Archivi del mese: marzo 2022
La dance astratta di Mira Calix (R.I.P.)
Se l’è meditato bene questo esordio sulla lunga distanza Mira Calix, al secolo Chantal Passamonte, sudafricana da tempo trapiantata in Gran Bretagna. Arrivò colà con un bel portfolio di fotografie nel 1991 e trovò subito lavoro da Gucci, salvo lasciarlo dopo sei mesi perché si annoiava e andare a fare la cameriera. Salvo poi pubblicare suoi scatti su “Esquire”. Salvo poi impiegarsi in un negozio di dischi a Soho e cominciare a fare la dj in giro per feste illegali e club sempre più prestigiosi. Salvo infine accasarsi presso la Warp, da dieci anni marchio leader nell’ambito dell’elettronica di consumo limitrofa a quella più sperimentale. Era il 1995 e da Londra Chantal si trasferiva prima a Manchester, quindi a Sheffield, la città dove la Warp ha sede. L’anno dopo, mentre l’attività come dj travalicava i confini britannici (ha messo dischi un po’ ovunque in giro per il mondo, Italia compresa), uscivano i suoi primi 12″. Roba strana anche per gli standard Warp, etichetta che dell’originalità da sempre fa una bandiera: techno scheletrica e narcolettica prossima alla musica industriale, jungle spastica e rarefatta, paesaggi ambient, sprazzi di una nuova musica da camera suonata da macchine in preda a turbamenti sentimentali. Roba buona.
Di questa roba buona troverete sedici esempi in “One On One”. Niente di ballabile: chi potrebbe danzare, per dire, quel delizioso congegno a orologeria che è Routine (The Dancing Bear)? Questa è musica da ascoltare comodamente seduti, con molta attenzione al gioco infinito di dettagli che si cela dietro disegni in apparenza semplicissimi. O sdraiati, perdendosi in sogni di dimensioni alternative.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.387, 7 marzo 2000. La Warp ha annunciato due giorni fa che Mira Calix non è più fra noi. Non aveva che cinquantun anni.
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Beach House – Once Twice Melody (Sub Pop)
Il 10 novembre i Beach House hanno infine cominciato a dare un seguito a “7”, che usciva nel maggio 2018, con un EP di quattro canzoni solo in streaming e download, tallonato l’8 dicembre da un altro mini sempre di quattro tracce e diffuso con la medesima modalità. Tattica astuta per rendere spasmodica l’attesa per “Once Twice Melody” e per intanto fare in modo che se ne metabolizzasse la prima metà ─ da non crederci: la meno corposa ─ del monumentale programma: gli otto brani già svelati sistemati sul primo CD (o LP), altri dieci sul secondo, a totalizzare la lunghezza monstre di 84’28”. Come dire che il duo formato dalla cantante e tastierista Victoria Legrand e dal multistrumentista Alex Scally per un verso è ben conscio di come Internet abbia cambiato profondamente i meccanismi sia di distribuzione che di fruizione della musica e per un altro non se ne cura. Che si pubblichi un’opera di simile consistenza in un tempo in cui l’attenzione di tanti per la qualunque non supera la durata di un video su Tik Tok è di per sé ammirevole.
Poi però ti tocca l’ascolto, una giornata intera per familiarizzarci il minimo sindacale, e ti spazientisci. Fatto è che, avessero ben scelto e si fossero contenuti nei tre quarti d’ora di quasi tutti gli album prima, i Beach House avrebbero infine confezionato il capolavoro che è nelle loro corde ma finora non si è mai concretizzato. Che senso ha che una canzone cla-mo-ro-sa (meglio anche del brillante techno-pop della traccia inaugurale e omonima) come Hurts To Love sia la sedicesima? Nessuno. Peccato, perché qui costoro in certi frangenti si approssimano come non mai a un ideale di dream pop in bilico fra Mazzy Star e My Bloody Valentine (i primi), Cocteau Twins e Depeche Mode.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.439, febbraio 2022.
