Archivi del mese: luglio 2014

The Cure 1978-1996 (13): Mixed Up

Mixed Up

Lullaby (extended mix). Close To Me (closer mix). Fascination Street (extended mix). The Walk (everything mix). Lovesong (extended mix). A Forest (tree mix). Pictures Of You (extended dub mix). Hot Hot Hot!!! (extended mix). Why Can’t I Be You? (extended mix). The Caterpillar (flicker mix). Inbetween Days (shiver mix). Never Enough (big mix).

Fiction, novembre 1990 (album doppio; la versione su CD è singola e non comprende Why Can’t I Be You? (extended mix)) – Remix di: François Kevorkian, Bryan “Chuck” New, Paul Oakenfold, William Orbit, Chris Parry, Mark Saunders, Robert Smith, Ron St. Germain – Produttori: David M. Allen, Robert Smith, Mark Saunders.

Dopo la dolente riflessività di “Disintegration”, cosa di meglio per cogliere come di consueto in contropiede (prevedibile a lungo andare l’imprevedibilità dei Cure) fans, radio, giornalisti che un album destinato alle discoteche? Pubblicato oltretutto, con perfetto tempismo, nel pieno dell’infuriare del ciclone Madchester, con gruppi come Stone Roses e Happy Mondays in cima alle classifiche e con la voga di unire rock e dance al suo apice. I Cure sempre fuori dalle mode che a esse si adeguano sono, nel momento in cui seguono la tendenza generale, in controtendenza rispetto alla loro storia che li ha sempre visti in controtendenza (ci state ancora seguendo?).

Tanto per aggiungere sale (e pepe) alla situazione, mentre “Mixed Up” raggiungeva i negozi Robert Smith concedeva una serie di interviste nelle quali sparava ad alzo zero sulla scena di Manchester, sul connubio rock/dance e sulla disco music che – affermava – “ho sempre odiato”. E allora che senso ha questo LP che affida alcuni classici del gruppo all’estro remiscelante di autentici santoni del suono da discoteca degli anni ’90 come François Kevorkian, Paul Oakenfold e William Orbit? È una provocazione? Un po’. Un’operazione riuscita o un fallimento? L’una e l’altra cosa, un po’. Come qualsiasi dizionario inglese-italiano ci informa, “mixed up” vuol dire “confuso” e tale è appunto questo lavoro che – sarà il caso di chiarirlo – nacque senza premeditazione. Messo sotto torchio da “Spin”, il leader dei Cure a suo tempo dichiarò: “Non si era partiti con l’idea di fare un album dance. In principio l’intenzione era semplicemente quella di rimettere in circolazione materiale uscito originariamente a 45 giri e che non si trova più se non sul mercato dei collezionisti e a prezzi assurdi. Così, per renderlo accessibile ai nuovi fans e visto che avevamo ancora i master, ho pensato che sarebbe stato cosa saggia ristamparlo. Poi si è affacciata l’idea di remixare i pezzi per dare loro un suono più attuale. Da cosa è nata cosa… ed eccoci qua”.

Eccoci qua dunque, a dire di una raccolta antologica (parte dei remix in essa contenuti aveva già visto la luce su vari mix e mini-CD) che alterna discrete intuizioni a riletture che nulla aggiungono agli originali (quindi inutili, più che brutte) e trova ragione di esistere nell’unico remix affidato alle mani magiche di Paul Oakenfold e nel solo inedito in programma. L’inedito si chiama Never Enough ed è un ispiratissimo omaggio a Jimi Hendrix – i modelli di riferimento sono Purple Haze e Crosstown Traffic – sorprendente solo per chi, di memoria corta, non ricordi che Purple Haze fu nelle scalette concertistiche dei giovani Cure per un paio di anni almeno. Il remix curato da Oakenfold è quello di Close To Me. Il geniale produttore vi aggiunge una scansione ritmica hip hop, accentua la presenza dell’organo e inventa intarsi fiatistici stupefacenti: quando verso la fine tromba e sax si scambiano linee prossime al dixie scappa quasi da applaudire.

Niente di così eccitante si ascolta nell’altra decina di remix sottoposti alla nostra attenzione. Piacciono la nuova versione di A Forest, più nervosa, aggressiva, veloce, e la Inbetween Days resa tutto ritmo da un William Orbit dal quale ci si sarebbe però attesi più coraggio. L’ombra di electro che si allunga sull’inizio di Fascination Street fa appena in tempo a intrigare che già è sparita. The Walk e Hot Hot Hot!!!, già molto danzerine in originale, nulla acquisiscono in ballabilità da riverniciature pressoché invisibili. L’incedere funky di Lullaby è un pochino accentuato, ma non si fanno rivoluzioni nemmeno da quelle parti.

“Mixed Up” resta in mezzo al guado. Non osa giocare la carta della radicalità e in un campionato, quello dei remix, dove solo la vittoria conta si accontenta di pareggiare.

Pubblicato per la prima volta, in forma diversa, in Avventure immaginarie, Giunti, 1996.

