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London’s Burning – La prima volta dei Clash

Un prodotto ─ il più pregiato ─ della loro era. Per qualche anno la più grande rock’n’roll band sulla piazza. Motivo bastante a celebrarne il venticinquennale che cade giusto nei giorni in cui vado scrivendo queste righe? Senza dubbio. Ma non l’unico e nemmeno il più importante. Perché c’è un’altra angolazione da cui osservare il “caso Clash” e financo più interessante: una compagine all’avanguardia. Spogliando per un attimo il termine dalle connotazioni dategli da Simon Reynolds e poi comunemente accettate, si può affermare che i Clash siano divenuti, strada facendo, il primo gruppo post-rock: il primo, cioè, a negare la centralità del rock (un’idea figlia della presunzione eurocentrica) e a considerarlo non la musica popolare della seconda metà del Novecento ma una delle tante musiche popolari. Prima di loro il rock era una faccenda a compartimenti stagni ove i vari sottogeneri raramente interagivano e i fruitori si dividevano in tribù. Dopo, non solo ogni commistione interna al genere sarà lecita ma diverrà pratica diffusa cercare contatto con tutte le musiche nere possibili ─ non soltanto il blues, il soul o il rhythm’n’blues, già metabolizzati, ma anche funky e disco, reggae e rap (mentre troppi critici lo liquidavano come una moda, i Clash si immergevano nella cultura che lo aveva generato) ─ e la galassia latina. Se non giunsero a confrontarsi con l’Asia e l’elettronica sarà perché la loro parabola era arrivata a compimento. L’attitudine al crossover, oggi a tal punto diffusa da passare inosservata, avanti “Sandinista!” era inconcepibile. In ciò risiede la loro rilevanza odierna, nell’invenzione della patchanka dispersa per il globo, mica nelle miriadi di cloni di questo o quello dei loro periodi e in particolare del primo. Non nego, ad esempio, di avere apprezzato (direi addirittura amato) dischi come “…And Out Come The Wolves” e “Life Won’t Wait” dei Rancid. Se però li esamino razionalmente, esorcizzando quella bestia grama che è la nostalgia, so che, contrariamente al modello di cui tradiscono lo spirito nell’istante preciso in cui ne perpetuano la lettera, non lasceranno traccia.

Ma sono questi ragionamenti perfettamente accessibili a chi, magari non ancora nato all’epoca in cui White Riot raggiunse i negozi, sia informato quanto basta sulla musica trattata su queste pagine. Può capire e apprezzare. Ciò che non potrà mai afferrare completamente (scusatemi se mi ripeto) è l’eccitazione, selvaggia e poeticissima, di cui i Clash colorarono i loro anni. Era energia brada senza che il testosterone c’entrasse granché. Era noi contro tutti (da cui le divise da guerriglieri di cui i Public Enemy si approprieranno). Era avere stile. Era essere realisti e quindi chiedere l’impossibile. Era vivere la vita come fosse un film. Lo scrissi in altra occasione su altre colonne e voglio qui ribadirlo: se mai c’è stato un rock “di sinistra” ─ una Sinistra, più che ideologica, romantica ─ i Clash ne sono stati i cantori più credibili.

Basta! Ho sproloquiato a sufficienza. Tempo di passare ai fatti. 13 agosto 1976, questa la data che segnò l’esordio ufficiale dello Scontro. Avvenne di fronte a una scelta platea di giornalisti, il che dovrebbe dirla lunga sulla capacità di manipolare i media del manager Bernie Rhodes, già complice di Malcolm McLaren e se possibile anche più egocentrico del burattinaio dei Sex Pistols: comunque fondamentale per la fulminea ascesa dei Clash, come lo sarà per la rovinosa caduta. Dei cinque che si presentano alla ribalta del londinese Rehearsals, non un club ma la sala prove del gruppo stesso (c’era stato in realtà in precedenza un concerto di riscaldamento, a Sheffield, di spalla proprio ai Pistols), il ventiquattrenne Joe Strummer (nato Mellor) è l’unico che possa vantare un vinile nel suo curriculum. Oh, non una cosa da far crollare le mura di Gerico. Giusto un 45 giri su Chiswick iscrivibile in area pub-rock e vendutosi in qualche centinaio di copie. 101ers il nome del gruppo, miscela di Chuck Berry e garage ’60 senza altra pretesa che quella di divertire gli avventori del Charlie Pig Dog Club (non proprio il massimo della raffinatezza il posticino, avrete inteso dalla ragione sociale). Costui è stato l’ultimo ad aggregarsi alla compagnia. Gli altri, dai tre ai quattro anni più giovani, sono i chitarristi Mick Jones e Keith Levine, il bassista Paul Simonon e il batterista Pablo La Britain, quasi subito rilevato da Terry Chimes. Si chiamavano Heartdrops un attimo prima che arrivasse Strummer e London SS due: sigla provocatoria che fa capire che l’incendio del punk sta per divampare, palestra ammantata di leggenda per cui erano già passati, fra gli altri, Chrissie Hynde, un paio di futuri Damned, un Generation X e gente che si ritroverà nei Chelsea e nei Boys.

