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Il magico 1968 dell’ippogrifo Pentangle

Registrato nell’autunno 1968 e pubblicato nel gennaio dell’anno dopo “Birthday Blues” resterà per due anni e mezzo l’ultima prova da solista di Bert Jansch, a quell’altezza occupato a tempo pieno dall’avventura Pentangle. Ha ragione Richie Unterberger quando osserva che è un po’ come ascoltare i Pentangle ma in una versione sbilanciata, con la ritmica consuetamente lì storta e là swingante ma senza la seconda chitarra a contrappuntare quella che da sola si prende il proscenio e senza la voce femminile tanto caratterizzante e, oggettivamente, infinitamente più suggestiva. Non è la migliore prova dell’autore né da solista né in un contesto di gruppo e nondimeno qualche articolo di vaglia al suo favoloso catalogo, oltre alla già citata I Am Lonely, lo aggiunge: una fiabesca Tree Song; la virtuosistica (dedica alla sua signora) Miss Heather Rosemary Sewell; una A Woman Like You che azzarda il raga; una traccia omonima squisitamente barocca benché in solitario e scandalosamente breve.

Non avrà a lungo un successore, il Blues del Compleanno, perché l’ippogrifo Pentangle (ha presente il lettore? bestia leggendaria che fonde in sé quattro diversi animali e qui sarebbero cinque, ma due sono il medesimo) a quel punto vola ormai altissimo. Ci sono voluti due americani per propiziarne l’ascesa verso empirei di stardom e immortalità: uno è Jo Lustig, manager di pochi scrupoli quanto di efficacissimo attivismo, capace di procurare alla band una copertura mediatica impressionante, su una stampa specializzata che al tempo decide fortune e sfortune così come da parte della BBC; l’altro è il produttore Shel Talmy, uno cui già gli Who e i Kinks dovevano non tanto ma tantissimo e scusate se è poco. Saranno però i Pentangle il suo capolavoro: firma la regia dei loro primi tre album e non ci si crede quanto suonino bene. Il primo in particolare, inciso con a disposizione appena quattro piste dentro le quali riusciva ad accomodare un sound pazzamente caleidoscopico. Questo sia subito chiaro: se routinariamente si indica nel quintetto, a pari merito con i Fairport Convention (uno scalino sotto gli Steeleye Span; la Incredible String Band un’altra roba), la massima espressione del folk-rock britannico è per convenzione, per comodità di discorso. Giustamente con chi glielo dice Danny Thomson si infuria e rivendica che trattavasi, semmai, di folk-jazz. Non tanto per l’uso da parte sua di un contrabbasso, e non di un basso elettrico, quanto per la preferenza data a tempi altri (che cambiano magari durante lo stesso pezzo) rispetto al canonico 4/4. Nei Pentangle quasi mai la ritmica è squadrata: ondeggia, swinga, prende abbrivi marziali. E certe sonorità e scale ─ di una chitarra elettrica che pare a volte un sitar; e ogni tanto è proprio un sitar a far capolino ─ che istintivamente l’ascoltatore di rock non può non collegare alla psichedelia arrivano in realtà dalle musiche indiane, arabe, magari dell’Est Europa. Fra l’altro: senza che ciò mai incida sulla stratosferica qualità delle performance, assai spesso la nostra combriccola si presenterà alla ribalta in stato di alterazione collettiva (in special modo i due chitarristi), ma alcolica, non di origine chimica.

Ancora Unterberger (in Eight Miles High, secondo tomo di una poderosa e imprescindibile storia del folk-rock) si spinge, un po’ spericolatamente, a dire i Pentangle i Beatles del versante britannico della scena. In questo senso ha ragione: che furono un gruppo in cui ciascuno dei cinque membri evidenziava una personalità forte, unica, chiaramente a sé rispetto alle altre quattro. Ci sta. Ma allora si può anche chiamarli i CSN&Y: per gli intrecci vocali e per l’abitudine di ricavare parentesi solistiche negli spettacoli dal vivo.

