Archivi del mese: febbraio 2013

Blow Up n.178

Blow Up 178

È in edicola il numero 178 di “Blow Up”. Articolo di copertina mio (dodici pagine) su Billy Bragg e inoltre, per quanto mi riguarda, recensioni degli ultimi dischi di Devon Allman, Ed Harcourt, Ben Harper & Charlie Musselwhite, Ziggy Marley, Aaron Neville, Retribution Gospel Choir e Rachid Taha e di una recente ristampa dei Mandrill.

17 commenti

Archiviato in riviste

Krautrock Files (3): Neu!, Harmonia, La Düsseldorf

Dove si dà del testina di vitello a uno che nel frattempo è morto. E che nondimeno testina di vitello, oltre che genio, lo era davvero.

Neu!

L’omaggio più esplicito è stato quello fatto dai Sonic Youth versante dopolavoristico – leggesi: Ciccone Youth – del “Whitey Album”: uno dei brani colà in scaletta si intitola Two Cool Rock Chicks Listening To Neu!. Prima/insieme/dopo di loro tanti hanno ammesso con pensieri/parole/opere l’influenza esercitata dal gruppo di Düsseldorf, dai primi Pere Ubu ai Labradford, passando per John Lydon (uno non proprio uso a genuflettersi dinnanzi all’opera altrui), gli Ultravox! (notare il punto esclamativo, prego!), Julian Cope, gli Stereolab e i Mouse On Mars (in parte loro concittadini). I Negativland si sono battezzati con il titolo di una canzone tratta dal primo album dei krauti e hanno chiamato la loro etichetta come un brano del terzo, Seeland. Passando dall’avanguardia più oscura ai massimi sistemi, il David Bowie che con “Low” e “Heroes” inventò virtualmente la new wave deve dividere con i Nostri il copyright almeno al 50%.

Soprattutto negli ultimi due o tre anni gli omaggi alla genialità di una formazione che precorse i tempi come poche nella storia del rock si sono moltiplicati. Non è dato sapere cosa pensi di ciò Michael Rother, che nel post-Neu!/Harmonia ha intrapreso una carriera solistica di bassa visibilità. L’opinione dell’altra metà dei Neu! (e leader in seguito dei La Düsseldorf) Klaus Dinger al riguardo, ferma restando la grandezza dell’artista, indispone assai nei confronti dell’uomo. Se è comprensibile che guardi con disprezzo un mondo che non lo ha premiato in misura adeguata ai suoi meriti, lascia sconcertati che il suo rancore sia rivolto in particolar modo a quanti si dichiarano suoi devoti. Bersaglio principale del suo disprezzo iroso diventa così, incredibilmente, colui che più ha fatto per rendere giustizia alla grandezza dei düsseldorfiani, vale a dire Julian Cope, che all’epopea Neu!/Harmonia/La Düsseldorf ha dedicato alcune delle pagine più ispirate e memorabili di quel libro memorabile in toto che è Krautrocksampler. È principalmente grazie al Julian che una generazione di nuovi ascoltatori si è accostata ai Neu! e certo non è colpa sua se questi ascoltatori per soddisfare la loro curiosità devono rivolgersi al mercato del collezionismo o a ristampe su CD pirata. Che nelle note di copertina del dispensabilissimo “4” Dinger, dopo avere spiegato perché gli album dei Neu! non hanno ancora avuto un’edizione in compact come si deve, attacchi Cope (bersagliato velenosamente anche in altre circostanze) per avere “indossato magliette illegali dei Neu! a ‘Top Of The Pops’” è semplicemente grottesco.

Klaus Dinger è una testa di cazzo. Siccome però mettersi in casa i suoi dischi, maledettamente belli e importanti, non implica andarci a cena insieme voi, se già non li avete, fate di tutto per procurarveli. Detto fra noi (ma che non si sappia in giro, mi raccomando): le stampe pirata degli LP dei Neu! sono fatte benissimo. Se non ce la fate ad aspettare quelle ufficiali…

“Neu!” (Brain, 1972) ****1/2

Due mesi or sono, scrivendo dei Kraftwerk, si raccontò che a un certo punto della loro vicenda per qualche mese Ralf Hütter lasciò Schneider in compagnia di Michael Rother e Klaus Dinger e che quell’edizione particolare del gruppo produsse mezzora circa di musica a tutt’oggi inedita. L’unica testimonianza edita, sebbene illegalmente, di una formazione che faceva Kraftwerk solo di nome e nei fatti era gia nuova, ossia Neu!, è una registrazione dal vivo  del maggio 1971 apposta in calce alla ristampa su CD dell’album degli Organisation. Negli undici, sensazionali minuti di Vor dem blauen Bock c’è già molto dei Neu! a venire: a parte qualche idea melodica che si riaffaccerà nei dischi dei nostri prodi, la lisergica sinuosità della chitarra (uno strumento estraneo al corpus dell’opera kraftwerkiana) di Rother e la cadenza da macchina ma non robotica (“motorik”, la dicono gli anglosassoni) della batteria di Dinger, che senza appoggiarsi a un basso (anche i Neu! ne faranno sovente a meno) crea impalcature ritmiche prodigiose. Hütter e Schneider, come sappiamo, si rimisero insieme. Rother e Dinger se ne staccarono e nel dicembre di quello stesso anno in quattro notti incisero, affidandosi al talento in cabina di regia di Conrad Plank e senza avvalersi di altri musicisti, il loro debutto. A proposito del brano che lo inaugura così si è espresso Julian Cope.

Nel 1972, mentre me ne stavo sdraiato in una roulotte a Tamworth, nello Staffordshire, il mio atteggiamento nei confronti di TUTTA la musica cambiò per via di un pezzo suonato da John Peel e intitolato Hallogallo… Niente era mai suonato alle mie orecchie così alieno e finora niente lo ha superato in pura audacia. Mentre la maggior parte dei gruppi tedeschi distendeva i propri suoni in epiche stratificazioni impressionistiche, il suono dei Neu! era asciutto e diretto, espressionista. Il suo mistero andava cercato nel rifiuto di essere misterioso – tutto poteva essere colto al primo ascolto ed era questa la sua qualità più seducente. Una pulsazione ritmica motoristica senza traccia di basso conduce Hallogallo da una lunga sfumata a un groove senza riff in mi maggiore. Dietro, chitarre intermittenti e riversate al contrario punteggiano il tutto come gabbiani su scogliere senza eco. Non c’è melodia. Non c’è cantato. Non c’è nulla che ti dica a che punto ti trovi in questo corridoio senza giunzioni e di cui non si vede la fine. Se i Neu! si fossero sciolti dopo il primo brano del loro primo LP, avrebbero comunque cambiato il rock’n’roll.

Come dire, signore e signori, che la new wave nacque nel 1971 in Germania. Descritta da altri come “il Philip Glass Ensemble che suona surf”, Hallogallo vale da sola un disco che varrebbe comunque parecchio anche ne fosse orbo. Per qualità media dei restanti cinque titoli e pure perché Weissensee, in chiusura di primo lato (separa i due brani Sonderangebot, mediazione fra corrieri cosmici e ambient), non è che una Hallogallo più rilassata e sognante.

Il secondo lato incastona fra i rumori acquatici e la chitarra astratta di Im Glück e i rumori acquatici e le sgroppate di banjo di Lieber Honig la cavalcata unna di Negativland, tutta accelerazioni, frenate, nuove accelerazioni spasmodiche. Le chitarre sono fragorose, ai limiti del noise. La ritmica rasenta la musica industriale.

Roba strana nel 1972, ammetterete. Infilata in una confezione al pari provocatoria. Sul davanti e sul retro null’altro  che la scritta NEU!, rosso fiamma su sfondo bianco, tracciata stile annuncio sul volantino pubblicitario di un supermercato. E tanti saluti a Roger Dean e alle sue copertine degli Yes. Wow! Punk-rock.