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Pubblicità per me stesso (7)
Pagina 4 (posizione strategica, proprio accanto al sommario) del numero di marzo di “Blow Up“, in edicola ancora per pochissimi giorni, prima di venire sostituito da quello di aprile. A Stefano Isidoro Bianchi un grande “grazie”, perché sponsorizzare gratuitamente un amico specialmente in tempi come questi in cui la carta è arrivata a prezzi talmente folli da mettere a rischio la sopravvivenza stessa dei giornali è tanta roba. A chi ancora non ha acquistato “Super Bad!” (fra quanti mi leggono in questo momento ovviamente la grande maggioranza) ricordo sommessamente che “chi non compra i libri di Eddy Cilìa è…”.
Ma, soprattutto, non stimola il Venerato Maestro a metterne in cantiere altri. E non vi dico che “the best is yet to come”, ma insomma…
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Il favoloso 1992 di Arrested Development e Disposable Heroes Of Hiphoprisy
Atlanta, Georgia
Sembrerebbe a prima vista la realizzazione perfetta del Sogno Americano, Atlanta. È a detta di molti la municipalità meglio amministrata degli Stati Uniti ed è prospera di una prosperità che si è dimostrata a prova di recessione. Si direbbe senza fine il suo boom economico, che la fa fiera di sé, in superficie almeno, e l’ha resa ricca al punto di consentirle di chiedere (e ottenere) l’assegnazione dei Giochi Olimpici del 1996. È la città della Coca Cola e alzi la mano chi riesce a immaginare qualcosa di più intrinsecamente a stelle e strisce e ottimista della suddetta bevanda. È anche un esempio per il resto del paese in materia di integrazione razziale, un esempio, oltretutto, che viene offerto dal Sud: qui sono neri governatore, sindaco e capo della polizia. Da qui prese le mosse il movimento per i diritti civili e questa ne fu, negli anni ’60, la capitale. Qui ebbe i natali Martin Luther King. Ma, insegna la saggezza popolare, ogni medaglia ha il suo rovescio e se luccica non è detto che sia d’oro. Sì, Atlanta era la città del grande leader nero ma è pure il luogo dove egli è sepolto, e morì assassinato. E la sua tomba è circondata da un fossato che ha la funzione di impedire alla teppa razzista di lordarla con scritte ingiuriose. Anche ad Atlanta ci sono stati disordini dopo il noto verdetto che ha mandato assolti i poliziotti che avevano pestato Rodney King. Quanto ai politici neri…
“Un uomo politico di colore spesso non può aiutare la sua gente quanto un bianco. Perché se si impegna troppo per quelli che hanno la pelle come lui viene automaticamente etichettato ‘radicale’ e non sarà più appoggiato dai bianchi, che avranno la tendenza a vederlo come un nemico. Mentre invece se è un politico bianco a battersi per i neri lo voteranno sia questi che i bianchi. E vivranno tutti felici e contenti. Tranne il sottoscritto, che è persuaso che il sistema sia sbagliato già dalle fondamenta.”
Questo il pensiero di Todd Thomas, meglio noto come Speech, autore di larga parte del repertorio, rapper e portavoce, leader insomma, della posse che per prima ha posto Atlanta sotto i riflettori della scena hip hop e che è forse la più chiacchierata fra quelle salite alla ribalta quest’anno. Hanno avuto la prestigiosa copertina di “Echoes”, gli Arrested Development, e articoli su “New Musical Express”, “Melody Maker”, “Vox” e tante altre testate ancora. Meritano in pieno, i Nostri, questa fresca fama: “3 Years, 5 Months And 2 Days In The Life Of…” (Chrysalis) è un LP splendido e freschissime sono l’immagine e l’attitudine che esprime.