Del quartetto che indovina in Strummer, avendolo visionato in azione su un palco, carisma quanto basta a offrirgli il posto di cantante e punto focale, il ventunenne Jones è di gran lunga il più motivato e quello che intrattiene rapporti più proficui con il suo strumento. Due anni dopo, gli brucia ancora il licenziamento, istigato da Guy Stevens (proprio il vecchio marpione che si troverà a produrre “London Calling”), dai Delinquents, dilettantesco combo glam ispirato dalle gesta di MC5, Stooges, Mott The Hoople, New York Dolls. Non andrete da nessuna parte con quell’incapace, ha vaticinato Stevens. Non andranno da nessuna parte comunque. Mick sì. Devastato ma voglioso di riscatto, si è comprato una Les Paul Junior (stesso modello dell’idolo Johnny Thunders) e da allora ci si esercita ostinatamente, costruendosi un bagaglio crescente di trucchi. All’opposto il non ancora ventenne Simonon, studente d’arte tanto valido con i pennelli quanto inetto con una sei corde. Ci ha provato in tutti i modi Jones a insegnargliene i rudimenti e alla fine si è dovuto arrendere. Gli ha allora consegnato un basso, più facile da maneggiare, e gli ha dipinto sul manico le posizioni dove poggiare le dita. Diventerà un bassista di vaglia, Paul Simonon, e Mick Jones avrà modo di congratularsi con se stesso per avere avuto la testardaggine di insistere su quel giovanotto che non sapeva suonare, no: ma con quale eleganza portava a tracolla lo strumento!  Sublimemente appropriato che sulla copertina di “London Calling” ci sia lui.

Tratto da “Last Gang In Town – Il venticinquennale dei Clash”. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.3, autunno 2001. Ristampato in Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Il 13 agosto 1976 i Clash suonavano ufficialmente dal vivo per la prima volta (era in realtà la seconda), davanti a un selezionato pubblico di addetti ai lavori.

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Deviants e Pink Fairies ─ Dope, Rock’n’Roll & Fucking In The Streets

