Archivi del mese: Maggio 2020

Julian Cope – Self Civil War (Head Heritage)

Chissà a che libro sta lavorando Julian Cope per inaugurare il nuovo decennio dopo averne dato alle stampe nello scorso quattro uno più monumentale e acclamato dell’altro: The Megalithic European (il suo secondo volume da studioso di siti preistorici), Japrocksampler (un’indagine approfonditissima sul rock giapponese degli anni ’70), Copendium (ode ai suoi album “di culto”: qualche centinaio) e One Three One (infine un romanzo: ambientato in Sardegna!). Che nel frattempo abbia continuato a pubblicare dischi (da solista o a nome Dope) e in numero spropositato (una quindicina) sembra importare a pochi pure fra gli estimatori di lunghissima data e giustamente, trattandosi perlopiù di collezioni sgangherate nel solco della sconcertante accoppiata – “Skellington” più “Droolian” – con cui il Druido sabotava a fine ’80 una carriera post-Teardrop Explodes artisticamente notevole e premiata da buoni riscontri commerciali. Salvo poi tornare sui suoi passi e calare nella prima metà dei ’90 un poker d’assi – “Peggy Suicide”, “Jehovahkill”, “Autogeddon” e “20 Mothers” – nei quali è declinato al meglio un rock post-psichedelico peculiare nel suo assemblare le più disparate influenze e prodigo di bei guizzi pop. Fase che si concludeva nel ’96 con il deludente “Interpreter”, ultimo suo lavoro per una major. Quanto gli è andato dietro, tutto griffato con il marchio personale Head Heritage, è in massima parte faccenda per cultori terminali.

Non così “Self Civil War”, la sua cosa migliore da un quarto di secolo in qua. Fantasmagorico nel suo coniugare krautrock e Black Sabbath, Stooges, Doors, Velvet Underground, folk fiabesco e cavalcate guerresche. A un certo punto salta fuori una Billy che meglio sviluppata in epoca Mercury/Island sarebbe stata un singolo perfetto.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.419, aprile 2020.

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Audio Review n.420

È in edicola dalla scorsa settimana il nuovo “Audio Review”. Per problematiche legate alla situazione eccezionale che stiamo vivendo è stato necessario anticipare il numero estivo, quello tradizionalmente datato luglio/agosto, e dunque questo reca la dicitura maggio/giugno. Come puntualizza nell’editoriale il direttore Mauro Neri non cambia tuttavia nulla riguardo al totale dei fascicoli della rivista che usciranno nel corrente anno. Il numero 421, fuori verso fine giugno, sarà datato luglio e quello dopo ancora, fuori a fine luglio, agosto.

Ciò doverosamente premesso, passo a dire del mio apporto, che a questo giro si è concretizzato in recensioni dei nuovi album di Badge And Talkalot, Brendan Benson, Cowboy Jukies, Baxter Dury, Joe Ely, Frazey Ford, Public Practice, Lee Ranaldo & Raül Refree, Smoke Fairies, Sorry, Soul Asylum, Yves Tumor, M. Ward, Warlocks e Waxahatchee, più una colonna dedicata a un vecchio classico di Janis Ian. Nella rubrica del vinile ho scritto diffusamente di Dr. John e più in breve dell’Art Farmer Quartet.

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Il primo – e migliore – Little Steven

A quel punto da cinque anni nella E Street Band e agli occhi di tutti il numero due dopo naturalmente il Boss, nel 1980 Miami Steve Van Zandt si ritrovava a co-produrre “Dedication”, il 33 giri del grande ritorno di Gary U.S. Bonds, e in EMI piaceva assai il suo modo di lavorare (naturalmente qualcosa contava che il disco finisse nei Top 40 di “Billboard” e un 45 giri da esso tratto andasse al numero 11). Tanto da offrirgli un contratto da solista e per il nostro uomo era l’occasione di provare a uscire dal sempre più lungo e ampio cono d’ombra di Bruce Springsteen. Nessun brano scritto dall’amico e datore di lavoro, che certamente qualcuno glielo avrebbe regalato volentieri, nel debutto datato 1982 del gruppo assemblato dal nostro uomo, che per l’occasione si ribattezzava pure Little Steven a marcare ulteriormente le distanze (non tornerà a suonare con Springsteen e la E Street Band che nel ’95). Avrebbe aiutato certamente, una canzone firmata dal Boss, vendite che saranno abbastanza modeste (un numero 118 USA; faranno meglio i successivi, pure decisamente meno validi, “Voice Of America” e “Freedom – No Compromise”), ma in compenso “Men Without Women” resta l’album migliore confezionato da Van Zandt addirittura fino al recente e godibilissimo “Summer Of Sorcery”. Questione di sound – spettacolare nel suo unire un rock’n’roll di stampo quasi garagista con un rhythm’n’blues parimenti esplosivo, solo occasionalmente addolcito da una vena soul – piuttosto che di scrittura. E alla fine i due pezzi che ricordi di più sono i più morbidi, la romantica Princess Of Little Italy, una I’ve Been Waiting con fiati avvolgenti e un’idea di gospel.