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Povera Mama Cass (Dream A Little Dream Of Me)

Mama Cass Elliot - Dream A Little Dream Of Me

Povera Mama Cass. Nei Mamas & The Papas non era quella che scriveva i pezzi, firmati quasi tutti da John Phillips, né colei per cui sbavavano i fans, in estasi per la bellissima moglie di John, Michelle. Lei era quella simpatica e brutta, giunonica per usare un’espressione politicamente corretta. Eppure naturalmente predisposta allo stardom e difatti l’unica a sopravvivere artisticamente e commercialmente allo scioglimento del gruppo. A esplicitare in maniera clamorosa che lei con il suo corpo non aveva problemi, forse ce li aveva il resto del mondo, sui manifesti pubblicitari per quello che fu, nel 1968, il debutto solistico e che aveva lo stesso titolo di questa raccolta, si faceva immortalare nuda, il corpaccione adagiato su un tappeto di fiori. Però qualche complesso doveva in fondo averlo se era una dieta troppo radicale a portarla alla morte per infarto nel 1974, non ancora trentatreenne. Povera Mama Cass, che doveva pure subire l’ingiuria postuma di una storiella apocrifa a lungo circolata che la voleva soffocata da un panino, l’ingorda. Povera Mama Cass, talento sprecato, come “Dream A Little Dream Of Me” abbondantemente certifica, con un catalogo assolutamente non all’altezza di una voce sublime sempre in bilico fra esuberanza e vulnerabilità: folk-pop inondato d’archi, svenevoli ballate country, bubblegum, sinatrismi d’accatto. Povera Mama Cass.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.611, giugno 2005. Di Mama Cass Elliot ricorreva ieri il quarantesimo anniversario della prematura scomparsa.

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Blues With A Feeling (per Mike Bloomfield)

Michael Bloomfield - From His Head To His Heart To His Hands

I play sweet blues. I can’t explain it. I want to be singing. I want to be sweet”: così si raccontava Michael Bloomfield a “Rolling Stone” nel suo anno più memorabile, il 1968, una storica ancora prima del senno di poi “Super Session” (in collaborazione con Al Kooper e Stephen Stills) il più improbabile dei campioni di vendite. Aveva venticinque anni, il chitarrista chicagoano, e già un curriculum pazzesco: fiancheggiatore di Dylan nella rivoluzione inscenata da “Highway 61 Revisited”, mattatore nei primi due straordinari LP della Paul Butterfield Blues Band, leader dei freschi di secondo album Electric Flag. Sarebbe morto di una overdose prima ci compierne trentotto, completamente dimenticato dal grande pubblico se non dai colleghi, in miseria, la vetusta Chevy Impala nella quale trovarono il corpo uno dei pochi beni materiali rimastigli. Trentatré ulteriori anni dopo è proprio Al Kooper a dedicargli un omaggio che più bello e pregnante non si riesce a immaginare. Lui il curatore di un box che sin d’ora si candida a ristampa dell’anno, anche al di là del semplice valore musicale che ovviamente c’è ed elevatissimo. È che nei suoi tre CD ciascuno con un titolo e un tema – “Roots”, “Jams” e “Last Licks” – e nel documentario che li accompagna, Sweet Blues, “From His Head To His Heart To His Hands” riesce a racchiudere e raccontare l’uomo – fragile e inaffidabile – oltre che l’artista. Se nessun altro bianco ha forse saputo suonare il blues come Bloomfield è perché Bloomfield non lo suonava semplicemente: lo era. Anche – e dolorosamente – al di là del fatto di averlo appreso non dai dischi ma direttamente dai maestri neri (alcuni dei più grandi: B.B., Albert e Freddie King, Muddy Waters, Howlin’ Wolf, Buddy Guy, Big Joe Williams), lui.

Da molti punti di vista anche i tre dischi sono costruiti come un film, da una scena iniziale mozzafiato nella quale il giovanissimo Mike suona tre pezzi per John Hammond, che subito gli offre un contratto, a un finale amaro e squisito, dopo il quale non c’è posto che per un’elegia e i titoli di coda e che vede il Nostro raggiungere Dylan sul palco per un’incandescente The Groom’s Still Waiting At The Altar. Non gli restavano da vivere che mesi. In mezzo di tutto e di più, fra un cameo che lascia a bocca aperta e l’altro (ancora Zimmie, Muddy Waters, Janis Joplin), in una scaletta magistrale nel delineare la vastità del canone di un bluesman che di quella tradizione era profondissimamente impregnato ma che un purista non fu mai: fanno da monumentali promemoria – per dire – il raga East-West e una His Holy Modal Majesty sulla quale già il titolo la dice lunga.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.191, aprile 2014. Fosse ancora vivo Mike Bloomfield festeggerebbe oggi il settantunesimo compleanno.

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I film in bianco e nero di Guy Clark