“Neu 2” (Brain, 1973) ***1/2

Un sottotitolo appropriato per questa monografia avrebbe potuto essere “Serialità e riciclaggio”. La copertina del secondo album dei Neu!, tolto un enorme 2 tracciato con vernice a spruzzo, è tale e quale a quella del primo, cambiano giusto colore scritta e sfondo. Il terzo, logo bianco sfondato sul nero, ripeterà il giochetto. E la seconda facciata di questo secondo LP è occupata dai due brani di un singolo proposti, oltre che alla velocità canonica, accelerati, rallentati, variamente manipolati e da un frammento di un altro brano, Für Immer, passato in moviola con contorno di chiacchiere in sottofondo e ribattezzato Hallo Excentrico. Ma sarà il caso di andare per ordine.

Il primo 33 giri aveva venduto discretamente, sia in Germania che in Gran Bretagna. Gli aveva fatto seguito un tour, con Rother e Dinger affiancati da Uli Trepte e Eberhard Krahnemann dei Guru Guru, che si era rivelato controproducente: i Neu! non erano ancora pronti (non lo saranno mai ed è questo il motivo per cui rimasero una faccenda underground mentre gli  altrettanto iconoclasti Faust diventavano relativamente popolari) a riprodurre dal vivo il loro uragano proto-punk disseminato di oasi ambient. La casa discografica chiese loro un 45 giri e l’ottenne. Su un lato trovò posto Neuschnee, molto psichedelica con le sue chitarre ondivaghe; sull’altro Super, anfetaminica danza nella quale i D.A.F. troveranno ispirazione per Der Mussolini. Ci voleva ora un nuovo album.

Stando a Julian Cope, ai Neu! venne improvvisamente comunicato che non c’erano più soldi per pagare lo studio. In preda al panico, assemblarono la seconda facciata come un collage di variazioni sui due brani del succitato singolo. Siccome pare che le registrazioni durarono anche in questo caso soltanto quattro notti, più tre dedicate al missaggio, Cope quasi certamente è male informato. A essere finita era piuttosto l’ispirazione, a meno che non si voglia intendere quei venti minuti in cui sembra che lo stereo impazzisca come un’altra provocazione alla Neu!. Può essere.

Ad ogni modo l’altro lato è brillante, anche se Für Immer sembra una nuova cover, “pop” stavolta, di Hallogallo: Spitzenqualitat, giocata sul medesimo pattern di batteria e tribalissima, e Lila Engel, percorsa da una chitarra pirotecnica, sono due degli articoli migliori del catalogo Neu!. La settimana passata in sala d’incisione dovette essere, comunque andarono le cose, stressante se subito dopo Rother sciolse il sodalizio con Dinger.

A latere (1) – Harmonia: “Musik von Harmonia” (Brain, 1974) **** “Deluxe” (Brain, 1975) ****

Con il senno di poi, nell’evidente dicotomia artistica (e forse umana) Rother/Dinger si possono individuare sia la fonte della grandezza dei Neu! che le ragioni dell’estrema brevità di un’avventura straordinariamente feconda. Il primo si direbbe essere l’hippie, California nel cuore, l’acido che sale spalancando le porte di Altroquando. Il secondo è il punk, antipatico, polemico, genialmente in anticipo sui tempi. David Crosby vs. Lou Reed.

Apparentemente giunti al capolinea i Neu!, Rother fece comunella, sensale il solito Conrad Plank, con Hans-Joachim Roedelius e Dieter Moebius, vale a dire i Cluster. Propagandati all’epoca da Brian Eno nientemeno che come “il più importante gruppo al mondo”, gli Harmonia licenziarono due ottimi LP di cosmico afflato ma dai groove troppo marcati perché li si si possa far ricadere nella casella “musica per ambienti”. Ad ogni buon conto Eno (collaborerà pur’egli con i Cluster) ne trasse preziosi insegnamenti.

“Neu 75” (Brain, 1975) *****

Ancora Conrad Plank, vero deus ex machina del krautrock, riuscì nel miracolo di rimettere all’opera il Giano Bifronte Neu!. Disco reunion e testamento nello stesso tempo, “75” è il capolavoro del duo Rother/Dinger e insieme una spiegazione esemplare del perché la coesistenza fra i due fu sempre difficile: la prima facciata potrebbe essere degli Harmonia, la seconda dei La Düsseldorf, che Dinger aveva nel frattempo formato chiamando a farne parte il fratello Thomas e Hans Lampe. Eppure, un che di intangibile unifica le due metà impedendo all’album di soccombere alla propria schizofrenia.

Isi è un gioiello di misura e buon gusto. La tipica ritmica dei Neu! sorregge una melodia pianistica, doppiata da un sintetizzatore, di essenziale e fulgida bellezza. In Seeland è una chitarra suadentemente lisergica a prendere il proscenio. Rumori di pioggia che cedono il passo a sciabordii marini (curioso il ricorrere di rumori acquatici nei dischi dei Neu!) introducono il piano alla Satie di Leb’wohl.

Dopo un primo lato così raccolto e intimista, l’apertura del secondo è un trauma: Hero è Eddie Cochran cyberpunkizzato, gli Stooges affrontati e battuti sul loro stesso terreno, i Sex Pistols inventati quando erano poco più che un’ipotesi nella mente perversa di John Lydon. Segue E-Musik, dieci minuti di shuffle teutonico che lasciano il posto alla nuova deflagrazione stoogesiana (e lampantemente anticipatrice degli Ultravox!) di After Eight. Solo il silenzio avrebbe dovuto seguire un simile congedo.

A latere (2) – La Düsseldorf: “La Düsseldorf” (Nova, 1976) ****1/2 “Viva” (Teldec, 1978) **** “Individuellos” (Teldec, 1980) ***

Risalutato Rother, Klaus Dinger passò definitivamente alla chitarra. Con il fratello Thomas e Hans Lampe (che avevano suonato anche in “Neu 75”) alle percussioni, il contributo esterno del tastierista Nikolaus Van Rhein e del bassista Harald Konietzko e il consueto apporto al mixer di Herr Plank, confezionò immediatamente l’omonimo debutto dei La Düsseldorf, riuscendo ancora una volta ad anticipare i tempi. Poiché questa volta ne era più a ridosso (il primo pannello del trittico berlinese di Bowie stava per lasciare gli Hansa By The Wall) riscosse un buon successo commerciale.

L’opera prima della nuova creatura di Klaus Dinger vale le pagine migliori del catalogo Neu!. Sull’incessante pulsazione ritmica generata da Thomas Dinger e Hans Lampe sintetizzatori e chitarre generano melodie epiche, senza essere retoriche, e a presa rapida. Non a caso Silver Cloud fu, a dispetto degli otto minuti di durata, un hit.

Da quel punto in poi i La Düsseldorf imboccarono la china discendente. Dal momento che partivano da alta quota fu però un bel scendere. “Viva” è quanto di più deliziosamente canzonettistico abbia mai dato alle stampe Klaus Dinger: Rheinita (un altro hit) fa convivere un coro da cattedrale, tastiere cosmiche e a un dato punto un piano boogie; White Overalls rivendica la paternità del suono Ultravox!; Geld fa beffardamente il verso a Heroes di David Bowie. Anche in “Individuellos” c’è del buono. Il cibernetico minuetto intessuto di voci cantilenanti della title-track, ad esempio, e la stravagante marcetta elettronica di Dampfriemen. Ma la riedizione, pur completamente trasfigurata, di un classico dei Neu! come Lieben Honig sa di pietra tombale sulla spirante ispirazione del Dinger Klaus.

“Neu! 4” (Captain Trip, 1995) **

Una postilla a questa storia di cui si sarebbe fatto a meno. A essere equanimi non vi sono cose indecorose in questo CD postumo che testimonia un secondo tentativo (di cui non si aveva notizia), fra l’ottobre 1985 e l’aprile ’86, di far tornare in pista i Neu!. Ma manca il cesello amalgamatore di Conrad Plank e mancano soprattutto i guizzi dei tempi belli in un album frammentario persino per un gruppo che aveva orchestrato intorno a due brani montati e rismontati, e a una frazione di un terzo, una facciata di 33 giri. Soltanto gli orb-ismi di Bush Drum valgono la leggenda dei Neu!.

La medesima etichetta giapponese nel 1996 ha pubblicato un CD con materiale live del 1972 di cui non so dirvi nulla, dal momento che l’ho visto solo in fotografia. Il poco che mi è capitato negli anni di ascoltare dei vari dischi da solista di Michael Rother e dei Die Engel des Herrn di Klaus Dinger mi ha confermato nell’idea che la loro stagione creativa fu breve. I semi che piantarono, tuttavia, danno tuttora frutti.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.3, novembre/dicembre 1997.