Fortunatamente acquistabile anche separatamente, “Men Without Women” è incluso nel box in tiratura limitata a 1000 copie “Rock N Roll Rebel – The Early Work”, contenente un libretto/librone di 144 pagine, sette LP e quattro CD di francamente pletoriche rarità. Le dieci che vorrebbero rendere questa riedizione dell’esordio di Little Steven una “Deluxe” sono scaricabili a parte (pure in file di alta qualità, FLAC o AIFF 96 kHz/24 bit) ma davvero, a meno che non siate fan terminali, non ne avete bisogno. Della ristampa in vinile fedele alla scaletta originale, magari sì.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.415, dicembre 2019.

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Ciao, Ezio (ricordi sparsi di incontri con un Maestro vero)

Ho un ricordo nitidissimo dell’ultima volta che incrociai, letteralmente, Ezio Bosso. Ero in Piazza Savoia e lo vidi sbucare sulla sua carrozzella nel pieno del flusso del traffico che arrivava da Via Corte d’Appello. Ci scivolava in mezzo con uno sprezzo del pericolo che mi fece rizzare i capelli in testa, ma nonostante la velocità pazzesca a cui andava dovette scorgermi con la coda dell’occhio perché subito accostò, con un’altra manovra da farmi gelare il sangue, e attaccò allegro a chiacchierare, con me e la mia fidanzata di allora, che poi è diventata mia moglie e che naturalmente gli presentai. Rimanemmo lì una decina di minuti e bastarono alla Laura per restarne folgorata. Ezio faceva quell’effetto lì, a tutti e soprattutto a tutte. Poi si congedò, sfrecciò via e che ne sapevo che era un’ultima volta? All’epoca lui aveva una residenza a Palazzo Barolo, io fino al mese prima avevo abitato in Via Garibaldi e insomma non è che fossimo vicini di casa ma quasi. Così, molto banalmente, quando andavo a far spesa al Carrefour che è su un angolo di quella piazza mi succedeva sovente di trovarlo seduto nel dehors del bar a fianco. Se era da solo o al limite con un’altra persona mi fermavo a parlare un po’. Se invece stava tenendo corte mi limitavo a un cenno di saluto e tiravo dritto. Davo per scontato che ci sarebbe stata una nuova occasione, anche dopo avere traslocato, ma mi ero spostato giusto tre traverse più in là. Eravamo ancora quasi vicini di casa. Solo che proprio in Piazza Savoia, a un trenta metri da dove ci scambiammo parole e sorrisi per l’ultima volta, una o forse due settimane dopo – era il 5 novembre 2015 – un’auto mi investì, cambiandomi la vita per sempre.

Così quando il Maestro Ezio Bosso il 10 febbraio dell’anno dopo emozionò l’Italia suonando Following A Bird a Sanremo stavamo messi quasi – ma un quasi molto grosso – uguale. Pure io in carrozzella e con una disabilità grave e però con l’enorme differenza che, diversamente da lui, sapevo che da quella carrozzella, una seduta di fisioterapia dopo l’altra, mi sarei alzato. Non sarei tornato come nuovo, decisamente no, e però andare a ritroso per un bel pezzo si poteva. Riprendere a vivere con un orizzonte temporale indefinito, non con uno che sai per certo essere limitato, così come sai che nell’attesa non te la passerai per niente bene. Mi diede tanta forza, Ezio a Sanremo, quando ero esausto dopo avere fatto dieci passi attaccato a due parallele e dicevo a me stesso dai, e che cazzo!, se lui messo com’è riesce a fare quello che fa, tu altri dieci passi adesso te li suchi e poi dieci ancora, e finiscila di commiserarti, coglione. Mi rese anche molto popolare nell’Unità Spinale del CTO, perché in qualche modo si venne a sapere che era un mio amico e allora tutti a chiedermi di lui, di com’era, di come non era. Gente che da lì sarebbe uscita anche meglio di me (pochi; un paio), gente paralizzata per sempre dalla cintola in giù (o, bizzarramente, dalla cintola in su), o che muoveva solo la testa e un braccio, o una mano appena e quella usava per spostarsi su un mezzo motorizzato. Io lo so che Ezio detestava venire percepito per cominciare come un disabile. Non so invece (ma immagino di sì) se si rendesse conto di essere divenuto un faro per chi – così dalla nascita, o per via di una malattia, o un trauma – deve convivere con un handicap serio. Guarda quello lì. Che forza d’animo. Tipo Zanardi, solo che suona il piano e dirige pure le orchestre. Quello penso gli facesse piacere, se gli capitava di pensarci.

