle origini. Eppure dalla nebbia dell’incisione primitiva la purezza, l’intensità della voce, sebbene fra le incertezze di uno stile non ancora educato, risplendono con luce abbacinante. Non si riesce a credere che ne sia proprietaria una quattordicenne. Com’è possibile che nel canto di una ragazzetta risuonino con tanta forza estasi e dolore, gioia e passione e una pensosa maturità? Come se già avesse vissuto cento vite e cercasse di trasmetterne l’essenza, trovando nel contempo redenzione, nel silenzio fra un fraseggio e l’altro. All’apice del successo si dichiarerà “una donna di ventisei anni che va per i sessantacinque”. Ogni cosa ha il suo prezzo e l’arte sa essere insopportabilmente esosa, ma la bambina “disperatamente infelice” di cui il primo manager riferiva a un cronista di “Rolling Stone” è sopravvissuta.

Predestinata alla gloria? Aretha nasce nel 1942 a Memphis, seconda figlia del Reverendo C.L. Franklin e di Barbara, che se ne andrà di casa nel 1948 lasciando al consorte il compito di allevare una prole nel frattempo arrivata a quota cinque. Dopo un breve soggiorno a Buffalo, la famiglia si trasferisce a Detroit. Lì il padre dirige la New Bethel Baptist Church, facendone la base di frequenti tour che gli conquisteranno la nomea di uomo “con la voce da un milione di dollari”. E per la bellezza (Bobby Bland la prenderà a modello), dispiegata in qualcosa come settanta LP, e per l’esosità di cachet che all’apice del successo arriveranno a quattromila dollari a data. La bambina cresce da un lato abbandonata a se stessa, dall’altro circondata da celebrità. Le fanno a turno da madre gigantesse del gospel come Mahalia Jackson, Marion Williams e Clara Ward e la casa è frequentata da Art Tatum come da Dinah Washington, da Low Rawls come da Sam Cooke. La ragazzina osserva e prende nota. Un giorno del 1957 Cooke arriva portando con sé la lacca di un 45 giri che sa che darà scandalo. Ha già pubblicato musica profana, ma sotto pseudonimo. Quel disco uscirà a suo nome e sanzionerà l’abbandono della musica sacra. Si chiama You Send Me, languorosa ballata di immani capacità seduttive, e Sam chiede alla quindicenne Aretha cosa ne pensi. Non si sa cosa rispose, ma possiamo immaginarlo ascoltando la versione, per una volta prossima all’originale, offertane undici anni dopo in “Now”.

Ecco: uno degli ingredienti principali della grandezza di Madama Franklin è la capacità di fare indelebilmente suo qualunque materiale con il quale si misuri, qualità rimarchevolmente conservata fino ai giorni nostri. Già nei tanti 33 giri pubblicati dal 1961 al 1967 per la Columbia, dove l’aveva portata John Hammond dichiarandola “la nuova Billie Holiday” e dove non la serve per niente bene un materiale indeciso fra sofisticatezza jazz e ruffianeria pop, la sua personalità risalta comunque. Ma nessuno, nemmeno Jerry Wexler che fece carte false per portarla alla Atlantic, avrebbe potuto immaginare cosa stava per sbocciare. “I Never Loved A Man The Way I Love You” è uno dei più memorabili album della storia del soul e il più grande firmato da una donna. Racconta Guralnick che il giorno che fu pubblicato si trovava a Boston e in una mattina gelida vide gente ballare e cantare, in fila per acquistarlo, fuori da negozi che lo suonavano senza posa, mentre le radio facevano altrettanto. E aggiunge: “Era come se fosse arrivato il nuovo millennio”. O un altro Elvis. Per Aretha Franklin il nuovo millennio durerà in realtà, a seconda di dove si ritiene opportuno sistemare i paletti, dai cinque agli otto anni, ma a parte i Beatles nel pop nessuno ha mai avuto e probabilmente avrà anni così.