Guy Clark - Old No.1

Se mai la musica di Guy Clark ha avuto un tema, è il Texas. Non quello delle mandrie in viaggio o delle sparatorie, ma un Texas i cui abitanti lavorano duro e bevono birra Lone Star a casse mentre discutono di quale sia il chilli più piccante, quale la donna più dolce”: così l’estensore della scheda dedicata a questo LP nella Mojo Collection. Più succinto e persino più efficace quell’altro grandissimo cantastorie di Jerry Jeff Walker nella dedica che campeggia sul retro della confezione di “Old No. 1”: “Guy scrive di uomini anziani e treni vetusti e ricordi come fossero film in bianco e nero”. I trenta esatti anni trascorsi dacché il 33 giri, primo di due per la RCA e formalmente esordio per il nostro eroe dopo un non trascendentale “Unwritten Works” a nome Whistler, Chaucer, Detroit & Green Hill, raggiunse i negozi nulla gli hanno tolto e forse niente aggiunto, siccome da subito dovette apparire un classico fuori dal tempo. Immediatamente “vecchio”, quindi destinato a restare per sempre giovane. Si è semmai allungata a dismisura la lista degli ammiratori, che erano parecchi e illustri allora, dal succitato Walker che già aveva coverizzato un terzo della scaletta dell’album a Johnny Cash, che in quello stesso 1975 fece un hit di Texas 1947, da Rodney Crowell ed Emmylou Harris, qui ai cori, a Steve Earle che invece pure. Di quattordici anni più giovane del trentaquattrenne Clark, quest’ultimo ne impiegherà ulteriori undici per debuttare in proprio e sarà un terremoto chiamato “Guitar Town”, né più né meno un “Old No. 1” come avrebbero potuto renderlo un John Mellencamp o un Bruce Springsteen. Due anni dopo ancora, Michelle Shocked renderà clamoroso omaggio estetico al capolavoro clarkiano riprendendone identico il retrocopertina per “Short Sharp Shocked”. Innumerevoli i tributi da allora e dall’intero arco del parlamentino country, da una Nashville che dopo tanta diffidenza ha finito per adottare incondizionatamente questo artista schivo per quanto è schietto a una folla di più o meno giovani leoni, praticamente tutti quelli etichettati alternative e in prima fila certi Wilco. In tal senso onnipresente, Guy Clark continua dal suo canto a pubblicare con la consueta parsimonia (dieci appena gli LP in studio più un live in tre decenni) e ogni tanto vede un suo brano arrampicarsi nelle classifiche, chiaramente in una versione altrui visto che in prima persona il successo vero lui non l’ha mai conosciuto: quel che si dice una figura “di culto”. Ma più che altro fabbrica chitarre, come già faceva nei tardi ’60 in una California mai granché amata se fa fede un’agra L.A. Freeway.

Il percorso che lo portò a “Old No. 1”, or dunque: un piccolo romanzo come le canzoni di uno che, significativamente, non viene chiamato dagli estimatori songwriter bensì songbuilder. Cresce nella più profonda provincia texana, a Monahans, in un vecchio albergo di proprietà della nonna, si compra la prima chitarra a sedici anni con i risparmi messi da parte lavorando da carpentiere durante le vacanze ed è un amico del padre a insegnargli i rudimenti dello strumento, facendogli fare pratica con una manciata di tradizionali messicani. A Houston qualche tempo dopo saranno nientemeno che Mance Lipscomb e Lightnin’ Hopkins a spiegargli cosa sia il blues, ove lui di suo si immerge in un repertorio di ballate inglese e irlandesi. Quel modo di raccontare storie trasparirà evidente dai primi pezzi che scrive e canta di notte nei caffè, mentre di giorno fa di tutto per campare, dal liutaio – come abbiamo visto – al direttore artistico di un’emittente televisiva. Sarà la moglie Susanna, cantautrice anch’ella e pittrice, a persuaderlo nel 1971 a cercare fortuna a Nashville. Ne troverà poca e ci metterà un po’.

Si avverte appieno, in questa pietra miliare non per modo di dire, l’esperienza di un uomo che ha già vissuto molto e sa raccontartelo con una capacità di rendere i sentimenti, una vividezza pittorica, un’abilità affabulatoria uniche. È ciò che rende indimenticabili canzoni comunque musicalmente deliziose, con ritornelli corali che ti paralizzano tanto sono istantanei e un odore di polvere da campagna riarsa che si leva dagli intarsi di dobro e dallo scivolare di una pedal steel, nel frattempo che un violino dichiara che sono qui la festa e il dolore quotidiano che chiamiamo vita. Poche figure femminili nella storia della canzone d’autore americana permangono nella memoria come la “honky tonkin’ Rita Ballou” della canzone omonima (chissà: una dirimpettaia della Loretta dell’amico Townes Van Zandt) o la prostituta in lacrime al funerale di un uomo altrimenti dimenticato da tutti alla fine di Let Him Roll. E chi ha mai reso l’amarezza che lascia la mattina dopo un simulacro d’amore raccolto in un bar come Clark in Instant Coffee Blues? Chi la bellezza di un’amicizia fra generazioni lontane come in Desperados Waiting For The Train? Disponibile in CD con il successivo e appena meno sublime “Texas Cookin’”.

Pubblicato per la prima volta su “il Mucchio”, n.614, settembre 2005.

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Il capolavoro imperfetto di Amy Winehouse

Tre anni fa, giusto in questi giorni, quotidiani e tg di tutto il mondo erano pieni di Amy Winehouse. Per il più tragicamente sbagliato dei motivi. Da lì a qualche mese la ricordavo così, raccontando il più classico dei suoi due soli album “veri”, vecchio a quel punto già cinque anni.