4 commenti

Archiviato in archivi

Velvet Gallery (14)

Non mi chiedete esattamente in quale posizione, ma in una mia lista di “cose da fare avendo a disposizione una macchina del tempo” andare a vedere un concerto degli Only Ones nel 1978 sarebbe certamente nella Top 100.

Only Ones 1

Only Ones 2

2 commenti

Archiviato in archivi

Bruce Springsteen 1973-1995 (7): Born In The U.S.A.

Born In The USA

Born In The U.S.A.. Cover Me. Darlington County. Working On The Highway. Downbound Train. I’m On Fire. No Surrender. Bobby Jean. I’m Going Down. Glory Days. Dancing In The Dark. My Hometown.

Columbia, giugno 1984 – Registrato presso gli studi Power Station e Hit Factory di New York – Tecnici del suono: Bob Clearmountain, Toby Scott – Produttori: Bruce Springsteen, Jon Landau, Chuck Plotkin, Steve Van Zandt.

Non è facile parlare di un disco che ha venduto, a tutt’oggi, oltre trenta milioni di copie e ha fatto di un artista da culto – va bene, un culto con svariate centinaia di migliaia di adepti, ma pur sempre un culto – una faccia da rotocalco. Non è facile perché un po’ tutti lo conoscono e in molti la sovraesposizione ha indotto giudizi non sereni. E perché nessuno ha saputo offrire una spiegazione del tutto convincente delle ragioni di un successo tanto clamoroso, che non può essere giustificato né da una canzone pop azzeccata come Dancing In The Dark (che è istantaneamente memorizzabile, sì, ma non più di una Born To Run) né dal fatto che la base dei fan si era costantemente allargata nel corso degli anni ed era nell’ordine delle cose che il suo incremento potesse prima o poi farsi esponenziale. Non moltiplichi per quindici (in qualche paese, per centocinquanta) gli acquirenti di un tuo album da un giorno all’altro soltanto in forza di un brano orecchiabile o di suoni più patinati dell’usuale. Estrarre sette 45 giri da un LP e spedirli tutti nei Top 10 americani è impresa mai riuscita nemmeno ai Beatles o a Madonna, o a Michael Jackson. Anche considerando il notevole contributo che a questo successo travolgente diedero il lungo tour mondiale seguito alla pubblicazione dell’album e l’entusiastico supporto di MTV resta, nel caso di “Born In The U.S.A.”, un che di misterioso, di imponderabile e probabilmente di irripetibile, tanto è vero che i quattro LP seguenti in studio di Springsteen più il box dal vivo, messi insieme, non hanno nemmeno pareggiato i conti con quel singolo album.

La spiegazione che ci pare più ragionevole è che “Born In The U.S.A.” raggiunse i traguardi che ha raggiunto perché in qualche maniera riuscì a catturare perfettamente lo spirito dell’America degli anni di Ronald Reagan, quel misto di patriottismo e depressione per gli effetti devastanti che la politica economica di quell’amministrazione ebbe sulle classi più deboli. Lontanissimo dal disco che l’aveva preceduto come suoni, è in realtà un suo seguito logico, coerente, persino inevitabile (del resto, molte delle sue canzoni furono scritte e addirittura registrate in contemporanea a quelle di “Nebraska”).

Da quando Mike Appel l’aveva condotto dinnanzi a John Hammond a quando il mondo del rock, stupito, si confrontò con un album acustico del suo re erano trascorsi per Springsteen dieci anni senza pause. Dall’autunno del 1982 alla primavera del 1984 il Nostro si concesse un po’ di tregua e tenne un profilo pubblico molto basso. Nemmeno un concerto promosse “Nebraska” e nel 1983 l’unica cartolina mandata al mondo dalla E Street Band fu il debutto solistico di Clarence Clemons, al quale il Boss contribuì con una canzone. Era il secondo componente del gruppo a presentarsi in proprio, dopo che nel dicembre dell’anno prima avevano esordito a 33 giri i Disciples Of Soul di Miami Steve Van Zandt. Ma se in superficie tutto era quieto dietro le quinte dopo un po’ ripresero a fervere i lavori. Springsteen recuperò il malloppo di canzoni scritte insieme a quelle di “Nebraska” e naturalmente ne compose altre. Sebbene ce ne fossero, stando a quanto racconta Dave Marsh, settanta a disposizione fra cui scegliere, questa volta l’assemblaggio del disco non presentò particolari difficoltà. Vi trovarono spazio undici dei brani messi in cantiere (altri cinque verranno recuperati sui retri degli innumerevoli 45 giri), più uno aggiunto all’ultimo momento. Con l’album quasi pronto, Landau fece ciò che non aveva mai fatto in precedenza: chiese al Boss di scrivere una canzone apposta per il mercato dei 45 giri. Springsteen tornò a casa e quasi di getto compose Dancing In The Dark, un brano denso di pessimismo ma questa volta, al contrario di tutte le canzoni di “Nebraska”, con una luce in fondo al tunnel. Oltre a una melodia e a un ritmo irresistibili e a un arrangiamento tagliato su misura per le radio americane ma nello stesso tempo, con i suoi toni quasi dance, lontano dalla tradizione cui aveva sempre fatto riferimento Springsteen.

Non è l’unico episodio di “Born In The U.S.A.” con un suono e un incedere adatti alle discoteche. Lo sono anche Glory Days, No Surrender (che contemporaneamente è anche un perfetto rock da stadio) e soprattutto Cover Me, che in origine era stata scritta per Donna Summer. Altre canzoni sono più classiche per il nostro uomo: Darlington County, Working On The Highway, Downbound Train, Bobby Jean, I’m Going Down sono figlie di “The River”  e I’m On Fire non avrebbe sfigurato su “Darkness”, come del resto My Hometown che è pure facile immaginare, appena scarnificata, su “Nebraska”. La differenza la fanno i  suoni: l’utilizzo di tastiere elettroniche e una sezione ritmica sempre in evidenza, che se da un lato appiattisce gli arrangiamenti fu dall’altro, probabilmente, una delle ragioni del grande successo di questo 33 giri.

Il 15 maggio 1984 arrivava nei negozi Dancing In The Dark. Quando venti giorni dopo “Born In The U.S.A.” lo raggiunse, il 45 giri era secondo nelle classifiche statunitensi e stava conquistando quelle europee. Nulla, per Springsteen, sarebbe più stato lo stesso. Il passaggio dalle cronache della stampa specializzata a quelle scandalistiche avvenne dalla sera alla mattina portando con sé grossolani equivoci sul personaggio. Bisogna essere sordi e ciechi, o in mala fede come si dimostrò Reagan, per scambiare la rabbiosa invettiva che intitola il disco per una dichiarazione patriottica modello Vecchia America. È esattamente il contrario, fin dai primi potentissimi versi: “Nato in una città di morti/Il primo calcio l’ho preso appena ho toccato terra/Finisci come un cane che è stato battuto troppe volte/a passare metà della tua vita solo nascondendoti”. E sotto basso e batteria (con Roy Bittan, è Max Weinberg il grande protagonissta di questo LP) sono bordate di artiglieria e il mostruoso riff di chitarra un chiodo maligno che una volta piantato non è possibile estirpare.

“Born In The U.S.A.” non è uno degli album migliori del Nostro. Non ha la compattezza di “Darkness” o “The River”, o di “Nebraska”, né esibisce canzoni che siano, al di là della grande orecchiabilità di quasi tutte, altrettanto memorabili nel senso migliore del termine. Quando vi si avvicina – si pensi a quanto No Surrender e Dancing In The Dark appaiano superiori fatte solo chitarra e voce – inciampa nell’ostacolo di un sound insieme troppo rifinito e troppo muscolare. Ma in fondo il suo vero, unico peccato è di essersi fatto precedere da quattro LP di fila che meritano di essere chiamati capolavori. Essendo “soltanto” un disco eccellente, nel confronto sfigura.

Pubblicato per la prima volta in Bruce Springsteen: strade di fuoco, Giunti, 1998.