“The Pentangle” vede la luce a un anno quasi esatto (meno dieci giorni; il 17 maggio 1968) dal primo concerto. Chiaro che l’intesa si è affinata e, se la freschezza è da esordio, le si abbina la perfezione della macchina ampiamente rodata, ciascun ingranaggio funzionale all’armonioso muoversi d’assieme. Degli otto brani che compongono il succinto programma (trentuno minuti scarsi) solo metà è originale e inoltre ─ laddove Pentangling è sin dal titolo il manifesto di un suono mercuriale che scappa verso ogniddove fra momenti incantati, strappi e vortici ─ Bells e Waltz non sono che due (deliziose) scuse per esibire la magistrale padronanza dei rispettivi strumenti di Cox e Thompson. Mentre la pigramente arabeggiante Mirage è la versione per band di una peregrinazione di Jansch fra dune desertiche. Eppure: è un gruppo dalla personalità tanto straripante da evidenziarsi maggiormente nei materiali che rielabora: il gospel degli Staple Singers Hear My Call, girato jazz; i tradizionali Let No Man Steal Your Thyme e Way Behind The Sun, trascinati verso derive lisergiche da (per osare ulteriormente) Jefferson Airplane britannici; e Bruton Town, che parte minuetto e trasfigura in saga.

Proprio Bruton Town, e oltretutto relegata a fondo scaletta, è l’unica traccia del debutto presente nel disco dal vivo che, accoppiato a uno in studio, dà vita già entro fine anno al viceversa assai corposo seguito, “Sweet Child”. Scelta coraggiosa quella di uscirsene già con un doppio che giova alla crescente reputazione della band, se non a vendite che permangono modeste in rapporto all’entusiasmo di critica e pubblico pagante (ai concerti). La precedono lungo quaranta minuti undici brani inediti (la ristampa in CD oggi in catalogo offre lo spettacolo intero, chiarendo che da quel punto in poi l’esordio veniva ripreso quasi integralmente): resta forse il migliore riassunto di un canone capace di includere con disarmante naturalezza blues inacidati (l’autografa Market Song) come arcaici (il vivace omaggio a Furry Lewis Turn Your Money Green), ballate dal modernista (No More My Lord) al favolistico (Watch The Stars), una sinossi perfetta di folk barocco (Three Dances), mo-nu-men-ta-li riletture di due fra i massimi capolavori di Charles Mingus (Haitian Fight Song e Goodbye Pork Pie Hat) e poco dopo una performance a cappella di Jacqui McShee (So Early In The Spring) di una bellezza semplicemente paralizzante. Un gradito ritorno: The Time Has Come, adesso elettrica. Dal raffronto il 33 giri in studio risulta a momenti sminuito, a un primo ascolto almeno. Ma prolungandosi la frequentazione se ne evidenzia una seduzione più quieta quanto al pari persistente. Rappresentano apici stellari una canzone inaugurale e omonima dal sognante al turbinoso, l’ansiogeno strumentale (Thompson suona con l’archetto) Three Part Sing, il valzer sull’orlo della schizofrenia I’ve Got A Feeling (ispirato da Miles Davis), la ritmica Moon Dog, una Hole In The Coal che è di Ewan MacColl e parrebbe invece (ebbene sì e ancora) dell’adorato Mingus.

Dopo avere tanto seminato nel 1968 i Pentangle raccolgono nel 1969, con l’album che i più considerano il loro grande classico (tutti quelli che non gli preferiscono “Sweet Child”): “Basket Of Light”. Finalmente superstar, quinti nelle classifiche UK.

Tratto da Bert Jansch – La ballata di un enigma. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.237, febbraio 2018. Ristampato in Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Il primo, omonimo album dei Pentangle vedeva la luce il 17 maggio 1968, cinquantacinque anni fa.

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Nina Simone – Illuminazioni di immenso