Tanto per cominciare, degli Arrested Development fanno parte sia donne che uomini e questo miscuglio di sessi è cosa che non si era mai vista nell’hip hop. Al massimo, finora, una donna poteva essere ospite di un gruppo maschile, o viceversa (pensiamo a Queen Latifah e ai suoi scambi di favori con De La Soul, Jungle Brothers e Naughty By Nature). Vi è poi fra loro, con mansioni di “consigliere spirituale”, tale Baba Oje, un signore di sessant’anni, altra cosa mai vista. È infine inedita la loro immagine: tanto la copertina dell’album che il video di Tennessee, il singolo che è stato scelto per fargli da apripista, li colgono in ambiente campagnolo, sparsi per un campo o radunati sulla veranda di una casa colonica: dichiarazione esplicita di riconoscimento delle radici sudiste e rurali della loro musica del tutto nuova per il rap americano. Se c’è un aggancio con il passato (non soltanto per la musica ma pure a livello di look) è con un passato remoto, con Sly Stone e la sua Family, che tanto piacquero alla nazione di Woodstock.
Prosegue per altre 8.158 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Dance Music Magazine”, settembre 1992. A oggi ricorre il trentesimo anniversario della pubblicazione di “3 Years, 5 Months And 2 Days In The Life Of…”. L’album di esordio dei Disposable Heroes Of Hiphoprisy, “Hypocrisy Is The Greatest Luxury”, aveva raggiunto i negozi tre esatte settimane prima, il 3 marzo 1992.
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Dan Sartain – Arise, Dan Sartain, Arise! (One Little Independent)
A volte la vita fa davvero schifo. Devi recensire l’ottavo album di uno che adori sin da quando scrivesti di un terzo che era però come fosse il primo, giacché nel 2006 con “Vs. The Serpientes” l’autore entrava nel mondo della discografia ufficiale dopo due autoproduzioni, e dovresti esserne felice. Tanto più perché lo si attendeva dal 2016 ma anche no, sapendo che Sartain, arresosi all’impossibilità di campare di musica, aveva aperto una bottega di barbiere in quella Birmingham. Alabama, in cui era nato il 13 agosto 1982. Dovresti esserne contento visto che come tutti i precedenti è lavoro di vaglia e godibilissimo. Come quelli, da sistemare idealmente nella parte di libreria che ospita Tav Falco e Cramps, Billy Childish nelle sue innumerevoli incarnazioni, Gun Club e Oblivians, ’68 Comeback, Rocket From The Crypt, White Stripes… Si parte con il surf guerriero You Can’t Go Home No More e da lì al festoso rock’n’roll, Daddy’s Coming Home, con cui si congeda il disco non registra una battuta a vuoto in altre undici tracce in cui dal garage passa al power pop, da quello allo psychobilly, un punk 100% Ramones va dietro a una ballata che potrebbe venire dallo studio della Sun al tempo in cui lo frequentava Elvis, una sferragliante filastrocca anticipa un country al galoppo in cui spiazzando sfrigola un synth. Che gran ritorno insomma, che bello potersene occupare.
Solo che Dan Sartain è morto lo scorso 20 marzo. Si ignora di cosa ma per certo (tanti gli indizi in tal senso) ha inciso quest’album sapendo di avere i giorni contati. Tornate sul titolo dell’ultimo pezzo: è il saluto a una bambina, la figlia, che chi sta cantando sa che non vedrà crescere. La vita fa schifo e per qualcuno è troppo breve.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.439, febbraio 2022.