Amy Winehouse - Back To Black

Racconta Mark Ronson – chitarrista e dj cresciuto a pane e hip hop e incidentalmente figliastro del Mick Jones sbagliato (quello dei Foreigner) – che nel marzo 2006 Amy Winehouse, londinese ed ebrea come lui, andava a trovarlo a New York per cominciare a discutere quello che sette mesi più tardi sarebbe divenuto il suo secondo – e sciaguratamente ultimo – album. Si presentava con un pacco di dischi dei primi ’60, tutte produzioni di Phil Spector ad eccezione delle Shangri-Las, e per l’allora trentenne Ronson già quella era un’epifania: scoprire un sound (un Wall of Sound) “imponente e bellissimo, epico ed emozionante” contro il quale mai era andato a sbattere e, contestualmente, che la ragazza voleva che il suo lavoro nuovo fosse una roba così. La seconda epifania, va da sé, era trovarsi a dirigere un’artista dalla personalità prorompente quanto era eccezionale la voce e non è che il nostro uomo avesse avuto a che fare, in precedenza, con dei signori o delle signore Nessuno. In “Back To Black” la sua firma sta in calce come produttore a sei brani su undici e pure come co-autore a uno, la title track. Ascoltatela dopo Forever (Walking In The Sand) delle Shangri-Las e scoprirete che chi l’ha scritta aveva studiato. Racconta invece Neal Sugarman dei Dap-Kings, che in “Back To Black” ci suonano e furono scelti come gruppo spalla nel tour statunitense che lo promuoveva, che alle prime prove la Winehouse era in ritardo. Tanto in ritardo. Il nervosismo, a causa delle voci arrivate sin negli USA sui comportamenti sempre più bizzosi dell’artista e sui suoi problemi con alcool e droghe, andava montando quando infine Amy arrivava. Sobrissima ma felice come una pasqua, con due dozzine di vecchi LP di jazz sottobraccio: casualmente si era imbattuta nel negozio di vinile usato preferito dagli stessi Dap-Kings e se l’era rovistato a fondo ed ecco, sono queste le storie su Amy Winehouse che ci piace leggere. Basta con lo schifo che le hanno tirato dietro da morta e a dire il vero già avevano preso a lapidarla da viva e a ridirlo, il vero, lei non è che non se la fosse cercata, per troppa innocenza o incoscienza, tutta quella merda. Basta con le morali pelose, basta con le banalità insopportabili e di fenomenale cattivo gusto sul “club dei 27”, basta. Parliamo di musica.

Parlando di musica, quest’album è un ossimoro: un capolavoro imperfetto. Un disco con dentro diverse canzoni eccezionali ma che, avendone ascoltato il predecessore, dà nettissima l’impressione che di opera “di transizione” trattavasi. Di momento di passaggio in cui l’anatroccolo jazz (oh, sia chiaro: tutt’altro che brutto) ancora non si era completamente trasformato in un cigno soul. Se quello avrebbe poi volato con le ali di un tipico sound ’60, o piuttosto di un suo aggiornamento all’era del trip-hop, non lo sapremo mai, siccome per certo non potranno dircelo le registrazioni (la speranza è che non ve ne siano abbastanza) che eventualmente raffazzoneranno per confezionare un terzo campione di vendite, primo postumo. Debutto che nel 2003 parve prodigioso, e lo è se ci ricordiamo che a realizzarlo fu una ragazzina di manco vent’anni, “Frank” si porgeva indeciso fra la lingua vetusta di una Billie Holiday di suo irrisolta fra sentimento autentico e stilosi manierismi e una sua reincarnazione nei panni di Lauryn Hill, o Macy Gray. Magari di Joni Mitchell (immaginarsela, una Joni che parla sporco), in una Moody’s Mood For Love che ne costituisce uno dei momenti alti. Al contrario “Back To Black” non è mai rappresentazione bensì vita vera, dal primo all’ultimo secondo. Dall’attacco fulminante di una Rehab che sceglie uno sbarazzino piglio errebì per declinare la disperazione esistenziale del rifiuto a disintossicarsi, che è un perdere tempo quando lo si può trascorrere ascoltando Ray (Charles) o (Donny) Hathaway, alla chiusa parimenti ammiccante e sconfortante (ma come non cogliervi un umorismo mordace?) di una Addicted novella Don’t Bogart Me per generazioni ecstatiche. Le cose meravigliose in mezzo sono, oltre alla già menzionata traccia omonima, una You Know I’m No Good in cui Billie diventa Aretha, un’affranta Love Is A Losing Game, una Tears Dry On Their Own in scia alla classicissima Ain’t No Mountain High Enough, una Wake Up Alone che pare Sam Cooke che si dà al blues e una He Can Only Hold Her da Impressions maggiori. Altre ve n’è nondimeno (d’accordo, un paio) ove la trascendenza non è un’ipotesi, l’eleganza una maledizione da cacciare con un altro po’ di male di vivere.

Recordman al botteghino e gran ramazzatore di premi, l’album veniva riedito nel novembre 2007 in una versione Deluxe che è quella da avere, per via di un secondo disco con sopra una manciata di cover per una buona metà di area ska-revival. Soprattutto, per una fantastica Cupid in levare. Imprescindibilmente, per il demo voce e chitarra di Love Is A Losing Game, distillazione di desolazione assolutamente affine alla Where Did You Sleep Last Night di Leadbelly sistemata a suggello dell’“Unplugged” dei Nirvana. Ci avevate mai pensato? Amy come Kurt.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.688, novembre 2011.

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The Cure 1978-1996 (12): Disintegration

Disintegration

Plainsong. Pictures Of You. Closedown. Lovesong. Last Dance. Lullaby. Fascination Street. Prayers For Rain. The Same Deep Water As You. Disintegration. Homesick. Untitled.

