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A Brief History Of Gang Of Four

I Gang Of Four sono stati il primo gruppo rock con il quale sono riuscito sul serio a rapportarmi, il primo che mi fece andare via di testa e sentire parte di un qualcosa di unico e figo. Il primo che ad ascoltarlo mi veniva voglia di ballare e scopare. Rammento ancora l’effetto che mi fece ‘Entertainment!’, con i suoi ritmi affilati come un rasoio e quella copertina che dava in culo all’uomo bianco. Guardarla ed esplodere in una danza spastica fu un tutt’uno. Mi spazzò via. Rovesciò completamente la prospettiva da cui osservavo il rock e mi indusse a prendere in mano un basso elettrico.

“‘Entertainment!’ fece a pezzi qualunque cosa fosse uscita prima. I Gang Of Four avevano il senso dello swing. Ho rubato un sacco da loro.”

Parole di Flea dei Red Hot Chili Peppers le prime, di Michael Stipe dei R.E.M. le seconde, spese quando nel 1995 una ristampa espansa del primo, epocale album riaccese i riflettori sul quartetto di Leeds. Flea osservava anche che l’influenza esercitata da Andy Gill su The Edge degli U2 e dal gruppo tutto su complessi a loro volta seminali come Fugazi e Jane’s Addiction era alle sue orecchie evidentissima. E come non essere d’accordo? Mentre Tad Doyle, fra i vessilliferi del grunge alla testa della quasi omonima formazione, dal canto suo raccontava di avere avuto la vita cambiata, e con lui Kurt Cobain, da un concerto della Banda dei Quattro a Seattle. Esperienza analoga a quella di cui riferisce la penna più celebre e aguzza del giornalismo rock americano dacché Lester ci ha lasciati, vale a dire il decano Greil Marcus, che vide i ragazzi in azione a San Francisco nel 1979. Spalla dei Buzzcocks. A tal punto esaltanti che lasciò la sala senza assistere all’esibizione dei Mancuniani, affinché la magia dell’attimo non avesse a sciuparsi. Reazioni: Doyle dava vita a una cover band, Red Set, dedita al rifacimento integrale di “Entertainment!”; Marcus scriveva sui Gang Of Four pagine fra le più memorabili della sua opera tutta (nulla più definitivo al riguardo che In The Fascist Bathroom). A nove anni dall’ondata di omaggi che salutò la ripubblicazione di un album uscito in origine nel settembre 1979, c’è di nuovo un pretesto per discettare dei leedsiani: torna nei negozi, identica però a com’era e non si capisce bene quale il senso dell’operazione, “A Brief History Of The Twentieth Century”, buon compendio per il neofita con i suoi venti brani per settantasette minuti. Non-evento che viene comunque buono per contare al giovin lettore il perché e il percome i Gang Of Four furono e sono così importanti e aggiornare l’elenco degli epigoni: Liars, Interpol, Yeah Yeah Yeahs. In misura minore gli Strokes. Per certo riffarama che deve decisamente di più ad Anthrax che al Sabba Nero, i Queens Of The Stone Age. Eccetera.

Prosegue per altre 6.491 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.566, 17 febbraio 2004. Ricorre oggi il terzo anniversario della scomparsa, sessantaquattrenne, del chitarrista Andy Gill.

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Redskins – Neither Washington Nor Moscow (London, 4CD)

“Penso che talvolta le case discografiche si dimentichino che il loro compito è di immettere sul mercato materiali nuovi. Tutto quello che circola oggi sono ristampe, remix, tutta quella merda. Se per un colpo di culo ti trovi in mano qualcosa di nuovo, be’, puoi scommettere che è una cover”: così Chris Dean, cantante, chitarrista e portavoce dei Redskins in un’intervista che il “Melody Maker” pubblicava nel numero del 30 novembre 1985, meno di tre mesi prima che molto coerentemente l’ultrapoliticizzato trio esordisse a 33 giri (e su Decca, eh? etichetta notoriamente prossima a quella sinistra extraparlamentare in cui militavano i ragazzi) con quello che resterà l’unico album in studio e che in una scaletta di undici brani ne contava appena due non usciti già in forma di singoli. Il Vostro (allora alquanto giovane) Affezionato ricorda ancora (pur lontanissima l’odierna “era della suscettibilità” così ben tratteggiata da Guia Soncini nel suo ultimo libro) che per aver fatto notare in un articolo, peraltro assolutamente elogiativo, quanto esposto sopra collezionò per mesi missive di insulti da lettori inviperiti.