“Poiché ho amato tanto e invano/e cantato con respiro così vacillante/il Signore nella Sua infinita misericordia/mi offre il dono della morte”: sono versi dello scrittore afroamericano del XIX secolo Paul Laurence Dunbar, colui che fu detto “il Poeta Laureato della razza negra”. Basterebbero, non fossero stati accompagnati da tanti altri egualmente mirabili e memorabili, a giustificare la sua fama postuma e, in definitiva, l’immortalità che lo accompagna. Non so dove sia stata sepolta Nina Simone, che ci ha salutati, da poco settantenne, lo scorso 21 aprile, senza che i media dessero risalto più di tanto alla scomparsa dell’ultima della serie di grandi voci femminili nere iniziata con Billie Holiday e proseguita con Ella Fitzgerald, con Dinah Washington, infine con l’artista venuta al mondo come Eunice Kathleen Waymon. Non so se le sue spoglie mortali siano state riportate in quella patria crudele e ingrata che si era lasciata alle spalle oltre trent’anni prima, o se riposi in quella terra di Francia che viceversa tanto l’ha amata e onorata. Non so se la sua ultima dimora, sempre che ultima dimora ci sia, sia o meno segnata da una lapide: se sì, credo però che i versi di Paul Laurence Dunbar dovrebbero adornarla, specifici manco fossero stati scritti apposta per lei. Credo che nessuno abbia mai avuto più dell’oggetto di questo mio inadeguato omaggio diritto a farli suoi. Già lo fece, nel 1969, musicandoli in Compensation, uno dei dieci brani che danno vita a un’illuminazione di immenso intitolata “Nina Simone & Piano!”, capolavoro ristampato in CD qualche tempo fa in utile accoppiata al certo meno ombroso “Silk & Soul” e da tenere sempre a portata di mano, per il giorno in cui doveste decidere di salpare per la famosa isola deserta. Un classico assoluto del… jazz? Soul? Un classico assoluto di Nina Simone e tanto dovrebbe bastarvi.

Album di una grandezza che quasi non ci si crede e si stenta ad abbracciare al primo ascolto come al ventesimo. Album che mette a nudo un’anima con tale impudicizia che ci si sente a tratti guardoni spregevoli a scrutare nei suoi abissi. Album che ti prende il cuore in mano e stringe, stringe, stringe. Seems I’m Never Tired Lovin’ You, dichiara la prima canzone, delicata e impossibilmente densa di sentimento, dedica al marito e manager Andrew Stroud che, da lì a pochi mesi, pianterà in asso la consorte spezzandole il cuore e in contemporanea ripulendole il conto in banca dalla non disprezzabile somma (un quarto di milione di dollari) accumulata in diritti d’autore e altro in poco più di un decennio, e possa per questo bruciare nei secoli dei secoli ─ il bastardo ─ nelle fiamme dell’inferno. Situazione cui retrospettivamente assai meglio si sposa un dittico finale mozzafiato: prima una I Get Along Without You Very Well (Except Sometimes) che cancella quella di Chet Baker e scusate se è poco; poi una The Desperate Ones teatrale e corrusca. Altre cose immani in mezzo… Innanzitutto la versione definitiva, fra jazz e gospel, di Nobody’s Fault But Mine, liberamente derivata da Blind Willie Johnson e guai a voi, guai vi dico, se non cogliete la prima occasione per andare a vedere l’ultima fatica di Wim Wenders, L’anima di un uomo, toccante omaggio al blues con al centro Blind Willie Johnson stesso, Skip James, J.B. Lenoir. E poi: una I Think It’s Gonna Rain Today che fa Randy Newman gospel; una Everyone’s Gone To The Moon (dal pregiato catalogo di Jonathan King) che il primo Tom Waits deve avere imparato a memoria; una Who Am I? che sciacqua Leonard Bernstein in acque soul; la suadente Human Touch. Interpretazioni che puntano dritto alla giugulare e all’ineffabile e tuttavia non sono niente, niente di niente raffrontate alla canzone che è la settima in lista ma ho tenuto per ultima. Si chiama Another Spring. Un’anziana signora su una sedia a dondolo parla fra sé e sé, amaramente, lamentando una vita fallimentare e segnata dall’abbandono, del marito (premonizione singolare) come dei figli. Nel fluire della melodia, dissonanti, piccole deflagrazioni accompagnano e sottolineano scatti di ira e smarrimento. Ma a un certo punto l’atmosfera cambia, un battito di mani introduce enfasi gospel ed è come se una brezza tardo-marzolina spazzasse via ogni recriminazione. È tornata la primavera. La vita rifiorisce. Nonostante tutto.

Prosegue per altre 6.744 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.62/63, luglio/agosto 2003. Ricorre oggi il novantesimo anniversario della nascita dell’artista.

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I migliori album del 2022 (2): The Comet Is Coming – Hyper-Dimensional Expansion Beam (Impulse!)