Fiction, aprile 1989 (la versione su vinile non comprende Last Dance e Homesick) – Registrato presso gli Outside Studios, nel Berkshire. Mixato presso il Rak Studio Three di Londra – Tecnici del suono: David M. Allen e Robert Smith – Produttori: David M. Allen e Robert Smith.

Robert Smith e Laurence Tolhurst si incontrarono per la prima volta su un autobus scolastico nel settembre 1964, ma incominciarono a salutarsi solo nel maggio 1972”: sono le prime righe di Ten Imaginary Years, che prosegue con Smith che racconta della prima volta che suonò davanti a un pubblico.

Ho avuto la mia prima chitarra elettrica nel dicembre 1972. Frequentavo al tempo la Notre Dame Middle School, un istituto sperimentale i cui metodi di insegnamento per i ragazzi dagli undici ai tredici anni erano pressoché rivoluzionari; la mentalità era aperta e mi piaceva. Se eri astuto potevi convincere i professori di essere un tipo speciale: così, non ho fatto praticamente nulla per tre anni. Trattandosi comunque di una scuola cattolica i programmi comprendevano anche l’educazione religiosa e questo mi spingeva a tagliare. Con Lol, Michael Dempsey e qualcun altro si andava dunque nell’aula di musica dove, utilizzando la strumentazione disponibile a base di timpani, chitarre spagnole e vibrafoni, imparammo a suonare bizzarre versioni di canzoni dell’epoca; aggiungendo al tutto testi a sfondo sacro inventammo un nuovo genere di musica, tanto personale quanto terribile. Al termine dell’ultimo anno ci esibimmo davanti alla classe: io suonai il piano, Lol la batteria, Michael e un tal Marc Ceccagno le chitarre. Ci eravamo battezzati The Obelisk ed eravamo pessimi. Ma in ogni caso, era sempre meglio che studiare.

Sbocciata ai tempi della scuola e fiorita nei primi anni dell’epopea Cure, l’amicizia fra Robert Smith e Laurence Tolhurst, detto Lol, si sarebbe detta di quelle destinate a durare per sempre. Tolhurst era sopravvissuto a numerosi cambi di formazione, si era tolto uno sfizio lasciando il posto di batterista per quello di tastierista e ancora nel 1987 veniva considerato da tutti un elemento fondamentale dell’alchimia Cure. Lo stesso leader nel corso degli anni aveva più volte dichiarato che senza di lui non ci sarebbero più stati i Cure. Cementato dalla condivisione di tanti momenti difficili ma anche di epici eccessi, il rapporto iniziò a incrinarsi quando quegli stessi eccessi cominciarono a essere il nucleo anziché il contorno della vita di Tolhurst. Col passare degli anni Smith aveva, in una certa misura, appreso l’arte della moderazione e sempre meno tollerava, poiché ciò iniziava ad avere pesanti riflessi sulla vita del gruppo, che Tolhurst non avesse seguito il suo esempio né sembrasse avere la minima intenzione di farlo. Nella scala di valori di Smith l’amicizia occupa un posto alto ma inferiore ai Cure (sopra i Cure, forse, solo l’amore per Mary Poole, sua compagna sin dall’adolescenza) e quando gli parve che la permanenza in organico di Tolhurst li avrebbe danneggiati, che nella migliore delle ipotesi il suo braccio destro di un tempo fosse ormai un peso morto, lo mise alla porta. Era l’ultima cosa al mondo che Tolhurst si sarebbe aspettato di vedere accadere e i toni della contesa, che finirà persino in tribunale, furono da subito aspri. “Disintegration” era appena giunto nei negozi quando Smith dichiarava a Robert Sandall, che lo stava intervistando per Q: “Mi sono limitato a dirgli che non volevo più trovarmelo fra i piedi. Era diventato una specie di soprammobile, lo vedevi soltanto a tavola ed era sempre fuori di testa. Musicalmente non ha mai contato nulla ed è stato l’unico del gruppo che non è riuscito a darsi una regolata, a rinunciare a taluni eccessi tipici del mondo del rock’n’roll… Lol conosce le ragioni per cui non compare nel video e non verrà in tour con noi questa estate. Se sei in un gruppo con altre cinque persone devi metterci qualcosa di tuo, devi avere un minimo di dedizione alla causa.

Una volta deciso il da farsi, Smith agì senza ripensamenti e con chirurgica freddezza, ma per lui non dovette essere facile giungere a una simile risoluzione e i tormenti che lo angustiarono traspaiono dall’atmosfera carica di depressione che si respira in “Disintegration” e contribuirono sicuramente a crearla. In copertina Tolhurst, il cui contributo in studio – si sa – fu nullo, viene misericordiosamente accreditato di avere suonato “altri strumenti”, non meglio specificati, mentre le parti di tastiera sono attribuite a Smith, a Gallup e a Roger O’Donnell. Quest’ultimo, già tastierista degli Psychedelic Furs e grande amico di Williams, si era unito ai Cure durante il tour americano che aveva fatto seguito alla pubblicazione di “Kiss Me Kiss Me Kiss Me”, ufficialmente per rendere più pieno il suono live del gruppo, in realtà per mascherare i sempre più frequenti sbandamenti di Tolhurst. Sostituirà il naufrago anche nel tour di “Disintegration” e lascerà poi la banda Smith, salvo rientrarvi in tempi recenti.