Pure della sera in cui lo conobbi conservo un ricordo netto, nonostante temporalmente non sappia situarla con precisione. Fine anni ’90 in ogni caso, massimo 2000 o 2001, almeno un due anni prima dunque che la colonna sonora di Io non ho paura facesse valicare alla sua fama di enfant prodige (e un po’ terrible) il ristretto circolo degli amanti della musica classica e, in particolare, della classica contemporanea, suscitando parecchie invidie nell’ambiente. Era quel tipo di situazione che ho sempre adorato e in cui mi sono trovato immancabilmente da imbucato, una di quelle cene dopo un concerto, o uno spettacolo in teatro, o un giorno di riprese, in cui si mangia bene e si beve spesso meglio, e tanto, e i musicisti o gli attori o i registi si rilassano, talvolta sbracando alla grande, e spettegolano come manco le lavandaie o le portinaie di una volta. Ezio era a centro tavola, la solita donna abbagliante a fianco (che poi, imparerò, spesso non sarà la solita), e comiziava da par suo, irresistibile. Ero lì su invito del mio amico di più lunga data, compagno di banco al liceo e violinista di notevole caratura, al tempo e per molto ancora il partner in crime preferito dal Maestro. Mi divertii immensamente. Sono un uomo fortunato. Ne ho passate certamente più di quante non me ne tornino alla memoria in questo momento di serate così con Ezio Bosso. Me ne viene in mente una ad Aosta, dopo una meravigliosa sonorizzazione per un vecchio film muto nella cornice di suo già suggestiva dell’anfiteatro romano. Ma più che altro mi si ripresentano davanti momenti sempre felicemente epicurei ma più intimi, io, il mio amico di cui sopra ed Ezio, che nel frattempo mi aveva preso in simpatia, e al massimo una o due persone ancora. La mia prima volta in quello che è diventato il mio ristorante torinese preferito, dove il Maestro era un habitué e un tavolo per lui lo rimediavano sempre, anche quando era tutto pieno. Una notte in un locale fighissimo di Via della Consolata che non esiste più e durante la quale (oh, stiamo parlando di gente alla quale è difficile star dietro) mi sa che mi fecero eccedere con i superalcolici, però a casa che era a due passi riuscii a tornarci camminando in linea retta. Un’altra in pieno agosto sull’immenso terrazzo di casa dell’amico violinista, un silenzio intorno in una San Salvario deserta che per sentirne un altro così c’è voluto il lockdown, e noi a grigliare salsicce e bistecche, bere birra e sparare cazzate. E un’altra ancora, che a ripensarci mi si stringe il cuore, a fare a momenti l’alba sotto i portici di Corso Valdocco. Ezio era già malato, gli era venuta questa parlata strana da ubriaco così penosamente diversa dalla voce che conoscevo e camminava aiutandosi con un bastone, eppure continuava a sprizzare gioia di vivere. Però un filo di umana malinconia sotto sotto non potevi non coglierlo. O così mi sembrò.

Ho potuto godere – io che di musica classica conosco giusto i classici e insomma non ne capisco niente ma Ezio diceva che non c’è niente da capire o, meglio, capirla è alla portata di chiunque: la Bellezza ci trascende e ci rapisce – non soltanto di concerti magnifici, e di quanto veniva dopo, ma del prender forma di taluni di quegli spettacoli. Nell’estate 2010 (o era il 2011?) trascorsi da ospite in un antico borgo abbarbicato alle montagne liguri una settimana durante la quale lo vidi preparare giovani allievi e allieve a farsi orchestra. Guidandone il percorso con mano tanto lieve quanto ferma e tuttora non saprei dire se a impressionarmi maggiormente fu l’eccezionale dimostrazione di etica del lavoro applicata cui stavo assistendo o la leggerezza di tocco della regia. In un’unica occasione, ravvisando una diminuzione di tensione, uno sfilacciarsi del suono, rimproverò gli orchestrali. Non fu per niente una scenata, ma divenne improvvisamente così serio che non volava una mosca, disse quanto aveva da dire senza mai alzare la voce e poi “da capo, dal punto…”. Lo risuonarono perfetto quel movimento. Un gran sorriso. “Visto che lo sapete fare? Pausa.”

Una volta l’ho intervistato, Ezio Bosso. Anzi: due. Mi era venuta l’idea che un personaggio così trasversale e – in ogni senso – curioso, uno che non solo a inizio carriera aveva avuto un piccolo flirt con il rock ma come attitudine era strepitosamente rock’n’roll, potesse risultare interessante per il pubblico del “Mucchio”.  Proposi. Approvarono. Ezio ne era entusiasta e questo suo entusiasmo gli veniva dalla rara occasione (tenete conto che stiamo parlando del 2008; la sua notorietà era un ventesimo, un cinquantesimo di quella che gli regalerà Sanremo e tutto quanto è venuto dopo) datagli di rivolgersi a una platea tanto diversa dalla sua usuale. Così mi preparai per bene, comprai i dischi che già non avevo (le colonne sonore; cercatele, sono stupende) e per una paradisiaca settimana mi ci immersi. All’intervista che – per dire quanto il nostro uomo fosse fuori da ogni schema – era fissata per l’intervallo fra prove e concerto non in uno dei luoghi tipici della musica classica bensì in un club dove abitualmente si suonava elettronica, e pure situato in una zona alquanto malfamata, arrivai però senza domande scritte, giusto con un canovaccio in testa. Tanto, conoscendolo ormai discretamente bene, sapevo che sarebbe bastato lanciargli due o tre ami e al resto avrebbe provveduto lui. Fu eloquente, torrenziale, esilarante. Espose la sua biografia, parlò incidentalmente anche del suo rapporto con il rock (aveva un debole per gli Who: “Baba O’Riley, quel pezzo è genio puro”) e molto sparlò, sia della ristrettezza mentale delle accademie che della pochezza di certa critica, che di quanto poco peso si dia in Italia alla cultura. E così via, sparando ad alzo zero sul fenomeno montante Giovanni Allevi, raccontandomi di quella cantante là con cui aveva lavorato “che avrà anche delle tette da paura ma di riuscire a farla cantare intonata non c’è verso”. Se la devo dire tutta fu a tratti guascone, un po’ sborone se preferite, e però era fatto così, ti faceva scoppiare a ridere pure quando era serio e diceva cose serissime ridendo, e comunque a un Genio autentico glielo puoi perdonare se ogni tanto gli scappa di fare un po’ la ruota a mo’ di pavone, visto che se lo permette gente che viceversa non vale nulla. E niente, è quasi ora di inizio spettacolo, gli dico che va bene così e che scopro? Che il tastino “rec” del mio portatile digitale è incastrato. Comincio a sudare freddo, panico totale, riesco dopo due minuti di cauti armeggiamenti a disincastrarlo e – lo avrete capito – constato di non avere registrato nulla. Ezio mi ha dedicato un’ora e mezza del suo tempo e avrebbe ogni diritto di incazzarsi. Invece mi vede lì annichilito, non fa una piega, mi batte con una mano sulla spalla e “tranquillo, la rifacciamo quando vuoi, che problema c’è?”. C’era che sarebbe venuta fuori una roba straordinaria. C’era che sapevo di avere perso un qualcosa di irripetibile con quel flusso lì, quel ritmo e quella verve così, e difatti quando alcuni mesi dopo la rifacemmo, a casa di un suo famigliare, non venne bene per niente e tutto per colpa mia, che avevo un sacco di grane di cui non sto a dirvi e la testa altrove, e quando chiusi perché era arrivato a trovarlo un conoscente, un dj mi pare, ero conscio che sarebbe stato necessario un sacco di “taglia e cuci” per provare a insufflare un alito di vita in quella cosina smorta. Feci che rinunciare direttamente (Ezio mai me lo rimproverò; fece giusto una volta una battutina, ma sogghignava) e ancora oggi ho sul pc un file .wav di trentacinque minuti con lui che parla e una data: 11 gennaio 2009. Lui che parla con la voce di prima che si ammalasse e non so se avrò mai il coraggio di riascoltarlo.