Lascio agli enciclopedisti la contabilità di una sequela impressionante di numeri uno e dischi d’oro e platino e premi della critica e dell’industria (otto Grammy consecutivi nella categoria “Best R&B Performance, Female”) raccolti dall’artista mentre la donna attraversava inferni personali sui cui si è scritto, facendole torto, quasi come sulla musica. Qui riferisco di sette LP in studio e tre dal vivo pubblicati nel volgere di un travolgente lustro e uniformemente propulsi dai migliori musicisti che si trovassero allora sulla piazza soul (con qualche comparsata anche di campioni del rock: Eric Clapton in “Lady Soul”, Duane Allman in “Spirit In The Dark”). Fra i primi almeno “Aretha Arrives”, “Lady Soul” e “Aretha Now” basterebbero (ciascuno da solo) a iscrivere il nome di questa donna negli annali. Ma pure il jazzato “Soul ’69” (***½) e “This Girl’s In Love With You” (***½; con dentro una Eleanor Rigby indicibilmente trasfigurata e una sontuosa Let It Be, scritta da McCartney appositamente ma incisa soltanto dopo quella dei Beatles), “Spirit In The Dark” (***) e “Young, Gifted And Black” (***) valgono assai. Imprescindibili poi i live: “In Paris”, all’Olympia e istantanea di un trionfo francese; “At Fillmore West” (***½), testimonianza del sorprendente abbraccio ad Aretha della nazione hippie, con a chiudere una Reach Out And Touch (Somebody’s Hand) che sarà anche retorica ma tuttora commuove; e infine “Amazing Grace”, inatteso e felicissimo ritorno al gospel. Piace pensarlo come la chiusura del cerchio che la ragazza aveva cominciato a tracciare alla New Bethel Baptist Church sedici anni prima, sotto l’occhio vigile e tiranno del padre.

Nefasto il passaggio dalla Atlantic alla Arista nel 1980, l’anno dopo l’ennesima tragedia, il ferimento del Reverendo Franklin durante una rapina (morirà dopo cinque anni di coma che Aretha trascorrerà per la più parte al suo fianco): come e peggio che negli anni alla Columbia, il repertorio tornerà a essere di scarso spessore, fra dance e pop. Peccato, ché la voce resta magnifica, senza una ruga, come certificano l’occasionale ritorno al gospel nell’eccelso ma isolato “One Lord, One Faith, One Baptism” (1987; ***½) e virtuosismi, ancora nel recentissimo (2003 e annunciato come il disco il cui tour segnerà l’addio ai concerti) “So Damn Happy” (*½), che fanno correre brividi per la schiena.

Queen Of Soul (Rhino, 1992; 4CD) ****½

Sottotitolo: “The Atlantic Recordings”, a distinguere questo box dalla distillazione in un singolo di due anni successivo sottotitolato “The Very Best Of” (*****), naturalmente stupendo e altrettanto naturalmente non bastante. La verità è che l’unica alternativa a questa cornucopia di tesori è acquistare in blocco la produzione Atlantic dal 1967 al 1972: undici album variamente imprescindibili. Ove degli otto da lì al 1979 si può felicemente fare a meno.

I Never Loved A Man The Way I Love You (Atlantic, 1967) *****

La pur folta discografia Columbia, otto LP fra il 1961 e il 1966 (apprezzabili quanto tendenziosi compendi “a tema” in “Sings The Blues”, 1985, e “Love Songs”, 2001; entrambi ***), in nessun modo preparava al magnetismo, alla passione, alla sensualità di questo debutto per la Atlantic. Lo inaugura Respect ed è subito apoteosi, fra il piano e la ritmica che giocano a chi è più funky, il coro che impazza, i fiati a raffica e sopra la voce di Aretha, che trasforma la domestica concione di Otis in un inno insieme femminista e di consapevolezza nera. In un capolavoro in cui pure le doti di autrice della Franklin trovano risalto – in una Don’t Let Me Lose This Dream che andrebbe fatta mandare a memoria alle squinziette del modern soul, in una Baby Baby Baby di accorata tensione e in special modo nel lubrico blues di Dr. Feelgood – è però il suo essere interprete incomparabile che si evidenzia maggiormente, nelle sacrali dodici battute di Drown In My Own Tears come nel countreggiare di Do Right Woman – Do Right Man, nei Sam Cooke antipodici di Good Times e A Change Is Gonna Come e più che mai in una title track (di Ronny Shannon) amarissima serenata a un uomo odiosamente prevaricatore. Impossibile non pensarla dedica a quel Ted White che di Aretha fu a lungo compagno e dalla cui schiavitù stenterà a liberarsi.

Aretha Arrives (Atlantic, 1967) ****

Dura dare un seguito a cotanto esordio. La ragazza si toglie il pensiero con un LP che di suo sarebbe stato debutto mostruoso. Fra la partenza a perdifiato di una Satisfaction comunque meno irruenta di quella di Redding e il sigillo della birichina Baby I Love You, le perle più lucenti sono una You Are My Sunshine dal retrogusto gospel, una 96 Tears singultante, la sinatriana That’s Life, una Going Down Slow che fa onore blueseggiando al suo titolo.