Lol Tolhurst accuserà veementemente Robert Smith, in diverse interviste e pure davanti a una corte di giustizia, di averlo sfruttato per anni e di averlo licenziato senza motivo, ma del buon cuore e della buona disposizione fino all’ultimo del leader dei Cure è testimonianza eclatante il fatto che Tolhurst viene accreditato come co-autore anche in “Disintegration”. Fu un gesto di generosità naturalmente non solo formale: Tolhurst potrà campare fino all’ultimo dei suoi giorni grazie ai diritti d’autore di canzoni che non ha scritto. Chi è l’ingrato?

Come si preannunciava dianzi, dopo i fuochi d’artificio di “The Head On The Door” e “Kiss Me Kiss Me Kiss Me” in questo LP i colori si fanno di nuovo sobri. Pur senza mai sprofondare negli abissi di tristezza di “Faith”, né cedere all’ira che pervade “Pornography”, “Disintegration” reinstaura il gotico nella musica dei Cure. Lo fa, rispetto a quegli album, con arrangiamenti più complessi e avvolgenti, che smussano gli spigoli e contribuirono in maniera determinante a mantenere elevato l’appeal di Smith e compagni. Raramente un disco così malinconico ha scalato le classifiche.

Se nel predecessore si possono isolare pagine più introverse rispetto all’esuberanza dell’assieme, in questo LP non ci sono grandi scarti d’umore fra un brano e l’altro e nemmeno i titoli che uscirono a 45 giri si differenziano granché in tal senso. Il primo a vedere la luce, praticamente in contemporanea con l’album, fu Lullaby, ninna nanna ben lugubre assolutamente sconsigliata a quanti soffrono di aracnofobia. Su un incedere funky passato in moviola, Smith sussurra un racconto dell’orrore che il corrispondente video butta in macabra farsa. Il tasso melodico è alto, due ascolti e la si fischietta, e dunque non c’è da stupirsi se il pubblico premiò questa canzone.

Alla grande si mossero anche Lovesong, pubblicata su 45 giri e mini-CD in agosto, e Pictures Of You, che ne seguì le orme nel marzo 1990. La prima è attraversata da un organo delizioso e coperta a mo’ di cialda da archi memori di “Kiss Me Kiss Me Kiss Me”. La seconda ha un arrangiamento assai più spartano ed è un tuffo molto più indietro nel passato, in piena epoca “Seventeen Seconds”. Più di qualcosina di “Faith” si coglie in Closedown, Last Dance e Prayers For Rain, non certo gli episodi migliori di “Disintegration”. Ove la mestizia di “Faith” bene si sposa invece ai toni carichi di “Kiss Me Kiss Me Kiss Me” è in Fascination Street, non a caso da allora uno dei brani più richiesti nei concerti.

Ma è soprattutto in apertura e in chiusura che questo LP si gioca le carte migliori. L’iniziale Plainsong, condotta dalle tastiere, distesa e magniloquente, resta a lungo nella memoria e nel cuore. E il poker calato negli ultimi 31’26” (va bene: una maggiore concisione non avrebbe fatto danni) è d’assi. The Same Deep Water As You, Homesick e Untitled sono romantiche ai limiti e oltre dello struggimento (l’apertura d’organetto dell’ultima è uno degli attimi più alti dell’intero repertorio smithiano e la melodia pianistica della penultima gli viene a ruota). Quanto al brano che intitola il lavoro tutto, gli riesce il gioco che non era riuscito a Fight: coniugare magnificamente una ritmica prossima alla disco con archi straripanti, testimone una voce cupa.

Pubblicato per la prima volta, in forma diversa, in Avventure immaginarie, Giunti, 1996.

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Neil Young – A Letter Home (Third Man/Reprise)

Neil Young - A Letter Home

Trattandosi di Neil Young, l’età c’entra poco con il suo essere fuori di testa o, se preferite, con il vivere in un mondo solo suo. Uno in cui sembra sensato, con a disposizione un catalogo con dentro decine di canzoni classiche, suonarne quattordici in tutto dal vivo (ma farle luuuuuuunghe) essendo una una rilettura da oratorio di Blowin’ In The Wind e un’altra un inedito che tale sarebbe dovuto restare. È in fondo lo stesso pianeta che già abitava al tempo in cui si suicidava, commercialmente parlando, dando un seguito ad “Harvest” con “Journey Through The Past”, capostipite di una sfortunatamente sterminata stirpe di dischi assurdi e spesso orrendi. Era il 1972, ma il buon vecchio Neil era già il buon vecchio Neil e quindi era fatto così. Che gli vuoi dire? Se si annoia a suonare ancora Powderfinger, be’, si annoia. Cazzo gliene frega se ha davanti gente che ha sborsato decine di euro e magari percorso centinaia di chilometri per ascoltarlo? Il buon vecchio Neil è così: ti ha fracassato i coglioni per decenni con discorsi più o meno astrusi, più o meno sensati sul modo corretto di riprodurre la musica (è per via di tali fisime che taluni suoi capolavori sono rimasti fuori catalogo per periodi lunghissimi) e poi manda nei negozi un album registrato in una cabina Voice-O-Graph restaurata, una di quelle in cui, negli Stati Uniti del secondo dopoguerra, si poteva entrare e provare l’emozione di incidere la propria voce su un disco in vinile. Ora: non fosse che “A Letter Home” fa parte ufficialmente della produzione del Canadese, è ufficialmente il suo trentaquattresimo lavoro in… ahem… studio, si potrebbe prenderlo per uno scherzo e pazienza se gli scherzi dovrebbero far ridere e questo no. O se no si potrebbe interpretarlo come un’operazione altamente concettuale e già diventerebbe più interessante. Tipo la merda d’artista, che però alla fine merda resta.