Deve essere per via di quel secondo appuntamento da fissare che nella rubrica del mio cellulare sotto “Bordone Carlo” ci sta “Bosso Ezio”, ma non ricordo di averlo mai chiamato. Ci si vedeva per caso o insieme all’amico mio, all’amico nostro, che si occupava sempre lui di organizzare. E dopo quell’ultimo incrociarsi, diversi anni dopo, in Piazza Savoia di cui ho raccontato all’inizio non ho mai osato cercarlo. Lui non abitava più a Torino, su come stesse avevo chi mi informava e mi pareva brutto disturbarlo mentre magari stava studiando o suonando o riposando, o sottoponendosi a cure che purtroppo potevano solo ritardare l’inevitabile. Ho assistito da lontano a questo suo bruciare, in quattro anni che per lui devono essere stati insieme terribili ed esaltanti, in uno splendore abbacinante da falò che ha stregato l’Italia intera. Le ultime due volte (l’ultima appena cinque settimane fa, a “Propaganda Live”) l’ho visto in TV, come tutti, ma io con dentro una felicità da spaccarmi il cuore perché – contro ogni logica e notizia – mi sembrava che in qualche miracoloso modo stesse meglio. Per certo era migliorato il suo eloquio, tornato non quello di un tempo e tuttavia perfettamente intelligibile. E non soltanto quello, pure il gesticolare, appassionato come le parole. Così ieri mattina sono stato sorpreso con la guardia abbassata. Ho pianto molto. Ho avvertito un senso di vuoto come due sole altre volte in vita mia.

Oggi non più. Ho passato la giornata scrivendo queste righe, con la musica di Ezio che risuonava nel mio studio e lui accanto a me, una presenza tangibile. Sono sereno, grato per la buona sorte che ho avuto di conoscerlo. Non c’è più, ma c’è ancora. Ci sarà sempre.

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C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Pretty Things (per Phil May, 9/11/1944-15/5/2020)

Nel giorno più orribile di questo anno orribile anche Phil May ci ha salutato, per complicazioni seguite a un intervento chirurgico cui si era dovuto sottoporre a seguito di un banale incidente in bici (fare sport alla tua età? ma chi ti credevi di essere, Phil? Mick Jagger?). L’ultimo album della band di cui era da sempre la voce risaliva a cinque anni fa e fu un grandissimo piacere per me ascoltarlo e scriverne. Un congedo superbo, “The Sweet Pretty Things (Are In Bed Now, Of Course…)”. Difficile immaginarne uno migliore.

“C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Pretty Things”: non suona altrettanto bene, eh? Poveri Pretty Things, che erano quelli davvero brutti, sporchi e cattivi – l’unico degli Stones alla loro altezza in tal senso Keith Richards – e che in quanto tali, dopo avere piazzato alti nelle classifiche UK tre singoli e il debutto a 33 giri, si ritrovavano condannati a una vita da gruppo “di culto”. Anche a dispetto di una capacità di reinventarsi notevole: psichedelici nei tardi ’60 (e con all’attivo due classici del genere: “S.F. Sorrow” e “Parachute”), hard nei ’70, quasi new wave all’alba degli ’80. Oggi quegli altri vegliardi degli Stones girano per stadi e loro per club di serie C. In uno di questi mi capitava di vederli non più tardi di un paio di anni fa e vi garantisco che – come direbbe il poeta – spaccarono il culo ai passeri.

