Un prodotto ─ il più pregiato ─ della loro era. Per qualche anno la più grande rock’n’roll band sulla piazza. Motivo bastante a celebrarne il venticinquennale che cade giusto nei giorni in cui vado scrivendo queste righe? Senza dubbio. Ma non l’unico e nemmeno il più importante. Perché c’è un’altra angolazione da cui osservare il “caso Clash” e financo più interessante: una compagine all’avanguardia. Spogliando per un attimo il termine dalle connotazioni dategli da Simon Reynolds e poi comunemente accettate, si può affermare che i Clash siano divenuti, strada facendo, il primo gruppo post-rock: il primo, cioè, a negare la centralità del rock (un’idea figlia della presunzione eurocentrica) e a considerarlo non la musica popolare della seconda metà del Novecento ma una delle tante musiche popolari. Prima di loro il rock era una faccenda a compartimenti stagni ove i vari sottogeneri raramente interagivano e i fruitori si dividevano in tribù. Dopo, non solo ogni commistione interna al genere sarà lecita ma diverrà pratica diffusa cercare contatto con tutte le musiche nere possibili ─ non soltanto il blues, il soul o il rhythm’n’blues, già metabolizzati, ma anche funky e disco, reggae e rap (mentre troppi critici lo liquidavano come una moda, i Clash si immergevano nella cultura che lo aveva generato) ─ e la galassia latina. Se non giunsero a confrontarsi con l’Asia e l’elettronica sarà perché la loro parabola era arrivata a compimento. L’attitudine al crossover, oggi a tal punto diffusa da passare inosservata, avanti “Sandinista!” era inconcepibile. In ciò risiede la loro rilevanza odierna, nell’invenzione della patchanka dispersa per il globo, mica nelle miriadi di cloni di questo o quello dei loro periodi e in particolare del primo. Non nego, ad esempio, di avere apprezzato (direi addirittura amato) dischi come “…And Out Come The Wolves” e “Life Won’t Wait” dei Rancid. Se però li esamino razionalmente, esorcizzando quella bestia grama che è la nostalgia, so che, contrariamente al modello di cui tradiscono lo spirito nell’istante preciso in cui ne perpetuano la lettera, non lasceranno traccia.
Ma sono questi ragionamenti perfettamente accessibili a chi, magari non ancora nato all’epoca in cui White Riot raggiunse i negozi, sia informato quanto basta sulla musica trattata su queste pagine. Può capire e apprezzare. Ciò che non potrà mai afferrare completamente (scusatemi se mi ripeto) è l’eccitazione, selvaggia e poeticissima, di cui i Clash colorarono i loro anni. Era energia brada senza che il testosterone c’entrasse granché. Era noi contro tutti (da cui le divise da guerriglieri di cui i Public Enemy si approprieranno). Era avere stile. Era essere realisti e quindi chiedere l’impossibile. Era vivere la vita come fosse un film. Lo scrissi in altra occasione su altre colonne e voglio qui ribadirlo: se mai c’è stato un rock “di sinistra” ─ una Sinistra, più che ideologica, romantica ─ i Clash ne sono stati i cantori più credibili.
Basta! Ho sproloquiato a sufficienza. Tempo di passare ai fatti. 13 agosto 1976, questa la data che segnò l’esordio ufficiale dello Scontro. Avvenne di fronte a una scelta platea di giornalisti, il che dovrebbe dirla lunga sulla capacità di manipolare i media del manager Bernie Rhodes, già complice di Malcolm McLaren e se possibile anche più egocentrico del burattinaio dei Sex Pistols: comunque fondamentale per la fulminea ascesa dei Clash, come lo sarà per la rovinosa caduta. Dei cinque che si presentano alla ribalta del londinese Rehearsals, non un club ma la sala prove del gruppo stesso (c’era stato in realtà in precedenza un concerto di riscaldamento, a Sheffield, di spalla proprio ai Pistols), il ventiquattrenne Joe Strummer (nato Mellor) è l’unico che possa vantare un vinile nel suo curriculum. Oh, non una cosa da far crollare le mura di Gerico. Giusto un 45 giri su Chiswick iscrivibile in area pub-rock e vendutosi in qualche centinaio di copie. 101ers il nome del gruppo, miscela di Chuck Berry e garage ’60 senza altra pretesa che quella di divertire gli avventori del Charlie Pig Dog Club (non proprio il massimo della raffinatezza il posticino, avrete inteso dalla ragione sociale). Costui è stato l’ultimo ad aggregarsi alla compagnia. Gli altri, dai tre ai quattro anni più giovani, sono i chitarristi Mick Jones e Keith Levine, il bassista Paul Simonon e il batterista Pablo La Britain, quasi subito rilevato da Terry Chimes. Si chiamavano Heartdrops un attimo prima che arrivasse Strummer e London SS due: sigla provocatoria che fa capire che l’incendio del punk sta per divampare, palestra ammantata di leggenda per cui erano già passati, fra gli altri, Chrissie Hynde, un paio di futuri Damned, un Generation X e gente che si ritroverà nei Chelsea e nei Boys.
Del quartetto che indovina in Strummer, avendolo visionato in azione su un palco, carisma quanto basta a offrirgli il posto di cantante e punto focale, il ventunenne Jones è di gran lunga il più motivato e quello che intrattiene rapporti più proficui con il suo strumento. Due anni dopo, gli brucia ancora il licenziamento, istigato da Guy Stevens (proprio il vecchio marpione che si troverà a produrre “London Calling”), dai Delinquents, dilettantesco combo glam ispirato dalle gesta di MC5, Stooges, Mott The Hoople, New York Dolls. Non andrete da nessuna parte con quell’incapace, ha vaticinato Stevens. Non andranno da nessuna parte comunque. Mick sì. Devastato ma voglioso di riscatto, si è comprato una Les Paul Junior (stesso modello dell’idolo Johnny Thunders) e da allora ci si esercita ostinatamente, costruendosi un bagaglio crescente di trucchi. All’opposto il non ancora ventenne Simonon, studente d’arte tanto valido con i pennelli quanto inetto con una sei corde. Ci ha provato in tutti i modi Jones a insegnargliene i rudimenti e alla fine si è dovuto arrendere. Gli ha allora consegnato un basso, più facile da maneggiare, e gli ha dipinto sul manico le posizioni dove poggiare le dita. Diventerà un bassista di vaglia, Paul Simonon, e Mick Jones avrà modo di congratularsi con se stesso per avere avuto la testardaggine di insistere su quel giovanotto che non sapeva suonare, no: ma con quale eleganza portava a tracolla lo strumento! Sublimemente appropriato che sulla copertina di “London Calling” ci sia lui.
Tratto da “Last Gang In Town – Il venticinquennale dei Clash”. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.3, autunno 2001. Ristampato in Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Il 13 agosto 1976 i Clash suonavano ufficialmente dal vivo per la prima volta (era in realtà la seconda), davanti a un selezionato pubblico di addetti ai lavori.