Quel che abbiamo in mano dunque, con rispetto parlando, sono una intro parlata (quando il buongiorno si vede dal mattino) e undici cover (particolarmente sfortunati Gordon Lightfoot e Willie Nelson, presi di mira due volte). Per ciò che attiene la forma immagino fosse il vostro sogno mettervi in casa un CD con registrazioni del 2014 che sembrano del 1930, con tanto di scricchiolii e distorsioni a inspessire la patina vintage. Il tutto naturalmente al normale prezzo di un CD nuovo, quindi intorno ai diciotto euro, ma se preferite potete spenderne un ventotto per l’edizione in vinile 180 grammi per audiofili (giuro: esiste; quantomeno non dovrete preoccuparvi di graffi, polvere o ditate e anzi al posto vostro la invecchierei ancora un po’ apposta) o, se proprio volete farvi un regalo, i centotrenta richiesti per la versione in cofanetto. E queste che vi ho dato finora erano le buone notizie. La cattiva è che la sostanza di “A Letter Home” è peggio della forma, che siamo ai livelli del terribile “Americana” (che stroncavo qui) e allora ci si aspetterebbe subito come risarcimento minimo un altro “Psychedelic Pill”. La cattiva è che, eccettuata una Girl From The North Country (da Dylan, ça va sans dire) di apprezzabile intensità, il buon vecchio Neil approccia il resto del programma nel migliore dei casi con l’esitante rispetto del busker alle prime armi e nel peggiore con la sua approssimazione. Valgano come particolarmente censurabili esempi dell’ultimo la Needle Of Death di Bert Jansch ridotta a uno strimpellare un po’ così laddove era struggente arazzo di corde e lo Springsteen ammaccato e traballante di My Hometown. Si arriva in fondo con la spiacevole sensazione di esser stati presi in giro e con il buon vecchio Neil è un déjà vu, ma non come quello del 1970, sfortunatamente.

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I used to be disgusted: il primo Elvis Costello

Elvis Costello

Se il punk fu prima di tutto una questione di attitudine, non vi è dubbio che pochi nel 1977 fossero punk quanto Declan Patrick McManus, a partire dallo pseudonimo adottato: perché Costello sarà anche stato il cognome della nonna ma suonava provocatoriamente gangsta ed Elvis, be’, Elvis era il Re che proprio quell’anno perdeva vita e trono mentre su un altro, poco regale trono era assiso. Ma tornando al nostro di Elvis, con il resto dei ragazzotti della Londra che bruciava musicalmente divideva poco. E non c’entrava granché nemmeno Buddy Holly, cui tanti lo accostarono ingannati da occhiali, giacchetta, postura. “I used to be disgusted/but now I try to be amused”, recitavano i primi versi di (The Angels Wanna Wear My) Red Shoes, e ciò di cui all’epoca nessuno si accorse con il tempo risulterà evidente: era Randy Newman il modello. Il più punk di tutti. L’ha mai scritta Johnny Rotten una canzone più politicamente scorretta di Short People? E sarà lo stesso McManus ad ammettere l’influenza nelle note di copertina di una delle innumerevoli riedizioni in digitale del suo primo album. Chi volesse mettersene in casa una analogica finalmente ben suonante (pur con gli ineludibili limiti di partenza di una produzione un po’ piatta) da un anno a questa parte può farlo, grazie a Mobile Fidelity. Rapportato ai capolavori che gli andranno dietro “My Aim Is True” un minimo va ridimensionato. Qualche brano sa di tappabuchi, non c’erano ancora gli Attractions e il Nostro in quanto a voce era un rospo lungi dal trasformarsi in principe. Ma spigliati rock’n’roll come Welcome To The Working Week o No Dancing, quello splendido rhythm’n’blues che è Blame It On Cain, quella ballata meravigliosa che è Alison restano invincibili.

A proposito di capolavori autentici… Il primo a mio giudizio della discretamente lunga lista costelliana era nel marzo ’78 (quindi ad appena otto mesi dal debutto) “This Year’s Model”, la cui ristampa in vinile da parte del medesimo prestigioso e scrupoloso marchio americano (la scaletta è di conseguenza quella USA, con Radio Radio aggiunta ma senza I Don’t Want To Go To Chelsea e Night Rally) è faccenda più recente, dello scorso giugno. Quasi un secondo esordio se si considera che sanciva l’ingresso in scena di quegli Attractions – Steve Nieve a piano e organo, Bruce e Pete Thomas rispettivamente a basso e batteria – che saranno per il nostro eroe il corrispettivo degli Heartbreakers per Tom Petty. Suono insieme più robusto e scorticato rispetto al predecessore, il disco regala classici grandiosi come una martellante Pump It Up e una dolcissima Little Triggers, una Hand In Hand dal sentimentale al petulante e una Living In Paradise vagamente reggata, e a questo giro non toglieresti nulla. E poi, in questa edizione almeno, c’è Radio Radio: immediatamente indimenticabile, sin dal fraseggio di tastiere che fa da incipit.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.317, dicembre 2010.