Ogni tanto confezionano un nuovo album (il precedente è del 2007) e di solito è lì che casca l’asino. Loro no. Superbo nei suoni vintage (è stato registrato dal vivo in studio, con amplificatori valvolari e mixer e strumentazione rigorosamente “d’epoca”), “The Sweet Pretty Things (Are In Bed Now, Of Course…)” oltre alla bella forma esibisce pure un sacco di sostanza. Come un piccolo compendio di una vicenda lunga oltre mezzo secolo, di un canone più sfaccettato di quanto non si pensi. Attacco super, con una The Same Sun fra hard, errebì bianco e psichedelia, e a seguire l’affilato blues And I Do, una Renaissance Fair (dal catalogo Byrds) all’LSD, i Seeds rifatti come fossero l’Experience di You Took Me By Surprise, una Turn My Head dritta dal ’67. Sarebbe giusto… il primo lato. Sull’ideale retro, ovazioni per una Greenwood Tree un po’ Grateful Dead e per la ballata alla Who Hell, Here And Nowhere.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review” n.368, ottobre 2015.

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The Orb – Abolition Of The Royal Familia (Cooking Vinyl)

Diciamo che la concisione non è mai stata una caratteristica degli Orb, sin da quando nell’ottobre 1989 esordivano con un singolo dal titolo chilometrico, A Huge Ever Growing Pulsating Brain That Rules From The Centre Of The Ultraworld, quanto la durata, oltre diciannove minuti, cui sette mesi dopo davano seguito con il debutto in… ahem… lungo “Adventures Beyond The Ultraworld”, 109’41” e per contenerlo ci volevano due CD. Facevano scalpore ma a fare il botto era nell’estate ’92 “U.F.Orb”, “appena” settantaquattro minuti, subito acclamato come un classico (giustamente: lo è) e dritto al numero uno delle classifiche UK. Diciamo che la concisione per la creatura di Alex Paterson – nel cui vasto repertorio non mancano i brani da tre, quattro o cinque minuti ma spesso usati, oltre che per dare respiro, con funzione di raccordo o per agevolare un cambio di stile, passo o atmosfera – sarebbe controproducente, perché è questa musica che ha bisogno per rendere di un respiro ampio. Diciamo però che, alle spalle l’era in ogni senso aurea degli anni ’90, anche la mancanza di concisione l’ha danneggiata, perché per reggere certe durate l’ispirazione deve volare alta, se no si cade e ci si fa male e – peggio – si annoia. Talvolta gli Orb hanno rischiato di ridursi a macchietta, ma qui no.

Congiura di opposti per la quale si dovette inventare un’etichetta che è un ossimoro, ambient-house, il loro diciassettesimo album è forse il più solido e intrigante del secolo seminuovo, 77’45” con agli estremi una Daze fra soul e Ibiza e le fughe per tangenti Tangerine Dream di Slave Till U Die No Matter What U Buy. In mezzo, l’intero catalogo di suggestioni della casa: dalla techno al dub, da scorci floydiani a momenti in cui fanno capolino lì Jon Hassel, là David Sylvian.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 418, marzo 2020.

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Quando i Kraftwerk diventarono i Kraftwerk (per Florian Schneider, 7/4/1947-6/5/2020)

Lo scrive Simon Reynolds in Generation Ecstasy, voluminoso tomo datato 1999 nel quale raccontava “il mondo della techno e la cultura del rave”: il sound futuristico e robotico dei Kraftwerk venne influenzato dall’adrenalinico, furente rock’n’roll che si suonava nella Detroit di fine anni ’60. Nel più recente (2014) Future Days, indagine sul krautrock che con più attenzione per certi minori avrebbe costituito la parola definitiva sull’argomento, David Stubbs conferma: fra le rare influenze riconosciute da Florian Schneider e Ralf Hütter figurano gli Stooges. Il che sul subito spiazza e però più ci pensi e più la cosa ha un senso e scorgi collegamenti. La batteria sferzante di Scott Asheton è così diversa dalle percussioni metronomiche di Wolfgang Flür e Karl Bartos? Quello sferragliare di chitarre dalla mimesi ferroviaria inscenata in Trans-Europe Express? Non sono in fondo gli spettacoli, per il resto antipodici, che Iggy e Ralf ancora portano in giro (applauditi e riveriti come non mai) negli anni ’10 del secolo nuovo entrambi delle coreografie? A concentrarsi solo sulla musica si potrebbe poi avere la grossa sorpresa – ventidue testimonianze in “Minimum-Maximum”, doppio dal vivo licenziato dai tedeschi nel 2005, quando Florian faceva ancora parte del progetto – di scoprire che, mentre I Wanna Be Your Dog, No Fun, Search And Destroy si ripropongono all’infinito sostanzialmente uguali a se stesse, micro e macrovariazioni hanno interessato nel tempo, nella riproposizione live, il corpus dell’opera kraftwerkiana.