Non puoi sapere quando il tuo giorno verrà, se no ti prepareresti e almeno all’ultimo la vita non sarebbe la fregatura che è. Potresti lasciare tutto in ordine, un po’ per facilitare gli adempimenti burocratici a chi resta, un po’ perché sarebbe consolatorio consegnare ai posteri un autoritratto senza errori di stampa. Un’immagine opportunamente aggiustata, così che qualcuno si convinca che non eri il povero stronzo che eri. Non c’è niente come un bell’addio. Un testamento che trasmetta quella saggezza che mai hai saputo dove stesse di casa. Un post di virile congedo sul tuo blog. Ignoravo che Mick Farren ne avesse uno e quando mi ci sono imbattuto mi è scappato da ridere di fronte a un’impagabile “Avvertenza”, quella con cui il più noto dei motori di ricerca fa in genere precedere pagine di sesso o di odio e che avvisa il navigante che “alcuni lettori hanno contattato Google perché ritengono che i contenuti di questo blog siano discutibili”. Ho dichiarato con un clic “di comprendere e di volere continuare” e sono entrato. Credo di averci trascorso un paio di ore. Era aggiornato quotidianamente, Doc 40, e immalinconisce constatare che i post più recenti sono datati 15 luglio. Insomma: negli ultimi dodici giorni di un’esistenza impossibilmente piena e complicata, giunta non si sa come in prossimità dei settant’anni, il titolare non aveva più trovato il tempo ─ o la voglia, o la forza ─ di porci mano. In compenso gli ultimi tre interventi ne riassumono l’ethos come a farlo apposta meglio non avrebbe potuto. Incastonata fra una tavola di un fumetto SF e una polemica sul nuovo ordine mondiale, la foto di un roditore in posa tipo cantante al microfono: “Scoiattoli di tutto il mondo unitevi ─ Non avete da perdere che le vostre nocciole!”. Di nuovo mi è scappato da ridere, ma poi ho visto che il Nostro aveva un profilo Facebook e pure lì ho fatto un giro. Lì mi è venuto da piangere. Non per le immagini di esequie di ambientazione spiazzantemente bucolica per un vecchio guerrigliero metropolitano, ma di fronte all’ultimo aggiornamento di suo pugno, proprio il 27 luglio, quattro parole sopra un poster dell’“Atomic Sunshine One Day Festival”: “TODAY’S THW DAY”. Oggi è il giorno, con tanto di refuso. Ma forse Mick, da incorreggibile prankster quale era, avrebbe apprezzato l’ironia.

C’è chi ha scritto che un uomo la cui vita è stata così fino all’ultimo una fantasia rock’n’roll una morte migliore ─ sul palcoscenico di un club tutto esaurito, con nelle orecchie un ultimo scrosciare di applausi ─ non avrebbe potuto agognarla. Che se n’è andato da vero cowboy, con gli stivali ai piedi, e se a scriverlo è l’amico di quattro abbondanti decenni, il collega di ufficio nel “New Musical Express” più scomodo e irriverente che si ricordi, Charles Shaar Murray, ti viene voglia di crederci. Ma poi leggi un resoconto da testimone oculare della fatale serata di un collaboratore di “Shindig!” e ti sembra ─ è ─ un racconto dell’orrore. Te lo vedi davanti quell’anziano mostruosamente sovrappeso, obesa, oscena caricatura dell’allampanata, iconica figura che fu, scivolare dopo un paio di canzoni dalla sedia dove lo avevano fatto faticosamente accomodare e giacere immoto, al centro di una ribalta troppo piccola per contenere così tanta carne, così tanto dramma. Il gruppo di accompagnatori (in cartellone come The Deviants: sì, certo…) che si arresta smarrito. Qualcuno del pubblico che prova a prestare aiuto, nell’attesa di un’ambulanza. La folla sfolla in silenzio, disperdendosi nella prima notte londinese piovosa dopo un mese da estate al sud. Ma se un corpo troppo maltrattato alla fine lo ha tradito la mente era lucida. Visto che ci siete, in Internet, cercate un’intervista uscita in marzo su “The Quietus”. Parecchio lunga e approfondita. Splendida. Proprio alla fine Farren riassume una generazione e la sua gioventù con una frase che ne è epitaffio: “We were storming into the future”. Ci pensa un attimo e conclude: “We still want to storm into the future”.

I was a punk before you were a punk” (titolo di una canzone dei Tubes)

Non vi è modo in cui si possa racchiudere in spazi da rivista il romanzo per l’appunto non di un uomo ─ che pure ne fu via di mezzo fra mattatore e deus ex machina ─ bensì, se non di una generazione intera, dell’avanguardia di quella generazione. Della parte per la quale il graffito più celebre del maggio parigino ─ “Siate realisti, chiedete l’impossibile” ─ funse da manifesto programmatico. Marxisti, o anarchici, che avendo assunto LSD da lì in poi furono diversamente rivoluzionari e Mick Farren ne fu e sempre ne rappresenterà il prototipo.

Prosegue per altre 22.853 battute su Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.186, novembre 2013. Mick Farren se ne andava nel modo su descritto dieci anni fa a oggi.