Lady Soul (Atlantic, 1968) ****½

Che si sia in presenza di una seconda pietra miliare è subito chiarito dall’esuberante, imperiosa tirata di Chain Of Fools. Ribadiscono il concetto una People Get Ready di impareggiabile drammaticità, l’innodica (You Make Me Feel Like) A Natural Woman, una lettura pigra e sexy di Groovin’ e i vocalizzi da pelle d’oca di Ain’t No Way.

Aretha Now (Atlantic, 1968) ****

L’ennesimo classico autografo ad aprire: Think. E poi una volta di più il miracolo di classici altrui di cui la Franklin si appropria con classe e sentimento di una lega loro, da I Say A Little Prayer di Bacharach a Night Time Is The Right Time di Ray Charles, a You Send Me di Sam Cooke.

Aretha In Paris (Atlantic, 1968) *****

Il più fantastico lascito del Maggio parigino? Eccolo. Non avrà molto a che vedere con le barricate (non avrà molto a che vedere con le barricate? un disco che inizia con Satisfaction e si chiude con Respect?) ma sarebbe valsa la pena di fare il ’68 anche solo per avere in cambio questa dozzina di successi, resi con inenarrabile fervore in una serata all’Olympia chiamata a rappresentare su vinile il primo tour europeo.

Amazing Grace (Atlantic, 1972; 2LP) ****

Cerchio che si chiude, come già annotato, con tradizionali resi con sensazionale grazia, da quello che (ahem) battezza il tutto a Never Grow Old, da What A Friend We Have In Jesus a God Will Take Care Of You, ma anche con una solo sulla carta incongrua You’ve Got A Friend (Carole King; in medley con Precious Lord, Take My Hand) e una appena meno sorprendente Wholy Holy (Marvin Gaye).

Pubblicato per la prima volta su Soul e Rhythm & Blues – I Classici, Giunti, 2004.

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Mavis Staples – If All I Was Was Black (Anti-)

Non c’è due senza tre e, se all’inizio della collaborazione l’accoppiata fra una cantante gospel e il chitarrista di un gruppo (gli Wilco) capace di coprire dall’Americana al post-rock poteva parere bizzarra, oggi Mavis Staples e Jeff Tweedy sono a tal punto sintonizzati che lui può firmare l’intera scaletta di “If All I Was Was Black” ponendosi nei panni di una donna di colore e risultare credibile. Quando le canta quelle canzoni è come se le avesse scritte lei. Ennesimo miracolo inscenato dalla piccolina di casa Staples in una prodigiosa terza età che l’ha vista raccogliere il testimone degli Staple Singers dal 2007, dallo stringersi di un altro sodalizio sulla carta implausibile, quello con un’etichetta di ascendenze punk quale la Anti-. La signora già aveva sessantotto anni quando “We’ll Never Turn Back” la sottraeva agli annali della black music per riproiettarla nell’attualità, complice la regia di un Ry Cooder in stato di grazia.

A proposito… Se costui fosse divenuto uno degli Stones (la possibilità ci fu) avremmo potuto godere di gemme come la Little Bit che apre, riffeggiando elastica e ipnotica, il programma del terzo atto di una collaborazione principiata nel 2010 con “You Are Not Alone” e proseguita nel 2013 con “One True Vine”. Formidabile introduzione subito superbamente doppiata da una traccia omonima da regalare con urgenza a Rod Stewart per restituirgli credibilità. O quella, o Ain’t No Doubt About It. Ma andrebbe citata per intero una scaletta che nel complesso rappresenta una riflessione battagliera e singolarmente amara, per un’artista che ha sempre fatto della positività uno dei suoi tratti distintivi, sullo stato dell’Unione. La speranza affidata a uno spiritual, We Go High, chiaramente ispirato da un celebre discorso di Michelle Obama.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.394, dicembre 2017.

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Wop bop a loo bop a lop bam boom! E sono ottantaquattro per Little Richard