36 commenti

Archiviato in archivi

Eels – Wonderful, Glorious (E Works/Vagrant)

Eels - Wonderful, Glorious

Da dove si riparte dopo che hai messo ordine in dieci anni di archivi non solo scegliendo quanto ritieni essenziale ma anche premiando i cultori terminali con quella cinquantina di versioni alternative, incisioni live e radiofoniche, un paio di DVD e così via? Dopo che te la sei scritta tu la biografia, evitando così ad altri di aggirarsi loro in quei labirinti di genialità e di dolore. Dopo non un concept ma una trilogia di lavori pensati come fossero collezioni di racconti e – messi insieme – un metaromanzo. Da dove si riparte, quando la carta di identità avvisa che a inizio aprile il tuo primo mezzo secolo terreno si sarà interamente consumato? Da un altro pugno di canzoni, ovviamente. Però per una volta scritte, approfittando che è da un po’ che gli Eels sono sempre gli stessi e stanno cominciando a somigliare a una band vera come solo ai tempi del debutto, a più mani. Messe insieme fra le mura domestiche e non è una novità, essendolo invece l’allestimento che ha sostituito un vecchio che lui sì che ha deciso di andarsene in pensione. Studio nuovo, Mark? Paga da bere.

Oltre che esito di una scrittura collaborativa, in quest’altro senso il decimo album a nome Eels si distacca dai precedenti: nettamente il più spensierato del lotto e forse anzi l’unico cui tale aggettivo si possa ragionevolmente accostare. Fermo restando che gli si dà un’accezione alla Mark Oliver Everett, in arte E, ché a seguirne i testi qualche lacrimuccia al solito spunta. Facendoseli passare addosso, quanto rimane è un pop-rock frizzante come sempre, energico come non mai e già un paio di mesi fa metteva sull’avviso  (e ne offriva una clamorosa dimostrazione) il primo video trattone, una Peach Blossom di un granitico nel riff e nella ritmica da poterla spacciare per un pezzo dei Black Keys e farla franca. E che dire del tambureggiare di mambo alla Tom Waits con tocchi di surf di Bombs Away, del funkeggiare alla Beck di Kinda Fuzzy, dello sferzante sferragliare di una Stick Together che parte in resta restando in garage? La canzone più puttana di tredici: una traccia omonima che suggella sculettando funky-pop. La meglio costruita: The Turnaround, partenza sospesa, intensità crescente, un arrangiamento dove non sposti un sospiro. La più estrosa: una You’re My Friend che sono i Devo se fossero stati i Sebadoh. La più irresistibile: On The Ropes, uno sbrilluccicare di folk-rock che senza fine ammalia. Per essere chiaramente un lavoro minore (probabilmente interlocutorio) in un canone maggiore, “Wonderful, Glorious” ha un titolo che non è che millanti poi tanto.

3 commenti

Archiviato in recensioni

Kevin Ayers (1944-2013)

Kevin Ayers

Mi è capitato naturalmente tante volte di citarlo (uno non passa tre decenni occupandosi di rock e restando indifferente a un artista così), ma in tutto questo tempo un’unica volta mi è capitato di scrivere specificamente di Kevin Ayers. Accadeva nell’autunno del 2007,  lui aveva appena interrotto un silenzio lungo quindici anni e con che razza di splendido album lo aveva fatto. Lo segnalavo su “Audio Review” e sì che potevo immaginarmi che “The Unfairground”non sarebbe stato l’inizio di una seconda giovinezza, bensì un addio. Unica consolazione: un saluto luminoso come luminoso era stato un principio di carriera (cinque LP di fila imperdibili) che regalò meraviglie, solo meraviglie, nient’altro che meraviglie, una via l’altra.

Kevin Ayers - The Unfairground

Non ho l’età giusta per potere dire di avere perso di vista Kevin Ayers. Quando cominciai ad ascoltare musica la sua stagione più felice si era conclusa, l’ispirazione stava andando a picco e non era comunque un momento propizio per immergersi, con il punk sugli scudi, in quella che era stata la scena di Canterbury. Pur’essa in inarrestabile declino. Poi però ho recuperato e a parte Robert Wyatt, suo compagno di avventure nei Soft Machine, è stato Ayers quello per cui ho perso la testa, arrivando anche a spendere cifre importanti per alcuni dei suoi primi album in proprio, che prima che le ristampe si facessero da pioggerella alluvione si stentava a rintracciare. Una gioia e un’emozione mettere le mani sul “Bananamour” apribile, con quella partita a dama dadaista giocata all’interno. Una delizia anche per il tatto la copertina in rilievo di “Confessions Of Dr. Dream”. Ho amato moltissimo Kevin Ayers e il suo pop-rock bucolico e circense e appena storto, quintessenzialmente britannico e nondimeno baciato dal sole del Mediterraneo e di quell’Estremo Oriente nel quale il Nostro da ragazzo dimorò a lungo. Lo amo ancora, ma continuo a trovare trascurabili i suoi secondi ’70, gli ’80, quel poco che ha combinato nei ’90. Così, a dispetto del chilometrico elenco di illustri ospiti che vi risparmio e che abbracciano quattro o cinque generazioni, ho messo su “The Unfairground”, sua prima raccolta di cose nuove da tre lustri in qua, senza attendermi nulla.

Non che come un miracolo fiorissero da capo melodie insidiose e ineffabili fra psichedelia e vaudeville. Fra Beatles spediti a Broadway e Kinks che spiegano agli XTC come si fa, mentre in sottofondo Randy Newman suona un blues.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.283, ottobre 2007.

4 commenti

Archiviato in archivi, coccodrilli

Krautrock Files (2): Kraftwerk

Non ho idea di quanti articoli ho pubblicato in vita mia. Svariate centinaia (le recensioni molte migliaia). So però che in un ideale “Best Of” di almeno trenta (e forse anche in uno di soli venti) questo lo metterei sempre. A oltre quindici anni dacché lo scrissi ne sono ancora molto orgoglioso. Sono ancora molto d’accordo con me stesso e non è che sia sempre così, badate bene.

Kraftwerk 1

Quando questo numero di “Blow Up” vi verrà recapitato, potrebbe essere nei negozi un nuovo album dei Kraftwerk, il decimo in ventisette anni, il primo (non contando “The Mix”) da undici in qua. Potrebbe oppure no. Una data che indiscrezioni indicano come più probabile è Natale. Forse vedrà la luce nei primi mesi dell’anno prossimo o comunque entro fine ’98. Forse. Non uscisse mai nonostante il gran parlare che se ne fa da mesi, soprattutto da quando il gruppo di Düsseldorf ha interrotto una lunghissima assenza dalle scene presenziando in maggio al “Tribal Gathering” (e presentando per l’occasione un brano  inedito), non ci sarebbe da stupirsi. Nel 1983 un LP intitolato “Techno Pop” venne  annunciato con tanto di numeri di catalogo e inserzioni pubblicitarie: ebbene, non è mai stato pubblicato ed è divenuto per i seguaci della chiesa di Ralf Hütter e Florian Schneider, non del tutto persuasi dall’ipotesi che tale lavoro sia in gran parte confluito in “Electric Cafe”, una sorta di Santo Graal. “Faremo uscire qualcosa soltanto quando lo riterremo rilevante per noi o per il pubblico”, diceva Hütter qualche anno fa, ribadendo che il gruppo seguitava a lavorare a nuove composizioni. La possibilità che tale evento non si verifichi mai va considerata. Il dubbio, che è di tutti gli appassionati, che i Kraftwerk non siano più in grado di preconizzare, come hanno sempre fatto, le musiche del futuro deve avere colto anche loro e giustificherebbe un blocco creativo che per durata non ha – credo – precedenti nella storia del pop.

Bisognerebbe forse persino auspicare che dai Kling-Klang Studios giungano solo più silenzio e ricordi, ché sarebbe un ben deprimente spettacolo vedere operare in retroguardia il gruppo più innovativo di sempre. Nessuno ha esercitato sullo sviluppo della moderna musica popolare – volksmusik hanno sempre detto di suonare i düsseldorfiani – un’influenza paragonabile ai Kraftwerk. Non i Velvet Underground, che pure fecero diventare adulto il rock ma la cui influenza non ne ha mai valicato i confini; né i Beatles, che  per primi diedero una dignità culturale al pop e ne saranno sempre la massima icona. Prima di gridare alla lesa maestà (avete forse applaudito, invece?) riflettete su quanto si va a esporre.