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A Brief History Of Gang Of Four

I Gang Of Four sono stati il primo gruppo rock con il quale sono riuscito sul serio a rapportarmi, il primo che mi fece andare via di testa e sentire parte di un qualcosa di unico e figo. Il primo che ad ascoltarlo mi veniva voglia di ballare e scopare. Rammento ancora l’effetto che mi fece ‘Entertainment!’, con i suoi ritmi affilati come un rasoio e quella copertina che dava in culo all’uomo bianco. Guardarla ed esplodere in una danza spastica fu un tutt’uno. Mi spazzò via. Rovesciò completamente la prospettiva da cui osservavo il rock e mi indusse a prendere in mano un basso elettrico.

“‘Entertainment!’ fece a pezzi qualunque cosa fosse uscita prima. I Gang Of Four avevano il senso dello swing. Ho rubato un sacco da loro.”

Parole di Flea dei Red Hot Chili Peppers le prime, di Michael Stipe dei R.E.M. le seconde, spese quando nel 1995 una ristampa espansa del primo, epocale album riaccese i riflettori sul quartetto di Leeds. Flea osservava anche che l’influenza esercitata da Andy Gill su The Edge degli U2 e dal gruppo tutto su complessi a loro volta seminali come Fugazi e Jane’s Addiction era alle sue orecchie evidentissima. E come non essere d’accordo? Mentre Tad Doyle, fra i vessilliferi del grunge alla testa della quasi omonima formazione, dal canto suo raccontava di avere avuto la vita cambiata, e con lui Kurt Cobain, da un concerto della Banda dei Quattro a Seattle. Esperienza analoga a quella di cui riferisce la penna più celebre e aguzza del giornalismo rock americano dacché Lester ci ha lasciati, vale a dire il decano Greil Marcus, che vide i ragazzi in azione a San Francisco nel 1979. Spalla dei Buzzcocks. A tal punto esaltanti che lasciò la sala senza assistere all’esibizione dei Mancuniani, affinché la magia dell’attimo non avesse a sciuparsi. Reazioni: Doyle dava vita a una cover band, Red Set, dedita al rifacimento integrale di “Entertainment!”; Marcus scriveva sui Gang Of Four pagine fra le più memorabili della sua opera tutta (nulla più definitivo al riguardo che In The Fascist Bathroom). A nove anni dall’ondata di omaggi che salutò la ripubblicazione di un album uscito in origine nel settembre 1979, c’è di nuovo un pretesto per discettare dei leedsiani: torna nei negozi, identica però a com’era e non si capisce bene quale il senso dell’operazione, “A Brief History Of The Twentieth Century”, buon compendio per il neofita con i suoi venti brani per settantasette minuti. Non-evento che viene comunque buono per contare al giovin lettore il perché e il percome i Gang Of Four furono e sono così importanti e aggiornare l’elenco degli epigoni: Liars, Interpol, Yeah Yeah Yeahs. In misura minore gli Strokes. Per certo riffarama che deve decisamente di più ad Anthrax che al Sabba Nero, i Queens Of The Stone Age. Eccetera.

Prosegue per altre 6.491 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.566, 17 febbraio 2004. Ricorre oggi il terzo anniversario della scomparsa, sessantaquattrenne, del chitarrista Andy Gill.

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Redskins – Neither Washington Nor Moscow (London, 4CD)

“Penso che talvolta le case discografiche si dimentichino che il loro compito è di immettere sul mercato materiali nuovi. Tutto quello che circola oggi sono ristampe, remix, tutta quella merda. Se per un colpo di culo ti trovi in mano qualcosa di nuovo, be’, puoi scommettere che è una cover”: così Chris Dean, cantante, chitarrista e portavoce dei Redskins in un’intervista che il “Melody Maker” pubblicava nel numero del 30 novembre 1985, meno di tre mesi prima che molto coerentemente l’ultrapoliticizzato trio esordisse a 33 giri (e su Decca, eh? etichetta notoriamente prossima a quella sinistra extraparlamentare in cui militavano i ragazzi) con quello che resterà l’unico album in studio e che in una scaletta di undici brani ne contava appena due non usciti già in forma di singoli. Il Vostro (allora alquanto giovane) Affezionato ricorda ancora (pur lontanissima l’odierna “era della suscettibilità” così ben tratteggiata da Guia Soncini nel suo ultimo libro) che per aver fatto notare in un articolo, peraltro assolutamente elogiativo, quanto esposto sopra collezionò per mesi missive di insulti da lettori inviperiti.