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Che il Diavolo faccia le pentole, si sa. Che ai coperchi provveda talvolta il Dirimpettaio è evenienza rara, ma si danno dei casi in cui è accaduto e mai tanto clamorosamente come con l’uomo nato Richard Wayne Penniman e infinitamente meglio noto come Little Richard. La storia è uno degli episodi cardine dell’aneddotica del rock primigenio ma tant’è, c’è sempre qualcuno da istruire o cui rinfrescare la memoria e allora rieccola, in brevissimo. Nel 1957, nel pieno di un tour australiano e all’apice del successo (tredici le hit consecutive nella classifica R&B di “Billboard”, undici delle quali replicate in quella pop), l’uomo che in quel momento contende a Elvis il titolo di re del rock’n’roll è colto da crisi mistica e si ritira in Alabama, per dedicarsi a studi biblici. Immaginarsi le lodi a Domine Iddio dei suoi discografici che, speranzosi che non sia che una delle tante mattane del performer più colorato, irriverente e sessualmente ambiguo (ehm… si fa per dire) che mai abbia calcato palcoscenico, per un paio di anni si arrabattano svuotando i cassetti e ricavandone ancora quei quattro o cinque successi nemmeno tanto minori, per poi inevitabilmente arrendersi. Messo assieme in questo modo e pubblicato nel marzo 1959, “The Fabulous” risulta a quel punto il terzo LP in studio dell’artista di Macon e, antologie e live esclusi, resterà l’ultimo di musica secolare fin quasi alla fine del decennio successivo. È un disco gradevole ma inevitabilmente un po’ raffazzonato, cui non giovano i cori femminili aggiunti a posteriori e nei cui solchi l’esplosivo rock’n’roll che ha già consegnato il Nostro agli annali della popular music si prende a tratti qualche pausa. Non si tratta di mera curiosità per completisti, ma insomma…

Sorpresa! A fare consigliare l’acquisto di questo CD griffato Hoodoo e distribuito Egea è il secondo dei due lavori che contiene, un “It’s Real” datato 1961 e talmente misconosciuto da venire ignorato da diverse discografie e dalla pur chilometrica scheda che Wikipedia dedica all’autore. Incredibile a dirsi e tanto di più considerando che ad accompagnare il titolare nei suoi dodici brani sono Quincy Jones e la sua orchestra, niente di meno. Premesso che non è ovviamente questo virato gospel il Little Richard destinato all’immortalità (quella degli uomini, dell’altra non possiamo sapere), l’album è interessante, intenso, non formulaico nemmeno alle prese con i titoli più consunti dall’uso.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.188, gennaio 2014. La Regina del rock’n’roll festeggia oggi il suo ottantaquattresimo compleanno.

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I Soul Stirrers negli anni di Sam Cooke

Sam Cooke - With The Soul Stirrrers

L’oggetto – triplo CD in box di sobria eleganza, dal prezzo importante ma nemmeno troppo esoso – è di quelli che attirano irresistibilmente l’attenzione del collezionista e incuriosiscono il neofita capace di non fermarsi a splendori e miserie dell’attualità, disposto all’esplorazione del passato. Tanto più quest’ultimo è avvertito, tanto più risulterà titubante: investire o meno, non avendo una discografia di soul già cospicua, in una raccolta che promette l’integrale delle incisioni per la Specialty dei Soul Stirrers con Sam Cooke in formazione? Mastodonte (ottantaquattro le tracce, tre ore e tre abbondanti quarti il minutaggio) destinato dunque più che altro agli – ahem – specialisti, includendo come fa tutto (ma proprio tutto) quanto è stato rintracciato negli archivi, comprese versioni multiple e false partenze. Il neofita saggio si dirà che un’antologia singola, e magari economica, con dentro i brani più importanti dovrebbe essere più che sufficiente alla bisogna e per approfondire c’è sempre tempo. Normalmente avrebbe ragione. Non in questo caso, come gli intenditori di musica nera precipitatisi viceversa ad acquistare “The Complete Specialty Records Recordings” avranno già appurato Mettiamola così: basta che del Sam Cooke laico possediate “The Man And His Music”, basta che di gospel abbiate una buona selezione di autori vari e di questo cofanetto già non potete fare a meno. Basilare e non tanto e non solo per i classici conclamati, che con poca fatica e ancor minore spesa potreste trovare altrove. No. Per i venti strepitosi minuti, stralcio di uno spettacolo al losangeleno Shrine Auditorium, che lo suggellano mettendo a soqquadro una sequenza per il resto rigorosamente cronologica, che parte dal 1° marzo 1951 e arriva al 19 aprile di sei anni dopo. Qui invece è il 22 di luglio del ’55 e Cooke e compagni cominciano scaldando se stessi e la platea con un’elegante e calorosa insieme I Have A Friend. La temperatura sale ulteriormente con gli incalzanti 7’43” di Be With Me Jesus, condotti con martellante maestria da Paul Foster, e raggiunge il punto di ebollizione negli 8’36” (quasi il triplo della versione in studio) di una Nearer To Thee in cui il leader porta la folla, soprattutto quella femminile, al deliquio. Quando intorno al sesto minuto canta – con sottintesi oggi lampanti, allora chissà – che sono le cattive compagnie a rovinare i bravi ragazzi è un’esplosione di urla ad accogliere le sue parole e ti sembra a momenti di vederla la congregazione impazzita, preda di spasmi di sensualità mentre le mura di Gerico del gospel crollano e il soul occupa il campo. Emozione indicibile e dire che di musica ne ho masticato un po’ da un quarto di secolo a questa parte, ma qui, lettori e lettrici, è della Storia nel suo divenire che si è testimoni. Un paio di mesi dopo avere registrato il concerto allo Shrine, Robert “Bumps” Blackwell andrà a New Orleans a eternare un altro momento epocale, il brano che farà di Little Richard una star, Tutti Frutti. Giorni fecondi!