Senza la loro influenza, diretta o indiretta per tramite di Bowie, la new wave avrebbe avuto uno sviluppo assai differente. I Devo, gli Ultravox!, i primi Simple Minds, Gary Numan, i Depeche Mode, gli Orchestral Manoeuvres In The Dark, i D.A.F. sono semplicemente inconcepibili se si postula la non-esistenza dei Kraftwerk. La loro lezione plasmò le ali estreme del movimento: da un lato il solare pop degli Human League, dall’altro la cupa avanguardia dei Cabaret Voltaire. Contemporaneamente, mostravano la strada al team Moroder/Belotte, autore di tutti i successi di Donna Summer, e infiltravano dunque l’elettronica nella disco. E anche nella musica da ballo influenzarono nello stesso tempo i settori più commerciali e l’underground: l’electro fu una loro invenzione (omaggio più clamoroso: i Fearless Four che costruiscono Rockin’ It sulle fondamenta di The Man-Machine) e la scena go-go di Washington (omaggio più spudorato: i Trouble Funk che si appropriano indebitamente di Trans-Europe Express) trovò nel gruppo teutonico una fonte di ispirazione occasionale ma importante. I pionieri dell’hip hop consumarono i loro dischi e Afrika Bambaataa scrisse uno dei primi classici del genere, Planet Rock, incrociando Trans-Europe Express (ancora? la usò pure Grandmaster Flash) con Supersperm di Captain Sky: il krautrock e il p-funk si incontravano e generavano il primo di innumerevoli, magnifici bastardi mutanti. E ciò ci porta agli anni ’90, alla celebre definizione della techno data da uno dei suoi maestri, Derrick May: “La techno sono George Clinton e i Kraftwerk chiusi insieme in ascensore”. Senza il gruppo di Düsseldorf la scuola di Detroit – i vari Derrick May, Juan Atkins, Kevin Saunderson, Carl Craig – che ha generato house e techno non è nemmeno immaginabile. Poiché se mancano i padri non vi può essere progenie, spariscono di riflesso Chemical Brothers e Daft Punk. Niente 808 State, L.F.O o Orbital. Versante ambient: bye bye Aphex Twin.

Facciamo un passo indietro. Torniamo nella Motor Town. Notiamo che i succitati fondatori della techno, nella visione comune considerata musica bianca, sono tutti di colore. Giungiamo così al nucleo di questa riflessione, già toccato dicendo dell’electro e dell’hip-hop dei primordi: se è innegabile che nella storia della musica di questo secolo, dal primo jazz e dal blues in avanti, sono stati quasi sempre i neri a tracciare le strade poi percorse (e sovente espropriate) dai bianchi è altresì vero che i Kraftwerk costituiscono un’eccezione, l’unica. Sono i soli bianchi ad avere influenzato dei neri che a loro volta hanno influenzato altri bianchi. È questo a rendere la loro presenza così pervasiva nella musica odierna: non fanno dischi da undici anni, eppure sono ovunque, importanti come non mai.

A chi si stupisce del connubio fra una musica calda per eccellenza, quale è la black, e una musica fredda come l’elettronica propugnata dai düsseldorfiani è sfuggito molto di costoro, quasi tutto. Li ha magari sentiti ma non li ha mai ascoltati. Avrebbe dovuto se no percepire l’umanità profonda del cuore che pulsa al centro della macchina Kraftwerk. Vi è in esso un romanticismo tipicamente mitteleuropeo ma anche un sentire che è inconfondibilmente soul. Certo: non è il soul di Otis Redding o di James Brown, ma gli è parente, e questo spiega perché al newyorkese Ritz nel 1981 (il concerto probabilmente più importante della storia dei Kraftwerk) il pubblico era in maggioranza di colore. “Fu funky”, è il ricordo di Bambaataa.

Ecumenici nel loro rivolgersi in musica a un pubblico di ogni razza, i Kraftwerk lo sono sempre stati anche nella stesura dei testi, essenziali come le architetture dei brani e redatti spessissimo in più lingue. Non solamente tedesco e inglese ma anche francese, italiano, giapponese. La specificità tedesca è l’architrave dell’universalità di canzoni dall’ironia sottile, amarognole ma in fondo ottimiste come un romanzo di Asimov.

Ecco, è questo l’ultimo punto sul quale desidero soffermarmi prima di passare alla disamina della produzione del gruppo di Düsseldorf: se la musica dei Kraftwerk è tuttora proiettata in avanti, testi e immaginario hanno sempre saputo più di modernariato che di modernità. La loro è una visione del futuro che viene da un passato in cui era possibile immaginare tempi a venire prosperi e ordinati, fatti di città linde, immensi spazi verdi, autostrade a otto corsie regolate da giganteschi cervelli elettronici. Prima della guerra del petrolio e del microchip. Prima di Blade Runner. Prima del cyberpunk. Prima che ci accorgessimo di essere fottuti. Chi conosce quell’indimenticabile racconto di William Gibson che è “Il continuum di Gernsback” (in La notte che bruciammo Chrome) avrà compreso.

Musica elettronica/Figura ritmica/Arte politica/dall’era atomica” (da Electric Cafe; in italiano)

I dischi, allora. Il primo era fino a pochi mesi fa il più misterioso del lotto, del quale fa e non fa parte. Nel senso che vi figurano sia Hütter che Schneider ma quando vide la luce i Kraftwerk (il cui nome furbescamente campeggia sulla ristampa in CD) ancora non esistevano. Il gruppo si chiamava Organisation e oltre ai due tedeschi (il primo all’organo, il secondo al flauto e al violino) comprendeva un bassista (Butch Hauf) e due percussionisti (Basil Hammoudi e Fred Monicks) inglesi. L’album venne pubblicato nel 1970 dalla RCA britannica, si intitola “Tone Float” ed è stato per un quarto di secolo uno dei pezzi più rari e mitizzati del krautrock. La sua leggenda ha retto la prova della riesumazione. Soprattutto la lunga title-track, un’improvvisazione di gusto orientaleggiante che si dispiega sul tambureggiare delle percussioni, colpisce, ma anche la cosmica Silver Forest e Noitasinagro, cui l’organo dona un sapore chiesastico e il violino tanta malinconia, si fanno ammirare. E tuttavia, benché il disco sia bello, bellissimo, non avessero Hütter e Schneider fatto altro lo si ricorderebbe come un’interessante freakerie d’epoca. Nulla più.

Tornati a Düsseldorf (lì si erano conosciuti al locale conservatorio, dove avevano fra gli altri frequentato i corsi di Stockhausen), i due trovarono nuovi soci in Andreas Hohmann e Klaus Dinger, si ribattezzarono Kraftwerk, aprirono i Kling-Klang Studios, convocarono Conny Plank (che già aveva prodotto il 33 giri degli Organisation e li seguirà fino a “Autobahn”) e posero mano all’omonimo esordio.

Fra i rocker duri e puri (“Il destino delle nuove idee è di cominciare come eresie e finire come superstizioni”, Thomas Huxley) è diffusa la favoletta secondo la quale ci sarebbero dei Kraftwerk buoni e dei Kraftwerk cattivi. I primi facevano avanguardia, i secondi vendettero l’anima al pop sintetico per un po’ di svanziche. A separare il “prima” dal “dopo”, “Autobahn”. Rilevato che è proprio quanto hanno realizzato da quel disco in poi a fare dei Kraftwerk ciò che sono, tocca subito dopo appuntare che nella loro storia non vi sono strappi ma evoluzione nella continuità. La copertina austera del primo 33 giri (vi figura solo un cono stradale di quelli che si usano per delimitare zone dove ci sono stati incidenti o vi sono lavori in corso) potrebbe appartenere ai Kraftwerk dell’ipotetico “dopo”, così come l’attacco di Ruckzuck, con il flauto a tracciare traiettorie geometriche su una serrata pulsione ritmica e le tastiere elettroniche che ora evocano clangori da fabbrica, ora disegnano melodie che potrebbero essere di un quartetto d’archi (le rilettura di alcuni classici dei düsseldorfiani da parte del Balanescu Quartet è distantissima nel tempo, ma nell’anticamera della storia gli strumenti già vengono accordati). Stratovarius oscilla fra il minuetto in moviola e il delirio cacofonico, passando per tristezze gitane. Megaherz è un bordone che ascende sino a liberare un organo e poi un flauto che si libra sul silenzio prima di chiudere il cerchio reinnescando il bordone. Von Himmel Hoch, infine: il rumorismo e la musica industriale dietro l’angolo. Quando si dice un debutto memorabile.