“Neither Washington Nor Moscow” era stato ristampato un’unica volta in CD, nel ’97, con quattro bonus e due erano cover (ahem) e una un remix (ahem due). Torna adesso nei negozi addirittura quadruplo, con in più tre “Peel Sessions”, due mezzi concerti e una pletora di lati B, demo, versioni alternative e (certo che sì) remix e cover. Qualcosa da dichiarare, Mr. Dean? Ah sì, che è venduto al prezzo che costa oggi un-vinile-uno. Ego te absolvo, allora. Il loro rhythm’n’blues suonato con piglio punk risulta tuttora eccitantissimo e i Redskins erano un gruppo grandioso, ma con un repertorio di quindici canzoni.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.439, febbraio 2022.

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Dan Sartain – Arise, Dan Sartain, Arise! (One Little Independent)

A volte la vita fa davvero schifo. Devi recensire l’ottavo album di uno che adori sin da quando scrivesti di un terzo che era però come fosse il primo, giacché nel 2006 con “Vs. The Serpientes” l’autore entrava nel mondo della discografia ufficiale dopo due autoproduzioni, e dovresti esserne felice. Tanto più perché lo si attendeva dal 2016 ma anche no, sapendo che Sartain, arresosi all’impossibilità di campare di musica, aveva aperto una bottega di barbiere in quella Birmingham. Alabama, in cui era nato il 13 agosto 1982. Dovresti esserne contento visto che come tutti i precedenti è lavoro di vaglia e godibilissimo. Come quelli, da sistemare idealmente nella parte di libreria che ospita Tav Falco e Cramps, Billy Childish nelle sue innumerevoli incarnazioni, Gun Club e Oblivians, ’68 Comeback, Rocket From The Crypt, White Stripes… Si parte con il surf guerriero You Can’t Go Home No More e da lì al festoso rock’n’roll, Daddy’s Coming Home, con cui si congeda il disco non registra una battuta a vuoto in altre undici tracce in cui dal garage passa al power pop, da quello allo psychobilly, un punk 100% Ramones va dietro a una ballata che potrebbe venire dallo studio della Sun al tempo in cui lo frequentava Elvis, una sferragliante filastrocca anticipa un country al galoppo in cui spiazzando sfrigola un synth. Che gran ritorno insomma, che bello potersene occupare.

Solo che Dan Sartain è morto lo scorso 20 marzo. Si ignora di cosa ma per certo (tanti gli indizi in tal senso) ha inciso quest’album sapendo di avere i giorni contati. Tornate sul titolo dell’ultimo pezzo: è il saluto a una bambina, la figlia, che chi sta cantando sa che non vedrà crescere. La vita fa schifo e per qualcuno è troppo breve.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.439, febbraio 2022.

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Amyl And The Sniffers – Comfort To Me (B2B)

“Energia, buona e cattiva,/ho un sacco di energia,/è la mia valuta corrente”, declama Amy Taylor sulla chitarra surf, il basso a palla e la batteria serratissima di Guided By Angels, il brano che apre l’atteso secondo album dei suoi Amyl And The Sniffers. Procedendo poi a darne una dimostrazione al pari impressionante di quella offerta due anni e mezzo fa in un omonimo esordio per un’altra abbondante mezz’ora e ulteriori dodici pezzi; o se vogliamo undici, offrendo in tale ipercinetico contesto la cavalcata elettrica Knifey un momento, l’unico, in cui tensione e velocità calano un po’. “Non sono in cerca di guai bensì di amore,/mi permetterai di conquistare il tuo cuore di duro?/Spalancami le porte del tuo cuore e del tuo pub”, implora insieme accorata e ironica nella tambureggiante, stentorea, scorticata Security. Che ad ascoltarla fa un effetto ma se ci accompagni il video in cui la nostra romantica teppista si esibisce in una danza scomposta in un cimitero, saltando fra lapidi, croci e monumenti, ne fa un altro. “Today your pub, tomorrow the world”, si potrebbe annotare parafrasando i Ramones, che per certo agli Sniffers qualcosa hanno insegnato, non fosse che il balzo dai peggiori bar della natia Melbourne ai palchi prima britannici e poi nordamericani ragazzaccia e ragazzacci già lo avevano compiuto prima che la pandemia li segregasse a tramare un disco che nondimeno sembra registrato dal vivo e dal vivo è pronto a far furore.