Sono invece di tredici e diciassette mesi posteriori le prime sette incisioni da solista di Cooke che il box, fregandosene felicemente della filologia, riporta prima dell’ultima seduta con il gruppo ed è nettare pop che cola da una Happy In Love da musical, da una I’ll Come Running Back To You dalla melodia degna dei capolavori a venire, da una Lovable che non è altro che la già nota He’s So Wonderful ove però il Lui per antonomasia diventa una mortale lei per cui struggersi. Dovreste conoscere il resto della vicenda. Il nostro uomo mette le sue seriche corde vocali al servizio di una musica secolare nella quale nondimeno il gospel vibra ancora, come è logico, forte e dal ’57 al ’64 infila un gioiello via l’altro di soul inondato di pop o il contrario, passando con disinvoltura da Tin Pan Alley al blues. Con enorme successo (essere un adone naturalmente non gli nuoce). Mani assassine ne fermano la corsa, in circostanze mai chiarite, l’11 dicembre 1964, un mese prima del trentaquattresimo compleanno. Undici giorni più tardi quella che diventerà la canzone-simbolo del movimento per i diritti civili, A Change Is Gonna Come, è nei negozi e nella leggenda. Ma immagino già sapeste.

Se il Sam Cooke di seconda metà di carriera è più o meno familiare all’appassionato di rock, che come minimo conosce un tot di suoi brani entrati in un’infinità di repertori altrui (da You Send Me a Chain Gang, da Twistin’ The Night Away a Bring It On Home To Me, da Shake alla stessa A Change Is Gonna Come), meno esplorato risulta quello che plasmò la voce declinando gospel e che, come chiarito da questi tre CD cornucopia di tesori, non appare affatto minore al confronto. Altrettanto grave torto alla verità dei fatti è stato poi compiuto permettendo che la sua presenza in squadra per sei anni ponesse in secondo piano l’eccezionale rilevanza “a prescindere” di un gruppo che quando lui arrivò, con la non facile incombenza di sostituire un gigante quale Rebert H. Harris, transfuga perché scontento di inclinazioni al laico già presenti, aveva alle spalle un percorso ventennale disseminato di pietre miliari (in particolare nel triennio 1946-1948, trascorso alla corte della Alladin). E che dopo la sua defezione proseguì ed è giunto fino ai ’90 facendo dischi e soprattutto concerti. Per quanto Harris sia stato una figura chiave nella storia del gospel (fra i primi a usare il falsetto, sua fu pure l’idea di alternare due solisti nel corso di una stessa canzone), i Soul Stirrers più grandi in assoluto risultano comunque proprio quelli che videro il ventenne (e quindi assai più giovane del resto della compagnia) figlio del Reverendo Charles Cook (la “e” un’aggiunta successiva) Sr. aggregarsi dapprima con timidezza e in seguito pian piano assumere la leadership. Continuando l’opera di modernizzazione della musica sacra afroamericana intrapresa da Harris fino a rendere il sacro profano.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, 534, 20 maggio 2003.

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Sempre siano lodati (Ben Harper e i Blind Boys Of Alabama)

È domenica, no? Santifichiamola, una tantum, con un po’ di gospel. Ce lo meritiamo, perché siamo stati bambini cattivi.