“Neither Washington Nor Moscow” era stato ristampato un’unica volta in CD, nel ’97, con quattro bonus e due erano cover (ahem) e una un remix (ahem due). Torna adesso nei negozi addirittura quadruplo, con in più tre “Peel Sessions”, due mezzi concerti e una pletora di lati B, demo, versioni alternative e (certo che sì) remix e cover. Qualcosa da dichiarare, Mr. Dean? Ah sì, che è venduto al prezzo che costa oggi un-vinile-uno. Ego te absolvo, allora. Il loro rhythm’n’blues suonato con piglio punk risulta tuttora eccitantissimo e i Redskins erano un gruppo grandioso, ma con un repertorio di quindici canzoni.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.439, febbraio 2022.

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Dan Sartain – Arise, Dan Sartain, Arise! (One Little Independent)

A volte la vita fa davvero schifo. Devi recensire l’ottavo album di uno che adori sin da quando scrivesti di un terzo che era però come fosse il primo, giacché nel 2006 con “Vs. The Serpientes” l’autore entrava nel mondo della discografia ufficiale dopo due autoproduzioni, e dovresti esserne felice. Tanto più perché lo si attendeva dal 2016 ma anche no, sapendo che Sartain, arresosi all’impossibilità di campare di musica, aveva aperto una bottega di barbiere in quella Birmingham. Alabama, in cui era nato il 13 agosto 1982. Dovresti esserne contento visto che come tutti i precedenti è lavoro di vaglia e godibilissimo. Come quelli, da sistemare idealmente nella parte di libreria che ospita Tav Falco e Cramps, Billy Childish nelle sue innumerevoli incarnazioni, Gun Club e Oblivians, ’68 Comeback, Rocket From The Crypt, White Stripes… Si parte con il surf guerriero You Can’t Go Home No More e da lì al festoso rock’n’roll, Daddy’s Coming Home, con cui si congeda il disco non registra una battuta a vuoto in altre undici tracce in cui dal garage passa al power pop, da quello allo psychobilly, un punk 100% Ramones va dietro a una ballata che potrebbe venire dallo studio della Sun al tempo in cui lo frequentava Elvis, una sferragliante filastrocca anticipa un country al galoppo in cui spiazzando sfrigola un synth. Che gran ritorno insomma, che bello potersene occupare.

Solo che Dan Sartain è morto lo scorso 20 marzo. Si ignora di cosa ma per certo (tanti gli indizi in tal senso) ha inciso quest’album sapendo di avere i giorni contati. Tornate sul titolo dell’ultimo pezzo: è il saluto a una bambina, la figlia, che chi sta cantando sa che non vedrà crescere. La vita fa schifo e per qualcuno è troppo breve.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.439, febbraio 2022.

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Amyl And The Sniffers – Comfort To Me (B2B)

“Energia, buona e cattiva,/ho un sacco di energia,/è la mia valuta corrente”, declama Amy Taylor sulla chitarra surf, il basso a palla e la batteria serratissima di Guided By Angels, il brano che apre l’atteso secondo album dei suoi Amyl And The Sniffers. Procedendo poi a darne una dimostrazione al pari impressionante di quella offerta due anni e mezzo fa in un omonimo esordio per un’altra abbondante mezz’ora e ulteriori dodici pezzi; o se vogliamo undici, offrendo in tale ipercinetico contesto la cavalcata elettrica Knifey un momento, l’unico, in cui tensione e velocità calano un po’. “Non sono in cerca di guai bensì di amore,/mi permetterai di conquistare il tuo cuore di duro?/Spalancami le porte del tuo cuore e del tuo pub”, implora insieme accorata e ironica nella tambureggiante, stentorea, scorticata Security. Che ad ascoltarla fa un effetto ma se ci accompagni il video in cui la nostra romantica teppista si esibisce in una danza scomposta in un cimitero, saltando fra lapidi, croci e monumenti, ne fa un altro. “Today your pub, tomorrow the world”, si potrebbe annotare parafrasando i Ramones, che per certo agli Sniffers qualcosa hanno insegnato, non fosse che il balzo dai peggiori bar della natia Melbourne ai palchi prima britannici e poi nordamericani ragazzaccia e ragazzacci già lo avevano compiuto prima che la pandemia li segregasse a tramare un disco che nondimeno sembra registrato dal vivo e dal vivo è pronto a far furore.