Si dirà che suonare punk nel 2021 è un anacronismo, ma cosa non lo è? Io nel mio cuore di… uh… duro un posto a una Hertz fra Slits e Bikini Kill, a una No More Tears degna dei migliori X, alla motörheadiana Don’t Need A Cunt Like You, a una Laughing vorticosa alla L7 l’ho subito trovato.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.437, dicembre 2021.

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Cloud Nothings – The Shadow I Remember (Carpark)

Vado su Discogs per verificare i supporti previsti per questo nuovo lavoro in studio dei Cloud Nothings e allibito scopro che nel 2020 la formazione di Cleveland oltre all’autoprodotto ma con i crismi dell’ufficialità (stampato sia in CD che su vinile e acquistabile sia in Rete che nei negozi) “The Black Hole Understands” ha pubblicato altri ventiquattro ─ !!! ─ album. Ventitré dei quali sono dei live solo in formato liquido, il ventiquattresimo a quanto mi consta un altro disco in studio, “Life Is Only One Event”, disponibile da poche settimane (Discogs lo data 2021 e “The Shadow I Rememember” è uscito questo 26 di febbraio) pure come LP. Per quanto mi attiene, non pervenuto. E pensate sia finita qui? Sempre nel 2020 e in formato liquido costoro hanno pubblicato sei EP. Più un altro nel gennaio del corrente anno. E un altro a febbraio. Con zero brani in comune con il disco oggetto di questa segnalazione. Sfugge il senso di tutto ciò: esistono dei fans della band che fa capo all’ex-ragazzo prodigio Dylan Baldi talmente assatanati da comprarsi anche un terzo, un quarto, un quinto di tale torrenziale produzione? Che non avendo potuto vedere i Cloud Nothings in concerto lo scorso anno hanno avvertito il bisogno di sopperire con una carrettata di live? Boh…

E allora come stupirsi se “The Shadow I Remember”, che pure si suppone sia una sorta di “Best Of” dell’anno (tra)scorso, è a malapena nella media di aurea mediocrità di quanto andato dietro all’invece promettente, a tratti brillante, omonimo esordio del 2011? Contiene (regala no) altre undici canzoni con il piede costantemente sull’acceleratore, si tratti di power pop, punk melodico o hardcore. Divertenti, eh? Ma le dimentichi nel tempo preciso che ci va ad ascoltarle.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.429, marzo 2021.

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Staring At The Rude Boys – I primi e unici Ruts

Forse mai dei versi di una canzone furono così tristemente profetici: in H-Eyes, retro di In A Rut, singolo di esordio nel gennaio 1979 dei Ruts, Malcolm Owen canta “sei così giovane, ti buchi per divertirti/ma ti fotterai la testa e finirai per morirne”. Argomento che tornerà ad affrontare in Dope For Guns, seconda traccia del primo LP di un quartetto prontamente ingaggiato dalla Virgin (a dare alle stampe il debutto a 45 giri era stata la minuscola People Unite, etichetta gestita dai Misty In Roots) e che vedeva la luce nel settembre dello stesso anno, e di nuovo nel marzo 1980 in Love In Vain (“non ti voglio più nelle mie braccia”), lato B del 7” Staring At The Rude Boys. Da lì a tre mesi gli altri componenti del gruppo ─ il chitarrista Paul Fox, il bassista John “Segs” Jennings e il batterista Dave Ruffy ─ comunicavano al cantante che era licenziato. Diversamente da come potrebbe sembrare, gesto di amore vero per un vero amico, scommessa azzardata sul fatto che, messo con le spalle al muro, fra le due passioni della sua vita, la musica e l’eroina, Owen avrebbe scelto la prima e si sarebbe ripulito. Sembrava funzionare, e difatti veniva riammesso nella band dopo pochi giorni, ma mai fidarsi delle promesse di un tossico: moriva per una overdose il 14 luglio, appena ventiseienne e prima che i Ruts completassero un secondo album vero. Pubblicato nel successivo dicembre, il pur valido “Grin And Bear It” raccoglie un po’ di brani da vari singoli e altri catturati live al Marquee Club, naturalmente ancora con Owen alla voce.