Ben Harper & The Blind Boys Of Alabama - There Will Be A Light

“Chi ha tempo non aspetti tempo” e figurarsi chi di tempo sa di averne poco. È il caso di quei vispi giovanotti che rispondono al nome di Ragazzi Ciechi dell’Alabama, formatisi nel 1939 (avete letto bene) a una scuola per non vedenti e assurti a fama diffusa, ben oltre il ristretto circolo degli appassionati di gospel, quei sessantadue anni dopo, quando vedeva la luce “Spirit Of The Century”, primo loro CD per la Real World di Peter Gabriel. Più attivi che mai da allora: due eccelsi album, “Higher Ground” e “Go Tell It On The Mountain”, sono andati dietro a quel piccolo capolavoro e, quel che più lascia felicemente attoniti, i Boys si sono dati da fare anche con tour e comparsate in dischi altrui. Come facciano alle loro – ahem – reverende età (due dei fondatori, Clarence Fountain e George Scott, sono ancora in squadra e con loro l’antico rivale Jimmy Carter, già con i Five Blind Boys Of Mississippi) lo sanno solo loro e un Dio che deve per forza esistere, se persone di questo valore artistico e umano hanno trascorso la vita cantandone le lodi. Se c’è, facesse in modo di conservarcele a lungo. Per intanto e a proposito di collaborazioni e tour: in un paio dei titoli suddetti Ben Harper aveva fatto capolino e al termine di una sua campagna concertistica europea a Parigi i Blind Boys Of Alabama agivano come supporto, spettacolo raccontato con toni da leggenda da chi c’era e suggellato da una comune lettura di I Shall Not Walk Alone. Al ritorno in patria si incontravano di nuovo per sedute di registrazione programmate per mettere su nastro uno o due brani per il nuovo lavoro dei Ragazzi. Come si racconta nel libretto di “There Will Be A Light”, due canzoni diventavano cinque, cinque undici e nel giro di otto giorni era un album ad avere preso forma. Ed eccolo, per la gioia di chi ha l’uno e gli altri sotto contratto e si trova per le mani un prodotto ottimo per le festività natalizie e destinato poi a fare catalogo per decenni.

Il lettore medio di “Audio Review” avrà probabilmente più familiarità con Harper, autore, cantante e chitarrista che da dieci tondi anni – esordiva nel 1994, già su Virgin, con “Welcome To The Cruel World” – concilia qualità e quantità, ottimi dischi e vendite rimarchevoli. È un Lenny Kravitz con meno lustrini e più sostanza, ispirato come costui da Jimi Hendrix e Curtis Mayfield, John Lennon e Led Zeppelin ma con in più una gran passione per Bob Marley e Robert Johnson, Van Morrison e la Stax e – naturalmente! – il gospel. Si potrebbe definirlo derivativo, a dire il bicchiere mezzo vuoto, ma tali e tanti sono gli articoli di pregio che ha messo nel tempo in catalogo che conviene dire il bicchiere mezzo pieno e riconoscerlo, semplicemente, un perpetuatore di tradizioni, apprezzabile erede di maestri di superiore levatura. Atipico nel suo percorso sebbene ne rivisiti alcune tappe (Pictures Of Jesus si incontrava ad esempio nel precedente “Diamonds On The Inside”: diversissima versione portata a spasso per l’Africa da Ladysmith Black Mambazo), “There Will Be A Light” ascolto dopo ascolto insinua un dubbio: che sia il suo album migliore? Disco in ogni caso magnifico, da una dinoccolata Take My Hand che rimanda a certo Ry Cooder a una morbidissima Where Could I Go che rievoca insieme Otis Redding e Sam Cooke, da un’interpretazione di favolosa intensità di un Bob Dylan minore fatto maggiore, Well, Well, Well, a una Mother Pray tutta a cappella che lascia senza fiato, a una traccia omonima da Van quando era The Man. Giusto una cosa spiace: 38’57”. Troppo poco.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.251, novembre 2004.

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Elvis Goes To Church: il Presley gospel