L’album, registrato fra il luglio e il settembre del 1970, viene pubblicato dalla Philips l’anno dopo. Michael Rother ha nel frattempo sostituito Hohmann e con Dinger preme perché la musica del quartetto si compatti e, mantenendo intatte le istanze sperimentali, le innesti su un substrato rock un minimo più canonico. Schneider gli dà ragione. Hütter se ne va. La nuova formazione lavora per sei mesi, mettendo su nastro poco più di mezz’ora di musica a tutt’oggi inedita e partecipando in maggio al programma televisivo “Beat Club”. Il brano eseguito in tale circostanza, Vor dem blauen Bock, è stato aggiunto come bonus alla versione su CD di “Tone Float” ed è l’unica testimonianza pervenutaci dei Kraftwerk del 1971. Per nostra fortuna, che nel cambio oltre a non vedere sconvolto l’ultimo quarto di secolo di musica pop ci guadagniamo un altro grande gruppo, Rother e Dinger fondano i Neu! e Schneider e Hütter rifanno squadra.

Da questo momento saranno solo loro i Kraftwerk. Quanti saranno chiamati a collaborare verranno tenuti nella condizione di gregari, compresi Wolfgang Flur (presente da “Autobahn”) e Karl Bartos (arrivato con “Radioactivity” e da “The Man-Machine” spesso indicato come coautore).

Kraftwerk

“2” viene approntato a fine settembre ’71 ed esce qualche mese dopo. La copertina è pressoché identica a quella del predecessore. Cambiano i colori, bianco e verde anziché bianco e rosso. La mossa, tesa a evidenziare continuità e serialità nella produzione del gruppo, si rivela controproducente a livello di marketing (tanti non si accorgono che è un LP nuovo) ma è concettualmente geniale. Come geniale è Klingklang, che monopolizza la prima facciata e divide con Family Affair di Sly & The Family Stone il record di essere la prima composizione pop in cui compare una batteria elettronica. La distesa sezione centrale annuncia Autobahn. Di già.

Di un anno successivo, “Ralf & Florian” smussa gli angoli. La musica dei Kraftwerk è ora, oltre che sorprendente e non di rado inaudita, piacevole. Gli echi di Estremo Oriente che si odono in Elektrisches Roulette e in Ananas Symphonie suonano, paradossalmente, più autentici del Giappone da cartolina che sarà disegnato da lì a qualche anno dalla Yellow Magic Orchestra (me n’ero dimenticato: altri, come gli Yello, che ai Kraftwerk devono poco meno che tutto). In quest’ultima, una vera rarità nel catalogo del gruppo di Düsseldorf: una chitarra. Slide addirittura.

Il suono dei Kraftwerk è un insieme di ritmi funky, musica concreta e pop.” (Florian Schneider)

La Sinfonia dell’Ananas è l’ultima prova d’orchestra prima della sinfonia di motori di “Autobahn”, suite, canzone e LP. Ridotta su sette pollici dai 22’42” dell’album all’usuale durata di un singolo, la title-track nel 1974 fa furore ovunque nel mondo, Stati Uniti in testa. Prima la popolarità dei düsseldorfiani era limitata alla Germania e relativa: 60.000 copie vendute del primo 33 giri, 50.000 del secondo, 100.000 del terzo. Quanto bastava a pagare i conti di casa dei musicisti e ad aggiornare l’hardware dei Kling-Klang Studios. Hütter e Schneider non dovranno più fare acrobazie per comprare un registratore o uno strumento elettronico.

Autobahn rende pop il minimalismo di Steve Reich, Philip Glass, La Monte Young. È orecchiabile e sperimentale, glaciale e sensuale. Romantica. Come Morgenspaziergang, mentre Kometenmelodie ha l’afflato cosmico che il titolo esige e l’inquietante Mitternacht, che le separa, lancia un ponte verso i primi lavori.

Tanto “Autobahn” è compatto tanto “Radioactivity”, che gli viene dietro a distanza di un anno e battezza il rapporto con la EMI, è frammentario. Disco di passaggio come lo era stato “Ralf & Florian”. Cinque brani su dodici non superano il minuto e mezzo. Quello che lo intitola è quasi una nuova Set The Controls For The Heart Of The Sun (Pink Floyd, quando avevano qualcosa da dire) ed è mediazione esemplare fra gli estremi rappresentati dal suono di sinusoidali di Radio Sterne e dalla melodia sognante e dolcissima di Ohm Sweet Ohm. Mi auguro non vi sia sfuggita l’ironia del titolo.

Il suono di un treno in corsa è musica. Vogliamo rendere la gente consapevole della realtà che la circonda inserendo nelle nostre composizioni i suoni di automobili e treni. Trovo che ci sia in essi una grande bellezza.” (Ralf Hütter)

Dopo “Radioactivity” i Kraftwerk tacciono per due anni (a ben più poderosi silenzi ci abitueranno). Emergono dalla clausura dei Kling-Klang con sotto braccio l’album in prospettiva più rilevante di un anno, il 1977, che commercialmente fu quello della disco e artisticamente quello del punk. “Trans-Europe Express” è il loro capolavoro; il brano che gli dà il titolo, al tempo un hit di dimensioni planetarie, il più bell’esempio di musica mimetica mai concepito. Ma tutto il disco è straordinario: Europe Endless insegnerà molto agli Ultravox!; The Hall Of Mirrors ai Japan; Showroom Dummies ai Devo.

Il nostro obiettivo è scrivere la canzone pop perfetta per tutte le tribù del villaggio globale.” (Florian Schneider)

Obiettivo centrato nel 1978 con The Model, primo brano della seconda facciata di “The Man-Machine”: una melodia di tale stupefacente flessibilità da prestarsi a essere riletta da Snakefinger come dai Big Black e dal Balanescu Quartet. Canzone da villaggio globale, davvero: si sa dell’esistenza di versioni giapponesi e thailandesi.

Il resto del disco, che vanta una copertina, ispirata al costruttivista russo El Lissitzky, degna di figurare in qualunque museo di arte moderna,  vale quasi il suo apice. Si presenta con The Robots, ipnotica e (va da sé) robotica, e si congeda con le suggestioni paragregoriane della canzone omonima; in mezzo, l’irresistibile drive disco di Spacelab e di Metropolis e i toni crepuscolari di Neon Lights.

Si potrebbe anche dire che con “The Man-Machine” la spinta propulsiva dei Kraftwerk si esaurisce. I tempi fra un’uscita e l’altra si dilatano a dismisura – bisogna attendere tre anni per “Computer World”, cinque per “Electric Cafe” e altri cinque per la pletorica raccolta “The Mix” –  e le tredici canzoni partorite da Hütter e Schneider in diciannove anni (a separare le sei di “Computer World” dalle sei di “Electric Cafe” il 45 giri Tour de France) niente aggiungono al loro canone. Il modello di “The Man-Machine” (anche in esso sei canzoni) è fedelmente replicato. Epperò di “Computer World” e di “Electric Cafe” proprio non si vorrebbe fare a meno: regalano brani immensi (Computer Love vale a momenti The Model) e si fanno ammirare per un’economia di forme che ha raggiunto la classicità. Non si può ragionevolmente aspettarsi di più dal prossimo LP. A contentarsi, in rari casi, si gode assai.

P.S. – Il lettore attento avrà notato che, contrariamente a quanto si era fatto con i Faust due mesi or sono, questa volta non sono stati dati voti ai dischi. È che mi pare che sarebbe come assegnare una pagella alla produzione dei Beatles o dei Velvet. Sicuro: “Let It Be” non vale “Rubber Soul” e “Loaded” non è all’altezza di “The Velvet Underground And Nico”, ma si potrebbe negare loro, guardandosi attorno, il massimo dei voti? Penso si sia capito che “Trans-Europe Express” e “Autobahn” sono da portare a casa prima di “Electric Cafe”, ma che avere pure quello male non fa.