Appena riedito in vinile per celebrarne, con qualche mese di anticipo, il quarantennale, il solo 33 giri in studio non antologico dei Londinesi insieme ne rimarca la grandezza e l’immensità dell’occasione sprecata di lasciare una traccia ancora più importante nella storia del rock (i superstiti continuavano come Ruts D.C., ma non era la stessa cosa). Album immenso al punto da reggere il confronto con i primi due di quei Clash cui Owen, Fox, Segs e Ruffy venivano inevitabilmente accostati per la capacità di dividersi fra rovinosi assalti punk (ma You’re Just A… potrebbe essere piuttosto dei Buzzcocks e in Criminal Mind siamo diversi passi oltre, già in zona hardcore) ed escursioni in levare, Jah War la loro Police & Thieves, però autografa. Nessun altro gruppo bianco ha mai suonato il reggae con l’intensità bruciante dei Ruts.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.409, maggio 2019.

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Su “London Calling”, che usciva quarant’anni fa

A un certo punto degli anni ‘90, non ricordo esattamente quando ma presumo all’inizio, i critici di “Rolling Stone” decisero di votare “the best album of the 80’s”. Finirono bizzarramente per individuarlo in “London Calling”, lavoro pubblicato ancora nel 1979, sebbene verso la fine. A rappresentare un decennio veniva dunque designata un’opera uscita in quello precedente, errore non solo cronologico ma prospettico, siccome il doppio dei Clash non riflette le tendenze al crossover e al superamento del rock emerse negli ‘80 (pietra di paragone “Remain In Light” dei Talking Heads) quanto un’ansia catalogatoria volta a definire, in luogo che a ridefinire, il canone del rock’n’roll. Come campione di quel decennio (e pure dei ’90!) avrebbero potuto benissimo scegliere, invece, il triplo “Sandinista!”, pubblicato esattamente un anno dopo (e quindi, a essere pignoli, anch’esso ancora un disco degli anni ’70, come del resto “Remain In Light”): ingombrante, ineguale (le ultime due facciate sono superflue) e tuttavia esemplare di una voglia irresistibile di andare oltre il rock e certamente oltre (la distinzione non è questione di lana caprina: rivolgersi per delucidazioni a Keith Richards) il rock’n’roll. Logico, inevitabile – pena il reazionario tornare indietro di cui si renderanno colpevoli i Clash senza Mick Jones dell’ignobile “Cut The Crap” – passo successivo a un album che è un perfetto riassunto del primo quarto di secolo di vita del rock.

Suscitò scandalo, “London Calling”, fra i punkettari che avevano preso sul serio il niente Elvis o Rolling Stones nel 1977 e non avevano compreso che la rivoluzione indotta dal punk stava tutta nell’atteggiamento mentale piuttosto che nella musica, che come ben sapevano i Clash al massimo aggiornava, magari mischiandoli, stili già largamente metabolizzati, dal garage di metà ’60 ispirato dai primi Who e Kinks al pub rock, passando per Stooges ed MC5. Tutt’altro che innovativa, quindi, e destinata a mostrare il suo volto passatista non appena rinchiusa, violandone lo spirito per rispettarne la lettera, nel carcere del purismo. Per aprire le porte del quale chi invece di quello spirito si era imbevuto si trovò fondamentalmente a scegliere fra due opzioni: l’incremento esponenziale di velocità e durezza che genererà l’hardcore; lo sganciamento dalla tradizione del rock’n’roll attuato recuperando materiali ad essa estranei come il dub, il krautrock e l’elettronica, che verrà rubricato alla voce new wave. I Clash, con “Sandinista!”, opteranno per una terza via: consci del fatto che il rock, oltre a essere musica popolare, non è che una delle tante musiche popolari, lo dissolveranno in un calderone di influenze quanto mai eterogenee. Non prima di averlo celebrato come mai a nessuno è riuscito con “London Calling”.