Elvis Presley - His Hand In Mine

Nella vulgata comune a rovinare il Re del Rock’n’Roll, che comincerà allora a “normalizzarsi” avviandosi sulla strada che lo trasformerà rapidamente da inconsapevole rivoluzionario a innocuo intrattenitore, è la chiamata alle armi nel marzo 1958. Per quanto ci sia in essa molto di vero, non è esattamente così. Quando arriva a Fort Chaffee, Arkansas, Elvis su quella via è in realtà bene incamminato e pare lontanissima, quando non sono passati che quattordici mesi, la sua terza e ultima apparizione all’“Ed Sullivan Show”, quella in cui lo hanno inquadrato solo dalla vita in su per evitare che con gli ammiccanti movimenti del bacino quel bianco troppo negro eserciti appieno la sua influenza corruttrice sulla gioventù d’America. Quel breve lasso di tempo è bastato al Colonnello Parker per rendere pienamente operativo un piano tanto semplice come obiettivo quanto complesso e sofisticato nell’attuazione. Un piano che non ha nulla di ideologico, sia chiaro, essendone l’unico scopo gettare le basi per una carriera nello showbiz che duri a lungo, che continui quando la moda del rock’n’roll non sarà che un vago ricordo. Essenziale in tal senso è che il pubblico adulto smetta di percepire Elvis come un lascivo delinquente che sta minando alla base un intero sistema di valori che arriva da lontano, dai Padri Pellegrini, e cominci a cogliere quanto sia invece un bravo ragazzo. Nella metamorfosi presleyana da teppista con il quale non fareste mai uscire vostra figlia a genero ideale giocano un ruolo decisivo, quasi alla vigilia di un servizio militare che il manager trasformerà in un circo mediatico come non se n’era mai visto uno simile, le riprese del primo film da attore protagonista, King Creole, e la pubblicazione di un “Elvis’ Christmas Album” che trascorrerà un mese filato in cima alla classifica degli LP pop di “Billboard” e da allora ha venduto nei soli Stati Uniti oltre dieci milioni di copie, cifra che ne fa la raccolta di brani natalizi di maggior successo di sempre. Il lettore che ce l’ha presente ricorderà bene come gli ultimi quattro dei dodici titoli in scaletta non siano canzoni natalizie in senso stretto bensì dei gospel. Proprio quelle tracce lì avevano già visto la luce, nell’aprile precedente, sull’EP “Peace In The Valley”. Lungo preambolo per dire che sbaglierebbe grandemente però chi in quelle incisioni datate 12, 13 e 19 gennaio ’57 volesse vedere il momento cruciale in cui il nostro eroe si lasciò alle spalle – ormai marionetta mossa da un abilissimo burattinaio – la rivoluzione inscenata da That’s Alright Mama. La verità è che nel percorso formativo del giovane Elvis Presley il gospel ebbe un ruolo importante, che lo amò sempre moltissimo, che non solo il Colonnello non dovette affatto insistere per fargliene registrare ma che addirittura fu l’artista a premere in tal senso. Al manager non dovette sembrare vero.

Sulla copertina di “His Hand In Mine”, 33 giri pubblicato originariamente nel novembre 1960 su RCA Victor e fresco di ristampa su Speakers Corner non nella bella edizione mono ma nella comunque al pari convincente versione d’epoca in “living stereo”, il titolare siede a un pianoforte (che provvedeva in realtà Floyd Cramer a suonare) in abiti che sono la versione adulta del classico vestito da prima comunione. Faccia da ragazzino, occhione ceruleo spalancato, espressione innocente da bravo figliolo tutto casa e chiesa che sconfinerebbe nel verginale non provvedesse la sensualità delle labbra a fare sospettare che non è tutto santo ciò che a santo si atteggia. Sia come sia: Elvis ci credeva davvero, in tutti i sensi. Sia come sia: a mettere da parte ogni sovrastruttura ideologica, non si può non riconoscere, oltre che la sincerità, la grandezza nell’ambito e non solo nell’ambito della dozzina di incisioni qui contenute. Il primo dei tre album di gospel pubblicati dal nostro uomo (nel 1967 sarà la volta di “How Great Thou Art”, nel ’72 di “He Touched Me”) resta uno dei classici del genere, assolutamente all’altezza dei grandi maestri neri. Qui alcune delle migliori ballate della sua intera produzione, qui una strepitosa dimostrazione – offerta con la massima naturalezza, quasi distrattamente – di una capacità più unica che rara nel bilanciare energia, controllo della stessa, precisione. E come cantano i Jordanaires! Insomma: non è sempre il diavolo ad avere i ritornelli migliori.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.351, maggio 2014.

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Naomi Shelton & The Gospel Queens – Cold World (Daptone)

Naomi Shelton & The Gospel Queens - Cold World

Piena la storia della black di gente che, partita dal sacro, è poi andata a batter cassa (benché anche restando in chiesa qualcuno se la sia cavata non male, da Mahalia Jackson in giù) passando al profano: Sam Cooke quello che suscitava più polemiche. Rimarcando quanto siano labili i confini fra soul e gospel proprio una canzone di costui – e anzi “la” canzone di Sam Cooke, A Change Is Gonna Come – suggellava cinque anni fa, in una lettura quantomai struggente, l’esordio in lungo in età che si può ben dire matura di Naomi Shelton. Una che ha compiuto esattamente il percorso inverso e restano a testimoniarlo alcuni singoli funk leggendari fra dj e collezionisti. Era un gran bel debutto “What Have You Done, My Brother?”, solido il repertorio, di prim’ordine gli strumentisti e lo stesso le voci a contorno della leader. Una talmente brava da riuscire quasi a convincerci (quasi) che parli di Dio e con Dio quando intona con intensità bruciante canzoni con titoli come I Need You To Hold My Hand o He Knows My Heart.