Lo stesso lettore avrà notato qualche incongruenza rispetto a certe cose scritte partendo dai Faust. Il fatto è che di quell’articolo, apparso con firma doppia per errore, fu unico autore il Bianchi. Io avevo collaborato solo all’introduzione e se molto condivido di quanto ha scritto il direttore su alcuni punti dissento. Per essere specifici, trovo che il krautrock sia stato caratterizzato da buone dosi, oltre che di intelligenza, di ironia. Credo che l’ironia sia una delle chiavi di lettura dei Kraftwerk. Di fronte a certi testi o agli scatti di copertina di “Trans-Europe Express” o di “Ralf & Florian” io non riesco a rimanere serio. I K-Files di”Blow Up” saranno di nuovo con voi in novembre. Non ci si sposterà da Düsseldorf: è tempo che si dia ai Neu! ciò che è dei Neu!.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.2, settembre/ottobre 1997 come “Kraftwerk: l’esperanto del villaggio globale”.

26 commenti

Archiviato in archivi

Velvet Gallery (13)

Ho amato tantissimo i 10,000 Maniacs, salvo poi – come accade a volte con gli amori di gioventù – smettere del tutto di frequentarli, all’improvviso. Sono anni che non tiro più fuori i loro dischi. Parecchi anni. Ogni tanto mi riprometto di recuperarli, ma poi non trovo mai il tempo. Il sospetto è che c’entri molto il timore di riascoltarli e scoprirli non più splendidi splendenti. Come attraverso le lenti rosa del ricordo.

10,000 Maniacs 1

10,000 Maniacs 2

10,000 Maniacs 3

8 commenti

Archiviato in archivi

Bruce Springsteen 1973-1995 (6): Nebraska

Nebraska

Nebraska. Atlantic City. Mansion On The Hill. Johnny 99. Highway Patrolman. State Trooper. Used Cars. Open All Night. My Father’s House. Reason To Believe.

Columbia, ottobre 1982 – Registrato da Mike Batlin e Bruce Springsteen.

Per chi non c’era è difficile, forse impossibile, afferrare appieno l’impatto che ebbe “Nebraska”. Non dopo anni di dibattiti sulla morte del rock al cui tirare di somme si è concluso che, se non è morto, è morta di sicuro la sua centralità. Quando uscì questo disco, il rock era ancora la colonna sonora e la malintesa ideologia di due o tre generazioni. Oggi – dopo la rivoluzione hip hop e la relativa restaurazione, dopo Cobain, dopo che i computer hanno sopravanzato le chitarre – non è che una delle innumerevoli musiche pop disponibili. Né più vivo né più attuale del jazz o della classica, certamente meno intrigante della migliore elettronica e dei bastardi mutanti generati dalle copule del pop occidentale con le musiche terzo e quartomondiste. Innocuo sottofondo dimentico (ma in fondo senza colpa) che fu un tempo, nello spirito se non nella sostanza, inno da barricata. Una “ragione per credere”, per citare il titolo dell’ultima canzone di quest’album epocale. Se non c’eravate, non potrete dunque capire che in parte, anche mandandolo a memoria questo disco.

“The River” aveva occupato per un mese il primo posto delle classifiche americane e il tour seguente aveva battuto a tappeto per la prima volta non solamente gli Stati Uniti ma pure il Vecchio Continente, in precedenza appena sfiorato al tempo di “Born To Run”. Ogni concerto europeo era stato un evento e il ritorno in patria, con cinque date consecutive esaurite in una grande arena del New Jersey, un trionfo. Più che il suo nuovo re il rock’n’roll aveva trovato, come Mike Appel aveva previsto, un messia. Era Elvis, ma era pure Dylan. Ed ecco che a quindici mesi dalla fine di un tour di cui si era detto come di un Secondo Avvento il re rinunciava allo scettro, metteva in un cantuccio la celebratissima E Street Band e se ne usciva con un album acustico registrato in solitudine con un quattro piste a cassette, spendendo un migliaio di dollari (il costo del registratore), meno di un seicentesimo di “The River”. Era un “Bringing It All Back Home” alla rovescia, diciassette anni dopo: se con quel disco Bob Dylan aveva spiazzato i fan elettrificando la sua musica e trasformandosi da folksinger per eccellenza in rocker, Bruce Springsteen seguiva il percorso inverso, suscitando il medesimo clamore. Ma il suo pubblico, per quanto già sterminato, era ancora un pubblico che ne analizzava ogni mossa in profondità, attento oltre che appassionato, lontano da quello superficiale che gli sarà portato in dote da “Born In The U.S.A.”, e a parte la Columbia nessuno si sentì tradito stavolta. Dati di vendita inferiori a quelli di “The River” ma comunque confortanti, persino sorprendenti per un LP così austero, placheranno in breve anche le ansie della casa discografica.

Come un bambino indesiderato, ma poi voluto fortemente e amato, “Nebraska” non fu figlio di una volontà precisa ma del caso. Il 13 ottobre del 1981 si concludeva il tour promozionale di “The River”. Nei due mesi successivi, mentre la E Street Band si concedeva il meritato riposo, uno Springsteen irrequieto cominciava a mettere su nastro, nel soggiorno di casa sua, i provini per un nuovo album. Il suo metodo di lavoro negli anni con la E Street Band è sempre stato lo stesso: dal momento che non sa scrivere la musica, registrava le idee man mano che gli venivano. Chi ha ascoltato i suoi demo domestici riferisce che variano da registrazioni molto libere che testimoniano del suo comporre la canzone mentre il nastro scorre a interi brani che sono di per sé canzoni finite, che si può poi decidere o meno di riarrangiare per un gruppo. Springsteen incideva questi provini e li portava poi in studio come traccia da fare seguire ai musicisti. L’unica cosa cambiata rispetto agli anni e ai dischi precedenti era che un’evoluzione della tecnologia, la commercializzazione da parte della Teac di un registratore a cassette a quattro piste di ingombro e prezzo ridotti e prestazioni semiprofessionali, gli consentiva ora di incidere nastri di qualità migliore. Mentre in quei due mesi accumulava canzone su canzone al Nostro non passò tuttavia mai per la mente che ciò che stava registrando non fosse un demo ma un LP. Nel maggio dell’anno dopo il Boss convocò infine i suoi fidi collaboratori ai Power Station, li sommerse con il solito diluvio di brani nuovi e iniziò a pensare a una possibile scaletta. L’abbondanza di materiale (larga parte delle canzoni che figureranno in “Born In The U.S.A.” era a questo punto già composta) era fuori dall’usuale persino per gli standard di Springsteen e l’album faticava a prendere corpo. Ma non era, questa volta, soltanto un problema di scelta dei brani e di loro messa in sequenza: il fatto è che a Springsteen pareva che la consistenza del nucleo attorno al quale voleva costruire il lavoro fosse per la prima volta diminuita anziché aumentata dall’apporto del gruppo. Stava venendo fuori un qualcosa di schizofrenico, con da un lato brani ultraelettrici e innodici, dall’altro composizioni più raccolte che nell’interpretazione della E Street Band smarrivano il pathos dei provini. Sembrava un rebus per il quale nemmeno un nuovo album doppio avrebbe stavolta offerto una soluzione. Il taglio del nodo gordiano fu la decisione di pubblicare così com’era una cassetta che il nostro uomo si era portato in tasca per settimane. La casa discografica mise in conto un disastro commerciale che, come già visto, non ci sarà e i suoi tecnici ammattirono per riuscire, in sede di transfer, a confezionare un prodotto di qualità tecnica accettabile. In ottobre usciva “Nebraska”, dieci canzoni per voce, chitarra e armonica.