Album immenso al di là dello straordinario livello di scrittura e persino al di là della  magistrale enciclopedizzazione che attua di molto di quanto accaduto da Elvis in avanti, sciorinando rockabilly (Brand New Cadillac) e soul (Train In Vain), beat (I’m Not Down) e musica latina (Spanish Bombs), reggae (The Guns Of Brixton, Lover’s Rock, Revolution Rock) e ska (Rudie Can’t Fail, Wrong ‘Em Boyo), avvicinando New Orleans (Jimmy Jazz), la Detroit del ’69 (la title track, Four Horsemen) e la Londra del ‘77 (Hateful, Clampdown, Death Or Glory, Koka Kola). Ma non è per questo – non solo, almeno – che è l’album che sottrarrei alla distruzione dovendone scegliere uno solo per spiegare alle generazioni future cosa fu il rock e perché, nonostante i suoi limiti artistici e culturali, fu importante. È che a vent’anni dall’uscita trasmette ancora (figuratevi cosa fu ascoltarlo allora) una tensione ideale fortissima, una fede nella forza redentrice della musica che nel mondo odierno (post-rock, sul serio) non è più possibile provare. Retorici, i Clash? Utopici, piuttosto. Sognatori e innocenti. Gli ultimi legittimati dai tempi a esserlo.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.17, ottobre 1999.

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I migliori album del 2018 (10): Idles – Joy As An Act Of Resistance (Partisan)

Mark E. Smith ci ha lasciati ma vive e anche quest’anno nella lista di VMO fa la sua porca figura un disco che ai Fall deve un bel po’. Per il 2017 toccava ai Protomartyr e un sorriso mi si allarga indulgente sulle labbra nel momento in cui mi imbatto in un (evidentemente giovin; o almeno spero) recensore che paragona Joe Talbot, del gruppo di Bristol, a Joe Casey, di quello di Detroit. Saltando un passaggio e non credo che sia perché, per quanto risultino innegabili le affinità a chi ha orecchie per intendere e con quelle orecchie di dischi ne ha ascoltati un tot, non meno lampanti sono i tratti che distinguono gli Idles, e il loro leader, dai Mancuniani. Più schiettamente punk nell’accezione puramente musicale del termine, questi ragazzi al secondo album dopo quel “Brutalism” che, se solo non lo avessi ascoltato in ritardo, si sarebbe guadagnato anch’esso un posto nella lista prima di questa, per quanto nelle posizioni di rincalzo. Probabilmente digiuni di krautrock e di Captain Beefheart come di Peter Hammill quasi per certo ne sapranno, al più, per sentito dire. E poi – sarà forse soltanto questione di anni e allora riparliamone nel 2029 se ci saranno, se ci saremo; oppure di un’attitudine nei confronti della vita prodotto di una diversa sensibilità – Talbot non è l’instancabile fustigatore, il Moralista, che fu Mark E. Può cedere – e spesso e volentieri lo fa – al sarcasmo, ma lo sguardo che volge alle umane genti permane, di fondo, empatico. Non sanguiniamo tutti, se ci pungono? Non ridiamo, se ci fanno il solletico? Gli fosse capitata una simile disgrazia, dubito che il fu leader dei Fall avrebbe scritto una canzone per raccontare di una figlia nata (il più orribile degli ossimori) morta. È l’argomento di una June singolarmente sospesa e storta ed è un pezzo che non c’è bisogno di sapere di cosa parli per sorprendersi inquieti e immalinconiti. Io lo ignoravo, ai primi ascolti.

A parte il brano citato, e i depistanti primi 1’30” lamentosi (quando più avanti sarà pura innodia) dell’iniziale Colossus, e poco altro: un tripudio di tamburi guerrieri, chitarre affilate, voce dal petulante al declamante. Nel percorso che porta al conclusivo sfaldarsi di una Rottweiler invero adeguata al titolo, si elevano dall’alta media – secondo me – una Never Fight A Man With A Perm sull’orlo del grind, una Danny Nedelko che nel contesto suona pop, una Television dove i Fall incontrano (scusate la rima) i concittadini Joy Division. E Cry To Me: un Solomon Burke riletto come avrebbero potuto i Birthday Party.

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Everybody’s Sad Nowadays (per Pete Shelley, 17/4/1955-6/12/2018)

Tolta una recensione negativa di uno degli album frutto di una censurabile rimpatriata, mai avuto occasione di scrivere dei Buzzcocks, per quanto strano possa sembrare e sembrarmi. Ma dio quanto li ho amati.