Si dirà che suonare punk nel 2021 è un anacronismo, ma cosa non lo è? Io nel mio cuore di… uh… duro un posto a una Hertz fra Slits e Bikini Kill, a una No More Tears degna dei migliori X, alla motörheadiana Don’t Need A Cunt Like You, a una Laughing vorticosa alla L7 l’ho subito trovato.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.437, dicembre 2021.

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Cloud Nothings – The Shadow I Remember (Carpark)

Vado su Discogs per verificare i supporti previsti per questo nuovo lavoro in studio dei Cloud Nothings e allibito scopro che nel 2020 la formazione di Cleveland oltre all’autoprodotto ma con i crismi dell’ufficialità (stampato sia in CD che su vinile e acquistabile sia in Rete che nei negozi) “The Black Hole Understands” ha pubblicato altri ventiquattro ─ !!! ─ album. Ventitré dei quali sono dei live solo in formato liquido, il ventiquattresimo a quanto mi consta un altro disco in studio, “Life Is Only One Event”, disponibile da poche settimane (Discogs lo data 2021 e “The Shadow I Rememember” è uscito questo 26 di febbraio) pure come LP. Per quanto mi attiene, non pervenuto. E pensate sia finita qui? Sempre nel 2020 e in formato liquido costoro hanno pubblicato sei EP. Più un altro nel gennaio del corrente anno. E un altro a febbraio. Con zero brani in comune con il disco oggetto di questa segnalazione. Sfugge il senso di tutto ciò: esistono dei fans della band che fa capo all’ex-ragazzo prodigio Dylan Baldi talmente assatanati da comprarsi anche un terzo, un quarto, un quinto di tale torrenziale produzione? Che non avendo potuto vedere i Cloud Nothings in concerto lo scorso anno hanno avvertito il bisogno di sopperire con una carrettata di live? Boh…

E allora come stupirsi se “The Shadow I Remember”, che pure si suppone sia una sorta di “Best Of” dell’anno (tra)scorso, è a malapena nella media di aurea mediocrità di quanto andato dietro all’invece promettente, a tratti brillante, omonimo esordio del 2011? Contiene (regala no) altre undici canzoni con il piede costantemente sull’acceleratore, si tratti di power pop, punk melodico o hardcore. Divertenti, eh? Ma le dimentichi nel tempo preciso che ci va ad ascoltarle.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.429, marzo 2021.

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Staring At The Rude Boys – I primi e unici Ruts

Forse mai dei versi di una canzone furono così tristemente profetici: in H-Eyes, retro di In A Rut, singolo di esordio nel gennaio 1979 dei Ruts, Malcolm Owen canta “sei così giovane, ti buchi per divertirti/ma ti fotterai la testa e finirai per morirne”. Argomento che tornerà ad affrontare in Dope For Guns, seconda traccia del primo LP di un quartetto prontamente ingaggiato dalla Virgin (a dare alle stampe il debutto a 45 giri era stata la minuscola People Unite, etichetta gestita dai Misty In Roots) e che vedeva la luce nel settembre dello stesso anno, e di nuovo nel marzo 1980 in Love In Vain (“non ti voglio più nelle mie braccia”), lato B del 7” Staring At The Rude Boys. Da lì a tre mesi gli altri componenti del gruppo ─ il chitarrista Paul Fox, il bassista John “Segs” Jennings e il batterista Dave Ruffy ─ comunicavano al cantante che era licenziato. Diversamente da come potrebbe sembrare, gesto di amore vero per un vero amico, scommessa azzardata sul fatto che, messo con le spalle al muro, fra le due passioni della sua vita, la musica e l’eroina, Owen avrebbe scelto la prima e si sarebbe ripulito. Sembrava funzionare, e difatti veniva riammesso nella band dopo pochi giorni, ma mai fidarsi delle promesse di un tossico: moriva per una overdose il 14 luglio, appena ventiseienne e prima che i Ruts completassero un secondo album vero. Pubblicato nel successivo dicembre, il pur valido “Grin And Bear It” raccoglie un po’ di brani da vari singoli e altri catturati live al Marquee Club, naturalmente ancora con Owen alla voce.