Scorgi collegamenti e chiudi cerchi, siccome la Motor City che a fine ’60 faceva da sfondo alle gesta di MC5 e Stooges sul versante black vedeva la Motown cominciare, dopo i disordini dell’estate ’67, il trasloco di uffici e studi a Los Angeles, la ribalta occupata dalla collisione fra soul, funk e psichedelia dei Funkadelic di George Clinton. E “la techno sono George Clinton e i Kraftwerk chiusi insieme in ascensore”, come dirà con fulminea sintesi Derrick May, uno dei padri fondatori del genere essendo gli altri Juan Atkins e Kevin Saunderson. Tutti e tre, oltre che neri, di Detroit. Siamo arrivati a metà anni ’80 o se preferite ai giorni nostri. “Per la techno i Kraftwerk rappresentano ciò che Muddy Waters fu per i Rolling Stones: l’origine di tutto, l’imprinting”, dice Kodwo Eshun, regista e scrittore afrobritannico che nel 1998, in More Brilliant Than The Sun, elaborava “uno studio delle visioni del futuro in musica da Sun Ra ai 4 Hero”. Confermando una volta di più il magistero esercitato dal gruppo di Düsseldorf su tanta black. Ma ciò soprattutto a partire dall’album successivo a questa accoppiata. Tuttavia quella che gli faceva superare i confini patri.

Nondimeno: natura non facit saltus e la storia dei Kraftwerk non fa eccezione. Nell’estetica: le copertine austere dei primi due LP (la seconda giusto una variazione cromatica di quella del debutto) potrebbero appartenere a un periodo successivo. Nella strumentazione: che gradualmente aggiunge e sottrae pezzi e ovviamente la scrittura si evolve in rapporto a essa. Se nell’omonimo esordio l’armamentario è – con le interessanti aggiunte di violino e flauto e la non meno intrigante assenza del basso – quello del rock e sono uso ed effettistica a fare adombrare più elettronica di quanta non ve ne sia, in “2” appare, in Klingklang, una primitiva “rhythm machine” e per la popular music è una prima assoluta, record condiviso con la hit di Sly & The Family Stone Family Affair. La composizione occupa pressoché per intero la prima facciata e non si può non cogliervi, nella distesa sezione centrale, un anticipo di quanto si ascolterà, due dischi e quasi tre anni dopo, nella title track di “Autobahn” (inoltre di identica collocazione in scaletta). Nel 1972 con grosso sforzo economico vengono acquistati i primi sintetizzatori, un Minimoog e un EMS, messi a frutto l’anno dopo in “Ralf und Florian”, dove però piano e organo Farfisa risultano ancora dominanti. Dopo due lavori interamente strumentali fa la sua comparsa la voce, in Tanzmusik e in Ananas Symphonie. Nella seconda, deformata da un vocoder. Come dire, in un colpo, che i Kraftwerk adesso usano le macchine e le macchine parlano, sebbene limitandosi a vocalizzi senza parole nel primo pezzo citato e a recitare per alcune volte il titolo nel secondo.

Di “Autobahn”, pubblicato nel novembre 1974, esistono diverse copertine. Fondamentalmente due ma della prima, quella ideata in origine per il mercato tedesco e adottata pure in Francia, Italia e Stati Uniti, si contano varie versioni: con o senza cartello stradale, con o senza cruscotto e con sul retro Flür oppure il grafico e poeta Emil Schult a far compagnia a Ralf, Florian e Klaus Röder, chitarrista e violinista parte in commedia per quest’unica volta. Dettagli. Importa di più che l’artwork della stampa UK adotti una stilizzazione geometrica, le due corsie interrotte da un cavalcavia, che appare o meglio ci appare assai più Kraftwerk. E però con il senno del poi, di come il gruppo evolverà in una vicenda, come si sottolineava dianzi, in continuo divenire. Almeno fino a “Computer World” (dunque quasi per intero) incluso. Ma gli uomini-macchina sono lontani, qui due vetture solitarie corrono su un’autostrada per il resto deserta e circondata da un panorama verdeggiante, pastorale.

Stiamo viaggiando sull’autostrada / di fronte a noi un’ampia vallata / il sole splende con raggi scintillanti / la strada è una pista grigia / strisce bianche, verde lo spartitraffico / Accendiamo la radio / dall’altoparlante una voce: / stiamo viaggiando sull’autostrada.

Una portiera che si chiude, un motore che si avvia, due colpi di clacson, una voce filtrata che per quattro volte annuncia “autobahn”, sempre più alta e stridula. Un pulsare meccanico a far le veci del basso, una melodia elementare e solenne disegnata da una tastiera elettronica. Partiti! Viaggio che durerà quasi ventitré minuti (tutto il primo lato del 33 giri), conducendoci fuori dalla città per vie sinuose squisitamente disegnate dal moog prima di farsi, passato il casello, più monotono. Però di una monotonia relativa, apparente. Cambia il paesaggio e scorci di natura incontaminata, al netto del nastro di cemento che la traversa, lasciano posto a capannoni e fabbriche. Il traffico si fa più intenso, si rallenta, si sorpassa, di nuovo si decelera e la guida non è più tanto piacevole. Affaticati, si giunge infine a destinazione, mentre calano le ombre della sera. La seconda facciata riparte da lì, da una Kometenmelodie che nella prima parte porge dei Kraftwerk singolarmente kosmische, non distanti dai Tangerine Dream, salvo nella seconda alzare i ritmi e farsi ballabile, preconizzando il techno-pop che imminentemente sarà, non fosse che gli manca la parola. Mitternacht dapprima galleggia estatica e quindi a momenti si arresta, fra clangori e cigolii di macchinari che inducono inquietudine subitaneamente cancellata dai cinguettii che introducono a Morgenspaziergang, il flauto di Florian Schneider che balena bucolico prima di essere riposto in una custodia poi chiusa in un cassetto, per sempre. Girotondo estatico e mai più i Kraftwerk saranno così pacificati e… hippie.