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No more rockin’ the casbah – Per Rachid Taha (18/9/1958-12/9/2018)

Era come un Joe Strummer d’Algeria, coverizzò alla grande Rock The Casbah e significativamente si ritrovò più volte a condividere questo e quel palco (e in un’occasione anche uno studio di registrazione) con Mick Jones. Beffardamente, proprio come Joe se n’è andato nel sonno, per una crisi cardiaca.

Rachid Taha era un grande, un grandissimo, e almeno due (o anche tre) dei quattro album di cui oggi recupero le recensioni vi farebbe proprio bene averli.

Diwân (Barclay, 1998)

Lungo il percorso che porta Rachid Taha allo stardom. Comincia negli ’80, alla testa dei franco-algerini Carte de Séjour, sorta di Clash con un piede nella casbah la cui popolarità non supera i confini francesi. È solo quando nei primi ’90 intraprende la carriera solistica che Taha assurge a solida fama nella sua terra di origine, prendendo da lì le mosse per conquistare l’Europa, a partire naturalmente da quella francofona, e gettare a fine decennio un amichevole guanto di sfida (i due hanno anche condiviso un live) a Khaled. Se il re del raï può vantare eclettismo e carisma maggiori e una più pronunciata sensibilità pop, Taha ha dalla sua una forza d’urto alla quale il pubblico del rock non può restare indifferente. “Diwân” aggiorna la tradizione con un misto di rispetto e spirito punk che stende.

Pubblicato per la prima volta in Rock – 1000 dischi fondamentali, giugno 2012.

 

Live (Barclay, 2001)

C’erano una volta, tanto tempo fa (correvano ancora gli ’80), i Carte de Séjour, francoalgerini che applicavano etica e suoni punk alla rivendicazione delle proprie origini. Insomma: quasi dei Clash nati fra i bordelli di Orano e traslocati bambini nella matrigna Francia. Ma nonostante le epopee di Mano Negra e Négresses Vertes incombessero il pop transalpino non era ancora quella pregiata materia di esportazione universale divenuta in seguito e la loro fama rimase dunque una faccenda locale. Dei Carte de Séjour Rachid Taha era il leader. Esauritasi tale esperienza ha intrapreso una carriera solistica che aveva avuto a oggi i suoi approdi più importanti a cavallo fra il ’98 e il ’99. Nel 1998 vedeva la luce quello che è il suo capolavoro in studio, “Diwân” (abbondantemente saccheggiato in questo “Live”): lì Rachid rendeva il raï ancora più una storia di crossover di quanto non sia geneticamente, omaggiando la tradizione algerina nel mentre la mutava in qualcosa di decisamente altro. Grande il successo su entrambe le sponde del Mediterraneo e a celebrarlo e consolidarlo giungeva l’anno dopo “1, 2, 3 soleils”, disco dal vivo collettivo condiviso con gli altri divi Khaled e Faudel. Come loro, Rachid Taha è ormai uscito da un mercato etnico per salire alla ribalta del pop globale. Anche superiore il suo potenziale rispetto a Faudel. Se il paragone è invece con Khaled, si può dire che di costui non abbia né il carisma né la sensualità ma che supplisca con una forza d’urto che dovrebbe renderlo particolarmente gradito al pubblico del rock.

Basta già il formidabile impatto dell’iniziale Menfi a chiarirlo: un attacco di acustiche flamencate e subito, fra percussioni fitte e una melodia beduina, un riffone hard di strepitosa potenza. Impossibile resistere. Si apre così quasi un’ora e venti di danze sfrenate che più che il sinuoso da DNA arabo corteggiano il pogo. Che dire ad esempio di Nokta se non che trasporta i Living Colour ad Algeri (o nella casbah di Marsiglia)? Risultano persino più taglienti le chitarre elettriche di Barra barra e se possibile più funky quelle di Voila voila, la cui scansione è praticamente techno. Al congedo di Garab il pubblico del teatro belga in cui il disco è stato registrato arriva in delirio. Stessa sorte toccherà a chi si collega da casa. Vista la lunga carriera di Taha, sarebbe offensivo nei suoi confronti annotare che è nata una stella. Tutti potranno però ora accorgersi di quanto brilli.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.469, 15 gennaio 2002.