Appena riedito in vinile per celebrarne, con qualche mese di anticipo, il quarantennale, il solo 33 giri in studio non antologico dei Londinesi insieme ne rimarca la grandezza e l’immensità dell’occasione sprecata di lasciare una traccia ancora più importante nella storia del rock (i superstiti continuavano come Ruts D.C., ma non era la stessa cosa). Album immenso al punto da reggere il confronto con i primi due di quei Clash cui Owen, Fox, Segs e Ruffy venivano inevitabilmente accostati per la capacità di dividersi fra rovinosi assalti punk (ma You’re Just A… potrebbe essere piuttosto dei Buzzcocks e in Criminal Mind siamo diversi passi oltre, già in zona hardcore) ed escursioni in levare, Jah War la loro Police & Thieves, però autografa. Nessun altro gruppo bianco ha mai suonato il reggae con l’intensità bruciante dei Ruts.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.409, maggio 2019.

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Su “London Calling”, che usciva quarant’anni fa

A un certo punto degli anni ‘90, non ricordo esattamente quando ma presumo all’inizio, i critici di “Rolling Stone” decisero di votare “the best album of the 80’s”. Finirono bizzarramente per individuarlo in “London Calling”, lavoro pubblicato ancora nel 1979, sebbene verso la fine. A rappresentare un decennio veniva dunque designata un’opera uscita in quello precedente, errore non solo cronologico ma prospettico, siccome il doppio dei Clash non riflette le tendenze al crossover e al superamento del rock emerse negli ‘80 (pietra di paragone “Remain In Light” dei Talking Heads) quanto un’ansia catalogatoria volta a definire, in luogo che a ridefinire, il canone del rock’n’roll. Come campione di quel decennio (e pure dei ’90!) avrebbero potuto benissimo scegliere, invece, il triplo “Sandinista!”, pubblicato esattamente un anno dopo (e quindi, a essere pignoli, anch’esso ancora un disco degli anni ’70, come del resto “Remain In Light”): ingombrante, ineguale (le ultime due facciate sono superflue) e tuttavia esemplare di una voglia irresistibile di andare oltre il rock e certamente oltre (la distinzione non è questione di lana caprina: rivolgersi per delucidazioni a Keith Richards) il rock’n’roll. Logico, inevitabile – pena il reazionario tornare indietro di cui si renderanno colpevoli i Clash senza Mick Jones dell’ignobile “Cut The Crap” – passo successivo a un album che è un perfetto riassunto del primo quarto di secolo di vita del rock.

Suscitò scandalo, “London Calling”, fra i punkettari che avevano preso sul serio il niente Elvis o Rolling Stones nel 1977 e non avevano compreso che la rivoluzione indotta dal punk stava tutta nell’atteggiamento mentale piuttosto che nella musica, che come ben sapevano i Clash al massimo aggiornava, magari mischiandoli, stili già largamente metabolizzati, dal garage di metà ’60 ispirato dai primi Who e Kinks al pub rock, passando per Stooges ed MC5. Tutt’altro che innovativa, quindi, e destinata a mostrare il suo volto passatista non appena rinchiusa, violandone lo spirito per rispettarne la lettera, nel carcere del purismo. Per aprire le porte del quale chi invece di quello spirito si era imbevuto si trovò fondamentalmente a scegliere fra due opzioni: l’incremento esponenziale di velocità e durezza che genererà l’hardcore; lo sganciamento dalla tradizione del rock’n’roll attuato recuperando materiali ad essa estranei come il dub, il krautrock e l’elettronica, che verrà rubricato alla voce new wave. I Clash, con “Sandinista!”, opteranno per una terza via: consci del fatto che il rock, oltre a essere musica popolare, non è che una delle tante musiche popolari, lo dissolveranno in un calderone di influenze quanto mai eterogenee. Non prima di averlo celebrato come mai a nessuno è riuscito con “London Calling”.