Altri “mai più”: è l’ultimo album dei Nostri prodotto da Conny Plank, che li aveva affiancati sin dai primissimi passi, quando ancora si chiamavano Organisation; l’ultimo non registrato in quel Kling-Klang Studio che, ormai adeguatamente attrezzato, sarà da qui in avanti covo e laboratorio esclusivo; nonché l’ultimo non completamente elettronico, visto che oltre al summenzionato flauto vi si ascoltano parti di chitarra e violino. Fino a quel punto discretamente famoso in una Germania che è ancora Repubblica Federale Tedesca ma sconosciuto altrove, il gruppo si ritrova proiettato in un’altra dimensione dal successo di quella che formalmente, avendo un testo e un cantato, sarebbe la sua prima canzone ma con quel minutaggio – 22’43” – naturalmente non lo è. Lo diviene con il radicale editing che la riduce a una durata canonica da singolo, 3’06” la stampa britannica, 3’28” tutte le altre. Risalta così un pop appeal talmente straordinario da rendere ininfluente il dettaglio della lingua, ostacolo di solito insuperabile nei mercati anglofoni. Contribuisce un fantastico equivoco, il “fahr’n fahr’n fahr’n” (sì, viaggiare, per dirla con Mogol/Battisti) scambiato per un “fun fun fun” di beachboysiana memoria e c’è chi azzarda paralleli fra i surfisti californiani che cavalcavano le onde e i ragazzi di Düsseldorf, che affrontano invece dune di asfalto. Lester Bangs sublimemente sbrocca da par suo, ma non sono ovviamente i favori della critica a far scalare ad Autobahn i Top 200 di “Billboard”, fino al numero 25, bensì quelli delle radio. Trascinato dalla già notevole performance, l’omonimo 33 giri fa persino meglio, arrivando al quinto posto. I Kraftwerk si affrettano ad andare in tour negli USA, ma è probabile, praticamente certo che per i discografici si tratti di monetizzare finché possibile un brano che percepiscono come una novelty. Un conto è uno Stevie Wonder che infiltra di elettronica ballate soul e ballabili funk, altro pensare che una musica che rinuncia totalmente agli strumenti convenzionali possa entrare stabilmente nei gusti delle masse.

Pubblicato nell’ottobre del 1975, ad appena undici mesi dunque dal predecessore, “Radio-Activity” parrebbe dar loro ragione, un numero 140 negli USA e fuori dai Top 20 tedeschi, la sola Francia ad adottarlo, in controtendenza, incoronandolo re della graduatoria di vendita degli LP. Ma chi volesse dedicare un attimo a studiarsi la storia dei Kraftwerk da un punto di vista mercantile scoprirebbe che il gruppo che rivaleggia con i Beatles per il titolo di più influente di sempre negli annali del pop non è comunque mai stato, nemmeno quando la sua popolarità era all’apice – nei tardi ’70, primi ’80 – un campione di incassi.

Artwork di pulizia Bauhaus e involontaria ambiguità nell’immagine di un apparecchio icona della propaganda nazista, laddove per tutto il resto l’equivoco è scientemente cercato sin da un titolo che gioca fra fascinazione per il primo strumento di diffusione della musica nei tempi moderni e mistica dell’era nucleare, il disco si presenta in prospettiva (come già “Ralf und Florian”) come la più tipica delle opere “di transizione”. Ma a ragione Stubbs osserva che “l’essere irrisolto, forse persino affrettato nella realizzazione, finisce per rappresentare probabilmente, paradossalmente la prima delle sue qualità”. Delle dodici tracce in scaletta cinque sono sotto il minuto e mezzo (una di quindici secondi appena), una sesta di poco sopra i due. Raggruppate per metà fra fine primo lato e inizio secondo (la continuità offerta dal CD risulta allora più congeniale alla lettura d’assieme) rappresentano il congedo dai Kraftwerk sperimentalisti a volte puri (e ruvidi, e ingenui) che erano stati, nel mentre il resto del programma prospetta l’ecumenismo – ritmico, melodico – sofisticatissimo sotto un’ingannevole semplicità di quelli che saranno, che già sono. Per quanto questa sia una narrazione un po’ grossolana, cui ad esempio sfugge la respingente iterazione di sinusoidi di Radio Stars, il cui argomento non sono le stelle della radio, che il video assassinerà come canteranno quei fenomeni da un colpo solo dei Buggles, bensì… le stelle. La perfezione in un album imperfetto sta nel capo e nella coda: nei 6’44” del brano che, introdotto dal pulsare ansiogeno di un Geiger Counter, lo battezza citando i Pink Floyd e quindi facendosi anello di congiunzione fra Autobahn e The Robots; nei 5’40”, da valzer in moviola a fuga per rotte astrali, di una dolcissima Ohm Sweet Ohm. Avrà auspicabilmente colto, chi legge, l’ironia del titolo.