Bonjour (Barclay, 2009)

Chissà se qualcuno l’ha fatto notare, a Rachid Taha, che nella sua media età fisicamente sta finendo per somigliare sempre più a Joe Strummer. Magari Mick Jones, che con il Nostro si ritrovava qualche tempo fa a condividere un palcoscenico londinese. Se sì, deve avergli fatto piacere e d’altro canto quei Carte de Séjour con i quali affrontava per la prima volta una ribalta nascevano come una versione franco-algerina dei Clash. Rock the Casbah, ma davvero, e prima di quella “Rock The Casbah” di cui Taha non mancherà di appropriarsi, o per meglio dire di riappropriarsi. Dalla fine nell’89 di quell’avventura di successo rimarchevole oltr’Alpe, ma solo lì, il nostro uomo ha preso a costruirsi ripartendo dalla casa dei padri (Orano) una visibilità internazionale che si faceva meritatamente diffusa nel ’98 con il magnifico “Diwân”: omaggio a radici rivisitate con un rispetto pari all’ardore iconoclasta di uno che del raï è considerato un maestro (secondo forse solo a Khaled) ma che nel suo cuore si sente un rocker.

Però anche i punk invecchiano, si addolciscono, magari mettono su famiglia e la sera cantano una ninnananna ai figli e Rachid Taha a questo ammorbidirsi con grazia ha deciso di arrendersi, perlomeno in “Bonjour”: nettamente il suo album più romantico, a partire da una programmatica “Je t’aime mon amour”, flamencata su una scansione hip hop. È un disco che all’ardore preferisce la tenerezza, che il raï per una volta lo innerva, più che di rock’n’roll, di downtempo (connubio di micidiale efficacia in “It’s An Arabian Song”) e di una chanson post-Négresses Vertes (vedasi traccia omonima). L’essenziale è saperlo prima.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 309, marzo 2010.

Zoom (Naïve, 2013)

Dici un nome per identificare il raï ed è Khaled. Per il numero due se la battono da tempo immemore Cheb Mami e Rachid Taha, o forse no. Nel senso che al secondo – che d’altro canto si affacciava alla ribalta buoni trentadue anni fa alla testa di quei Clash franco-algerini chiamati Carte de Séjour – il raï è sempre andato stretto, l’etichetta “world” non gli è mai garbata granché e insomma lui nel cuore si sente un rocker. Al limite un po’ indeciso se essere il Joe Strummer di Orano oppure il Johnny Cash. Passati i cinquanta, era parso che il vecchio ribelle un po’ si andasse ammorbidendo. Nel 2009 “Bonjour” si segnalava come il suo lavoro di gran lunga più soffice e romantico, sin da una traccia iniziale significativamente intitolata Je t’aime mon amour. Pressoché del tutto dimentico del punk, lì il pop maghrebino si mischiava con il downtempo e con una forma di chanson post-Négresses Vertes.

Buon disco, ma che “Zoom” sia un’altra cosa di nuovo provvede il primo brano a segnalarlo, Wesh (N’Amal), micidiale mischione di funk, flamenco e surf concepito con quel Justin Adams noto come collaboratore sia di Jah Wobble che di Robert Plant e titolare della regia dell’intero lavoro, in un singolo episodio – la sferragliante, conclusiva Voila voila – in team con Brian Eno. E a proposito di ospiti illustri: da un Algerian Tango su cui la dice lunga il titolo fa capolino l’inconfondibile voce di Mick Jones ed è un nuovo sigillo di approvazione (ai due capitò anche di dividere un palco) per un artista che fra le sue interpretazioni più celebri annovera una travolgente Rock The Casbah. Apici di un lavoro dove per buona parte del programma i ritmi tornano a salire e le chitarre a mordere sono l’esplosiva “Fakir” e una “Les artistes” che omaggiando Elvis, Lennon e Cobain finisce per girare dalle parti di Alan Vega, o di Tav Falco. Elvis era già stato chiamato in causa con un brano non proprio dei suoi più memorabili, “Now Or Never”, ma azzardandone una lettura che sistema Napoli su un’ideale rotta capace di congiungere Algeri a Bollywood Taha finisce per dare un senso all’azzardato recupero.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.178, marzo 2013.

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