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Bill Callahan & Bonnie ‘Prince’ Billy – Blind Date Party (Drag City)
Anche il covid ha fatto cose buone. Ad esempio indurre Bill Callahan e Will Oldham (meglio noto come Bonnie ‘Prince’ Billy), amici di lunghissima data e compagni di etichetta, a scambiarsi canzoni via Internet, una alla settimana per svariati mesi e ogni volta coinvolgendo qualche altro artista in forza alla Drag City. Una volta completata, la registrazione veniva postata su YouTube. A un certo punto Bill e Will si sono resi conto di avere fra le mani un disco e anzi due (esorbitante il minutaggio: 90’13”) ed è così che il primo grande album del 2022 è una raccolta incisa fra il 2020 e il 2021 e per di più tutta di cover, visto che anche i due brani autografi che la coppia si è concessa frugando in cassetti chiusi da tempo immemore (Callahan ripescando Our Anniversary, dal catalogo Smog; Oldham riprendendo Arise, Therefore, che uscì a nome Palace Music) hanno subito rivisitazioni radicali. Vario all’estremo il repertorio (trovarsi fra le mani un album che sistema una di seguito all’altra canzoni di Lou Reed, Steely Dan, Jeffrey Jeff Walker, Robert Wyatt e Little Feat almeno sulla carta lascia straniti), l’averlo impostato in prevalenza in una chiave di Americana ma concedendosi diverse deviazioni fa sì che l’attenzione resti sempre desta ed è per questo che, diversamente dall’ultimo Beach House, la voluminosità del programma non rende faticoso l’ascolto.
Spazio finito, segnalazioni sparse: la Billie Eilish di Wish You Were Gay reinventata alla Gainsbourg, il Lou Reed minore di Rooftop Garden promosso a novella Venus In Furs, l’Iggy Pop minorissimo di I Want To Go To The Beach riletto alla Grace Jones. Favoloso il Leonard Cohen di The Night Of Santiago, ora con inserti doo wop.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.439, febbraio 2022.
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Audio Review n.440
È in edicola il numero di marzo di “Audio Review”. Contiene mie recensioni dei nuovi album di A Place To Bury Strangers, Black Country New Road, Burial, Combo Chimbita, Delines, Janis Ian, Khruangbin & Leon Bridges, Cate Le Bon, Lumineers, Mitski, Modern Nature, North Mississippi Allstars, Pictish Trail, Pinegrove, Wovenhand e Yard Act. Nella rubrica del vinile articolo di una pagina su Allen Toussaint e una breve dedicata a un’ennesima ristampa dei Grateful Dead.
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Geese – Projector (PIAS)
Chissà se avranno un futuro da rockstar questi ragazzotti newyorkesi, che per intanto sono la sensazione del momento. O se dovranno rimpiangere di avere, con l’incoscienza di una beata gioventù, provato a fare della musica una professione, decidendo di continuare a suonare insieme in luogo di frequentare (quasi tutti loro) alcune delle più prestigiose università statunitensi (di quelle in cui è un’impresa farsi ammettere). Quando il programma originale era divertirsi un po’ e sciogliersi non appena diplomati. È successo invece che sono bastati alcuni demo messi “on line” fra chissà quante altre decine di migliaia a suscitare un bailamme che non si sarebbero aspettati mai, con offerte di contratti discografici come piovesse. Si sono alla fine accasati in patria alla Partisan e in Europa presso la Play It Again Sam. Debuttano avendo anticipato “Projector” con giusto un 45 giri e scegliendo come singolo di lancio il brano più lungo (quasi sette minuti) dei nove che sfilano nell’album. Che si diceva prima? Ah sì: beata incoscienza.
Si chiama Disco il pezzo in questione e con la disco non ha nulla a che fare, essendo piuttosto una This Is Not A Love Song (con però alla voce Thom Yorke, non John Lydon) declinata da chi frugando nelle collezioni dei genitori ci ha trovato i Television e gli sono piaciuti. Esponenti esemplari di una generazione che al post-punk è arrivata più che altro di riflesso ─ via Franz Ferdinand (Low Era), LCD Soundsystem (la canzone che battezza l’album), Strokes (Fantasies/Survival, Opportunity Is Knocking) ─ i Geese sono stati accostati da molti ai britannici black midi: a chi scrive sembrano assai più rock’n’roll, meno cerebrali in una fisicità che sarebbe bello potere testare presto dal vivo.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.438, gennaio 2022.
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