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Cento di questi giorni e zero di questi album, Mr. Chris Cornell

Compie oggi gli anni Chris Cornell ed è un compleanno importante, di quelli con la cifra tonda: cinquanta. Siccome sono una brutta persona gli faccio gli auguri come già li feci qualche mese fa a Billy Corgan: riesumando una recensione non esattamente lusinghiera. La verità – e ne abbiamo purtroppo avuto prove e controprove a iosa – è che poche cose si danno in natura di potenzialmente più deleterie di un album solista di Chris Cornell. Forse una sola: Eddie Vedder che pubblica una raccolta di incisioni per sola voce e ukulele. Chiaramente non accadrà mai.

Chris Cornell - Songbook

Magari passati i cinquanta Chris Cornell ritroverà la bussola, un po’ come accadeva a Robert Plant, che impiegava vent’anni e sette album per fare definitivamente i conti – e pace – con i Led Zeppelin e ripartire. Se “Mighty ReArranger” e “Band Of Joy” (e in mezzo “Raising Sand”) sono indubbiamente dischi favolosi, capaci insieme di reggere il peso di un’eredità tanto gravosa e di dispiegare una personalità loro propria, non è però che Plant in precedenza avesse fatto cose indegne. Mai. Sciaguratamente l’allievo sì ed è stato un crescendo rossiniano al contrario, da quel “Superunknown” parecchio minore che era “Euphoria Morning” al penoso hard “maturo” di “Carry On”, all’insopportabile dance-pop di “Scream”. È come se il nostro uomo, che pure alle sue band ha sempre offerto apporti compositivi rilevanti, fuori dalla cornice di un gruppo non riuscisse a trovare una sua dimensione, una direzione di marcia, un orizzonte. Come se non avesse ancora elaborato il lutto per la fine dei Soundgarden (e difatti lo scorso anno, sebbene solo per un tour, sono tornati assieme) e poi degli Audioslave.

Forse con il senno di poi a “Songbook” si guarderà come all’album che marcò una cesura con in sé i semi della rinascita. Tutto è possibile, ma per intanto questi sessantasette minuti segnano l’ennesima giravolta trasformista e questo mentre si vorrebbe provare in un colpo a rivendicare il proprio passato e ad archiviarlo. Registrato dal vivo senza altri musicisti sul palco ad accompagnare il titolare, il disco pesca vivaddio non soltanto nel catalogo da solista di Cornell ma anche in quelli di Soundgarden, Temple Of The Dog e Audioslave. Nondimeno senza che ciò ne risollevi le sorti più di tanto giacché sono quasi immancabilmente canzoni che, se ridotte a voce e chitarra acustica, non sono abbastanza solide melodicamente da reggere. Lo si nota tanto di più quando cedono il proscenio a un paio di cover. Passi Imagine, della quale si sarebbe serenamente fatto a meno, ma il raffronto fra il resto del programma e Thank You (ma guarda! dai Led Zeppelin) è veramente impietoso.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.689, dicembre 2011.

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Natalie Merchant – Natalie Merchant (Nonesuch)

Natalie Merchant - Natalie Merchant

Mi stupisce di non averci mai pensato prima (non che negli ultimi vent’anni abbia pensato molto a Natalie Merchant e dire che i 10,000 Maniacs furono uno dei miei gruppi preferiti degli ’80): la Joan Baez della sua generazione. Naturalmente facendo ogni debita proporzione e considerando quanto fossero cambiati i tempi. Nondimeno – Stipe il suo Dylan, identica la propensione a propagandare giuste cause (sì, vi è consentito essere cinici al riguardo), parimenti inconfondibile la voce (ma tendente al crepuscolare ove Joan è sempre stata solare) – i punti di contatto sono piuttosto evidenti. Anche in questo le due hanno finito per somigliarsi: la migliore Baez, trascorso il suo decennio favoloso, fu quella che un po’ usciva dal seminato cantando un intero LP in spagnolo (perché un’altra musica popolare è possibile) di “Gracias a la vida”; la migliore Merchant solista è stata quella prima rigorosamente folk di “The House Carpenter’s Daughter” e quindi quella deliziosamente alle prese con canzoni per infanti di “Leave Your Sleep”. Rispettivamente, 2003 e 2010. L’ex-10,000 Maniacs un album “canonico” non lo produceva insomma da “Motherland”, dal 2001, e che abbia scelto la propria identità anagrafica come titolo per un lavoro che si è in fondo fatto aspettare tredici anni è significativo.

Fa un po’ sorridere definirlo il disco della sua maturità, giacché l’impressione da lungi era che non vedesse l’ora di avere cinquant’anni. Ora che li ha, confeziona un disco di pop adulto che alterna momenti più raccolti a densi arrangiamenti orchestrali, che lì si concede un tocco di gospel e là uno spruzzo di jazz e quando proprio vuole lasciarsi andare un basso che funkeggia appena e una marcetta dixie. Tutto molto elegante. Magari anche troppo.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.352, giugno 2014.

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