Il clima che si respira in questo disco che ha la ruvidezza e il fascino dei 78 giri di Robert Johnson e delle registrazioni sul campo di John Lomax è trasmesso alla perfezione già dalla bellissima copertina, con le sue scritte in rosso su nero e una desolata strada di campagna vista da dentro un’auto in corsa verso un orizzonte completamente coperto da nubi tempestose. La canzone che lo intitola lo inaugura e stabilisce il clima. Su una melodia scarna Springsteen racconta, in prima persona, la storia di una coppia che partendo dal Nebraska arriva in Wyoming lasciando per strada una lunga scia di omicidi senza senso. Al giudice che lo condanna a morte il protagonista non sa dire altro che “non posso dire che sono pentito di quel che abbiamo fatto/almeno ci si è divertiti un po’, signore”, un’eco sconvolgente del galeotto di Folsom Prison Blues di Johnny Cash che cantava “ho sparato a un uomo a Reno solo per vederlo morire”.

Proprio Johnny Cash, che non a caso riprenderà ben due brani di “Nebraska”, Johnny 99 e Highway Patrolman, è, più del primo Bob Dylan o di Woody Guthrie, il principale referente di un LP che più che come “folk” va catalogato forse come “rock acustico”. Le accelerazioni rock’n’roll di Johnny 99, State Trooper, Open All Night parlano chiaro in tal senso. Ma se si immagina di togliere la chitarra e sostituirla con il sibilare di un sintetizzatore e il battito di una batteria elettronica, ci si accorgerà che potrebbero benissimo essere canzoni dei Suicide, un duo di avanguardia che Springsteen, sorprendendo i suoi cultori più tradizionalisti, ha dichiarato più volte di adorare.

Non ha tuttavia molto senso analizzare “Nebraska” dal punto di vista musicale. È essenzialmente questo un album che racconta storie, grandi e terribili, violentissime e disperate come un film di Sam Peckinpah. Nessun artista pop aveva mai fatto del proprio paese un ritratto tanto impietoso. L’unica, insopportabilmente ambigua concessione ai valori tradizionali alla base del Sogno Americano è la decisione dell’onesto poliziotto di Highway Patrolman, lanciato all’inseguimento del fratello delinquente che si è macchiato probabilmente di un assassinio, di fermare l’auto di pattuglia e lasciargli superare il confine con il Canada. Vince la famiglia, proprio nel momento in cui va a pezzi; perdono il senso del dovere e la giustizia. “Qui ci sono soltanto sconfitti e vincitori/ed è meglio non rimanere dalla parte sbagliata”, ammonisce il protagonista di Atlantic City. Ma non è vero. Sulle scure autostrade di “Nebraska”, “dove restano inespiati i nostri peccati” (My Father’s House), tutti sono sconfitti.

Pubblicato per la prima volta in Bruce Springsteen: strade di fuoco, Giunti, 1998.

7 commenti

Archiviato in archivi

Presi per il culto (30): Rikki And The Last Days Of Earth – 4 Minute Warning (DJM, 1978)

Rikki And The Last Days Of Earth - 4 Minute Warning

Il ritaglio d’epoca credo provenga dal “New Musical Express”. La firma è autorevole, Mick Farren, già cantante dei Deviants, critico, romanziere, saggista e insomma e a dirla in breve finissimo intellettuale del rock’n’roll. L’inizio della breve recensione parrebbe abbastanza promettente: “In copertina (intende sul retro) sembrano dei punk. Su disco una band heavy metal che sta cercando di modernizzarsi. In tutta evidenza hanno ascoltato una quantità incredibile di dischi e se ne rinvengono testimonianze un po’ ovunque… generose dosi di John Cale, scorie di Doors, un pizzico di Sabbath, persino un Bryan Ferry che osserva benevolo di lato”. Tutto bene? Per niente. Il giudizio finale è tranciante: “Pretenzioso e confuso pomp rock incapace di cogliere la differenza fra melodramma ed energia autentica”. Caro Mick, per una volta non sono d’accordo. Ti appoggio su John Cale. Ti appoggio su Bryan Ferry, per quanto un Ferry così petulante – e si badi bene che sto dando all’aggettivo un’accezione positiva – non lo si sia sentito mai, né prima né dopo gli Ultimi Giorni della Terra. E non ho problemi ad ammettere che in queste undici canzoni, più due strumentali, di melò ce n’è un quantitativo industriale. Però sotto la (spessa) patina teatrale colgo un’angoscia vera. Espressa con un’energia travolgente, per nulla artefatta. Nondimeno ti riconosco che siamo in pochi a pensarla così. “4 Minute Warning” vendette pochissimo alla prima apparizione alla ribalta e a oggi non ha avuto una seconda possibilità: mai ristampato come oggetto fisico (da qualche tempo è tornato sì nei cataloghi ma solamente in forma liquida), resta patrimonio di una sparuta pattuglia di cultori che oltre al sottoscritto include Dave Thompson che, sulla “All Music Guide”, ha firmato un panegirico che condivido praticamente in toto. “Un assalto adrenalinico di rumore futuristico” è una definizione che mi piace moltissimo. E sottoscrivo anche i “panorami di implacabile psicopatologia”. Avete fatto caso alla copertina? Il pianeta che abitiamo vi è rappresentato infilzato su del fil di ferro. Ecco…

Le succinte cronache riferiscono che Rikki Sylvan (al secolo Nicholas Condron e non più fra noi, apprendo da “Wikipedia” ma senza trovare conferma da altre fonti) fondava il gruppo con il chitarrista Valac Van Der Veene nel novembre 1976, i due presto raggiunti dal tastierista Nik Weiss, dal bassista Andy Prince e dal batterista Nigel Bartle. Quest’ultimo veniva rimpiazzato sei mesi dopo da un tizio con generalità da lord, Hugh Inge-Innes Lillingston, ed ecco svelata (forse) una delle ragioni che nella per gran parte proletaria scena settantasettina resero impopolari i nostri eroi: tutti provenienti da famiglie più o meno benestanti e a ritrovarsi appiccata l’etichetta dei fighetti modaioli ci voleva un attimo. Non riusciranno a staccarsela mai e dire che seguivano tutte le regole del manuale e addirittura contribuivano a scriverle, autoproducendosi in maggio un primo 7” (a 33 giri e inciso su un solo lato) che era insieme biglietto d’ingresso per la prima apparizione pubblica. Lì la versione originale della canzone che per quanto mi riguarda basterebbe a iscrivere il nome del gruppo negli annali del rock: City Of The Damned è cavalcata apocalittica ma in qualche strano modo rincuorante, stentorea ma accorata, positivamente eroica, Valhalla indeciso fra i Roxy Music e il punk. Trascorrerà un anno – in mezzo la firma per DJM e alcuni singoli di cui l’album sfortunatamente non riprende il retro più memorabile, una rovinosa Street Fighting Man dal catalogo Stones – prima che, preceduta dallo strumentale For The Last Days allo stesso modo in cui in “Rock’n’Roll Animal” di Lou Reed la Intro annuncia Sweet Jane, la canzone inauguri quello che rimarrà l’unico LP del gruppo (un secondo registrato ma mai pubblicato). Dopo cotanto incipit nulla potrebbe reggere il confronto e tuttavia “4 Minute Warning” risulterebbe album di un certo livello anche senza. Grazie, fra il resto, al glam senza “se” e senza “ma” di Outcast e al quasi-funk ovviamente bianchissimo di No Wave, ai vortici elettrici su ritmica squadrata di Aleister Crowley e alla sarabanda con suggestioni d’Oriente di Loaded, a una Victimized unico scorcio schiettamente punk e a una traccia omonima che esagera in teatralità fin dove è possibile senza sconfinare nella parodia. Se a Berlino invece di David Bowie ci fosse andato Ziggy Stardust “4 Minute Warning” sarebbe stato il risultato, City Of The Damned la sua Heroes.

Mi prende la curiosità di vedere se almeno il disco – che è un’oggettiva rarità – sia attualmente conteso ai prezzi che sarebbero giustificabili per una simile meraviglia mai riedita e faccio un giro su eBay. E mi scappa da ridere. Oggi, lunedì 6 febbraio 2012, ce ne sono in vendita tre copie e la più cara è a 16,50 euro più spedizione. Regolatevi.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.166, marzo 2012. Usualmente i “Culti” li scrivo ex novo, ma oggi ho poco tempo e come recupero questo mi sembrava perfetto. Un anno e nove giorni dopo sono tornato a cercare “4 Minute Warning” su eBay. La copia a 16 euro e 50 è ancora lì.

1 Commento

Archiviato in archivi, culti