Album immenso al di là dello straordinario livello di scrittura e persino al di là della  magistrale enciclopedizzazione che attua di molto di quanto accaduto da Elvis in avanti, sciorinando rockabilly (Brand New Cadillac) e soul (Train In Vain), beat (I’m Not Down) e musica latina (Spanish Bombs), reggae (The Guns Of Brixton, Lover’s Rock, Revolution Rock) e ska (Rudie Can’t Fail, Wrong ‘Em Boyo), avvicinando New Orleans (Jimmy Jazz), la Detroit del ’69 (la title track, Four Horsemen) e la Londra del ‘77 (Hateful, Clampdown, Death Or Glory, Koka Kola). Ma non è per questo – non solo, almeno – che è l’album che sottrarrei alla distruzione dovendone scegliere uno solo per spiegare alle generazioni future cosa fu il rock e perché, nonostante i suoi limiti artistici e culturali, fu importante. È che a vent’anni dall’uscita trasmette ancora (figuratevi cosa fu ascoltarlo allora) una tensione ideale fortissima, una fede nella forza redentrice della musica che nel mondo odierno (post-rock, sul serio) non è più possibile provare. Retorici, i Clash? Utopici, piuttosto. Sognatori e innocenti. Gli ultimi legittimati dai tempi a esserlo.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.17, ottobre 1999.

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I migliori album del 2018 (10): Idles – Joy As An Act Of Resistance (Partisan)

Mark E. Smith ci ha lasciati ma vive e anche quest’anno nella lista di VMO fa la sua porca figura un disco che ai Fall deve un bel po’. Per il 2017 toccava ai Protomartyr e un sorriso mi si allarga indulgente sulle labbra nel momento in cui mi imbatto in un (evidentemente giovin; o almeno spero) recensore che paragona Joe Talbot, del gruppo di Bristol, a Joe Casey, di quello di Detroit. Saltando un passaggio e non credo che sia perché, per quanto risultino innegabili le affinità a chi ha orecchie per intendere e con quelle orecchie di dischi ne ha ascoltati un tot, non meno lampanti sono i tratti che distinguono gli Idles, e il loro leader, dai Mancuniani. Più schiettamente punk nell’accezione puramente musicale del termine, questi ragazzi al secondo album dopo quel “Brutalism” che, se solo non lo avessi ascoltato in ritardo, si sarebbe guadagnato anch’esso un posto nella lista prima di questa, per quanto nelle posizioni di rincalzo. Probabilmente digiuni di krautrock e di Captain Beefheart come di Peter Hammill quasi per certo ne sapranno, al più, per sentito dire. E poi – sarà forse soltanto questione di anni e allora riparliamone nel 2029 se ci saranno, se ci saremo; oppure di un’attitudine nei confronti della vita prodotto di una diversa sensibilità – Talbot non è l’instancabile fustigatore, il Moralista, che fu Mark E. Può cedere – e spesso e volentieri lo fa – al sarcasmo, ma lo sguardo che volge alle umane genti permane, di fondo, empatico. Non sanguiniamo tutti, se ci pungono? Non ridiamo, se ci fanno il solletico? Gli fosse capitata una simile disgrazia, dubito che il fu leader dei Fall avrebbe scritto una canzone per raccontare di una figlia nata (il più orribile degli ossimori) morta. È l’argomento di una June singolarmente sospesa e storta ed è un pezzo che non c’è bisogno di sapere di cosa parli per sorprendersi inquieti e immalinconiti. Io lo ignoravo, ai primi ascolti.

A parte il brano citato, e i depistanti primi 1’30” lamentosi (quando più avanti sarà pura innodia) dell’iniziale Colossus, e poco altro: un tripudio di tamburi guerrieri, chitarre affilate, voce dal petulante al declamante. Nel percorso che porta al conclusivo sfaldarsi di una Rottweiler invero adeguata al titolo, si elevano dall’alta media – secondo me – una Never Fight A Man With A Perm sull’orlo del grind, una Danny Nedelko che nel contesto suona pop, una Television dove i Fall incontrano (scusate la rima) i concittadini Joy Division. E Cry To Me: un Solomon Burke riletto come avrebbero potuto i Birthday Party.

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