Flür confermato in organico, “Radio-Activity” vede aggregarsi un secondo percussionista, Karl Bartos. Da “The Man-Machine” e fino a “Electric Café” sarà come un terzo leader e anzi un secondo, inferiore in ruolo giusto a un Ralf Hütter che ha preso nettamente il sopravvento su Schneider a livello compositivo. Ma sono altre storie, che altri provvedono a raccontarvi.

Pubblicato per la prima volta sul sito www.soundwall.it il 13 ottobre 2017. La notizia della scomparsa di Florian Schneider è stata diffusa oggi. Pare in realtà che la morte, per cancro, risalga ad alcuni giorni fa e che già siano state celebrate le esequie.

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Maria McKee – La vita nuova (Fire)

Ricordate i californiani Lone Justice? Esponenti di quel filone di giovane country che flirtava con lo spirito riottoso del punk, vantavano cultori come Tom Petty, che regalò all’omonimo esordio dell’85 la splendida Ways To Be Wicked, Little Steven, co-autore di un pezzo sul primo LP e anche co-produttore del secondo e di un anno successivo “Shelter”, e gli U2, che offrirono loro uno slot nel tour di “The Joshua Tree”. Naturalmente Feargal Sharkey, nell’85 stesso in cima alle classifiche di mezzo mondo con un brano, A Good Heart, scritto dall’appena ventenne leader del gruppo, Maria McKee, artista di talento pari alla bellezza e insomma talentuosa assai. Avevano dietro un marchio potente quale Geffen e insomma come fecero a non diventare delle star è un mistero. Sono rimasti un culto, mentre lei qualche anno dopo si troverà di nuovo a capeggiare la classifica UK dei singoli, stavolta in prima persona e per un mese filato, con un brano da una colonna sonora. La sua carriera da solista partiva con il vento in poppa.

Ricordate i Lone Justice? Dimenticateli. Nei sessantaquattro minuti e nelle quattordici tracce che danno vita a un album atteso tredici anni e appena il settimo in studio per l’autrice giusto l’attacco folk-rock, prima che l’arrangiamento si gonfi, di I Just Want To Know That You’re Alright ne fa risuonare qualche vaga eco. È un disco che parte molto bene, con una Effigy Of Salt che rimanda invece (niente di meno che) ai Love di “Forever Changes” e la fairportiana Page Of Cups, ma soccombe poi troppo spesso a orchestrazioni troppo pesanti per melodie non solide a sufficienza da reggerle. Opera di pop “colto” che con ogni evidenza punta parecchio su una parte testuale impegnativa, da seguire libretto alla mano probabilmente pure per chi è di madre lingua.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.418, marzo 2020.

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Il disco più stiloso e jazz di Tony Allen (1940-30/4/2020)

Un aneurisma si è portato via ieri Tony Allen, l’uomo che – come raccontavo brevemente qui – diede con la sua batteria un contributo incommensurabile all’invenzione da parte di Fela Kuti dell’afrobeat. Attivo e (testimonia il manager Eric Trosser) in gran forma fino all’ultimo, aveva pubblicato poche settimane fa un gran bel disco, “Rejoice”, ove raccoglieva incisioni risalenti al 2010 con lo scomparso (nel 2018) Hugh Masekela. Il suo ultimo album da solista risale invece a tre anni or sono ed era un omaggio a quel jazz che lo aveva fatto innamorare della musica e dell’Africa era a sua volta innamorato. Non voleva essere un congedo, ma un congedo migliore mi sembra oggi inimmaginabile.

The Source (Blue Note, 2017)

Nel 1962 Art Blakey – il più grande batterista della storia del jazz? se la gioca con Max Roach – dava alle stampe, per i tipi della Blue Note, “The African Beat”. È un LP nel quale i ritmi del jazz si mischiano con quelli del Continente Nero ed era una prima volta per Blakey, affiancato da sei percussionisti africani. Le vere star del lavoro, se si guardano i crediti compositivi. Quarantacinque anni dopo, e sempre su Blue Note, Tony Allen – chi potrà contestargli il titolo di più grande dei batteristi africani? e questo già solo considerando la produzione da leader, senza nemmeno tenere da conto la storica collaborazione con Fela Kuti – ha pubblicato un EP in cui omaggia Blakey da par suo, rileggendo Moanin’, Night In Tunisia, Politely e The Drum Thunder Suite. Succedeva in maggio ed era quasi una chiusura di cerchio per chi in Blakey ha sempre visto un maestro ma senza che la lezione di costui apparentemente ne influenzasse l’inconfondibile stile, pietra d’angolo ritmica dell’afrobeat. Il cerchio si chiude del tutto ora, con un album viceversa autografo. Sempre su Blue Note (nota per l’audiofilo: incisione sugli altissimi standard della casa e che la stilosa copertina rivendica “AAA”) e con un ensemble francese dal rimarchevole senso del groove a dar man forte al titolare.

Parlando ancora di cerchi che si chiudono: se in Moody Boy si parte dal Coltrane più classico per approdare a una ballabilità fra errebì e funk, in Wolf Eats Wolf si fa il percorso inverso, dall’afrobeat più ruspante al jazz. Altrove – in una Cruising ellingtoniana, in un Tony’s Blues che pare scritto da Mingus per Fela, in una Ewajo peraltro devota a Miles – ogni confine si confonde. Che è la ragione per cui questo disco stupendo sta qui e non in un’altra sezione del giornale.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.392, ottobre 2017.

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