Fattosi aspettare tanto a lungo da indurre il timore che la signora avesse deciso di lasciare isolato quel tardivo exploit, “Cold World” ripaga l’attesa con un’altra dozzina di brani dritti dagli anni ’60. Stilosi ma mai artefatti, densi di un sentimento denso della solita ambiguità. Tecnicamente è gospel, lo certificano argomenti e l’interagire fra la voce solista e un coro che pure qualche libertà pop se la prende, ma si attacca con una Sinner pigramente quanto schiettamente funk e ci si congeda con una Everybody Knows (River Song) dritta da un ideale libro della ballata sentimentale Stax. In mezzo e non di rado (ad esempio in I Don’t Know) del blues. Che sarebbe anche la musica del Diavolo, ma non ditelo a Naomi Shelton.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.354, agosto 2014.

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Mavis Staples – One True Vine (Anti)

Mavis Staples - One True Vine

“I like my man like I like my whiskey/aged and mellow”, cantava Esther Phillips quando era ancora Little Esther, e non se la prenderà Mavis Staples, che è donna di mondo oltre che di chiesa, se si estende un simile, profano paragone a una voce che sembra assurdo dire, gettando l’occhio a catalogo e storia pregressi, che più passano gli anni e più si fa invincibile, ma è proprio così. Favolosa questa seconda (terza? quarta?) giovinezza di una che ha appena festeggiato il settantaquattresimo compleanno e calpesta palcoscenici dacché ancora doveva spegnere l’undicesima di candelina. Principiava nel 2007 con l’approdo alla Anti e quel “We’ll Never Turn Back” sapientemente curato in regia da Ry Cooder e tutto incentrato sull’epopea della lotta per i diritti civili negli Stati Uniti dei ’60 e, dopo un parimenti strepitoso “Live: Hope At The Hidehout” spedito nei negozi alla vigilia delle elezioni che per la prima volta portavano un uomo di colore alla Casa Bianca, trovava essenziale continuità nel 2010 con “You Are Not Alone”. Prodotto, quello, da Jeff Tweedy degli Wilco. Squadra che vince non si cambia.

Non c’è niente da fare: qualunque cosa canti la più giovane di casa Staples automaticamente si trasforma in gospel, anche e tanto più stupefacentemente quando in origine non lo era. Vale per Can You Get To That, che nella versione primigenia dei Funkadelic inclusa nel capitale “Maggot Brain” più che rimandare a cerimonie domenicali prefigurava, con un bel po’ di anticipo, tal Prince Rogers Nelson e che adesso ha il cielo come unico limite e obiettivo. Differenza fatta tutta da Mavis, siccome l’arrangiamento attuale non si discosta, se non per dettagli scarsamente significativi, da quello del ’71. Vale tanto di più per una scarna, felpata e di intensità rabbrividente Holy Ghost, che inaugura l’album e con l’immediatamente successiva Every Step – appesa a un arpeggio statico fintanto che ritmica e coro non la fanno decollare verso empirei gioiosamente indicibili – ne stabilisce il tono. Arriva dai Low e, guarda che caso, da “The Invisible Way”, recente ed eccelso lavoro del trio di Duluth diretto da Tweedy. Che è l’autore di Every Step – e più avanti di una dolcisssima Jesus Wept; e infine del blues che strascicando i piedi si porge da congedo di One True Vine – e non si sa se preoccuparsi del prossimo Wilco, temendo che stia dando via le canzoni migliori, o viceversa sognare – preso atto di un simile stato di… grazia – il capolavoro che cancellerà i capolavori precedenti. Relativo a quel punto lo stupore nello scorgere la firma di Nick Lowe sotto una giocosa Far Celestial Shore, rassicurante (fin quando un’ustionante chitarra solista non apre il primo e unico scorcio e squarcio di rock) vedere quella dello scomparso da lungi patriarca di casa Staples, Roebuck detto “Pops”, sotto l’altrimenti suadente I Like The Things About Me. Sow Good Seeds, invita esplosiva la settima traccia di dieci. Woke Up This Morning (With My Mind On Jesus) racconta un’esultante nona e sì, capita pure a me di svegliarmi e rivolgere come prima cosa il pensiero a Nostro Signore, ma in maniera diversa da questo scricciolo con voce da leonessa. Ad ascoltarla, Mavis Staples, quasi ti viene voglia di emendarti, di pentirti, di crederci. D’altronde Bobbie Dylan non è uno che si innamora di persone banali.

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