In un’intervista del 2016 il batterista Max Hallett (Betamax) raccontava così la genesi, tre anni prima, del progetto The Comet Is Coming: “Io e Danalogue the Conqueror (il tastierista Dan Leaves, NdA) avevamo messo insieme un duo psichedelico chiamato Soccer96. Ci esibivamo in giro per Londra e una sera questo spilungone con un sax in mano ci ha raggiunti sul palco. Quando ha attaccato a suonare con noi ha innescato un’esplosione di energia che ci ha lasciato sbalorditi. Un paio di settimane dopo King Shabaka (il sassofonista Shabaka Hutchings, NdA) mi telefona: ‘Facciamo un disco’. Abbiamo prenotato tre giorni in studio e alla fine ci siamo trovati con ore e ore di jam totalmente improvvisate. Da lì è partito un paziente lavoro di ‘taglia e cuci’”. Anticipato l’anno prima dal mini “Prophecy”, tratto dalle medesime sedute, nel 2016 “Channel The Spirits” scoperchiava crani esponendo la passione condivisa dai tre per “Sun Ra, Jimi Hendrix, John e Alice Coltrane, Can, Mahavishnu Orchestra, techno, house, grime e hip hop futurista”. Seguiva una candidatura ai Mercury Prize. Seguivano nel 2017 un altro EP, “Death To The Planet”, e nel 2019 l’accoppiata formata dal secondo album “Trust In The Lifeforce Of The Deep Mystery” e dal mini “The Afterlife”, entrambi già su Impulse!, etichetta assurta alla storia maggiore del jazz dando asilo alle sue avanguardie.

A incidere le basi di “Hyper-Dimensional Expansion Beam” i Nostri hanno impiegato (presso i Real World Studios di Peter Gabriel) un giorno in più di quelli che dedicarono al debutto. Dall’immersione in quanto registrato hanno poi estratto undici tracce pazzesche, sistemando fra la kosmische afro-dance di Code e la collisione fra hard bop e jungle di Mystik di tutto e di più, intervallando a momenti febbrili altri tendenti all’atmosferico nell’ampio iato dal sognante al fosco. Teo Macero avrebbe approvato, Sun Ra pure. Qui, forse, il solo jazz realmente moderno oggi.

Pubblicato per la prima volta in una versione più breve su “Audio Review”, n.447, novembre 2022.

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Ornette Coleman e l’invenzione di un nuovo jazz

Cacciato nel 1949 dal primo impiego stabile da musicista professionista, al seguito di un luna park, per avere insegnato al sassofonista che faceva coppia con lui un brano jazz e oltretutto, il che rendeva ancora più grave il delitto, in stile be bop. Ingaggiato nel ’50 da un grande del blues in procinto di diventare rhythm’n’blues quale Pee Wee Crayton ma, dopo poche date, pagato da costui per non suonare e sì, avete letto bene. Anche così, a forza di aneddoti, nelle note di copertina di quello che fu nel 1958 l’album d’esordio di Ornette Coleman il buon Nat Hentoff (uno dei critici meglio informati e più acuti che mai abbiano discettato di jazz) spiegava come mai l’artista di Forth Worth arrivasse a debuttare solo ventottenne quando i primi ingaggi li aveva rimediati a sedici anni. Colpa per così dire di un’originalità talmente spiccata da rendergli difficile trovare complici in grado, se non di capirlo, perlomeno di assecondarlo. Sul serio al tempo la musica dell’alto sassofonista texano era, come annunciava orgogliosamente il titolo del suo primo LP, qualcosa di diverso, e speciale, e dietro quattro punti esclamativi pienamente giustificati. Se oggi “Something Else!!!!” ci pare assolutamente godibile, e stentiamo magari a cogliere la carica innovativa  di composizioni già liberate da quelle che erano le convenzioni armoniche e melodiche dell’epoca, è per due ragioni: una è che, in misura rilevante grazie allo stesso Ornette, determinati paletti verranno poi spostati ben più avanti e cinquanta, sessant’anni dopo certi jazzofili ancora non ci hanno fatto l’orecchio; l’altra è che nelle nove magnifiche tracce (tutte autografe) che vi sfilano la ritmica ─ Don Payne al contrabbasso, Billy Higgins alla batteria ─ swinga che è un piacere. Idem il piano di Walter Norris e quasi sfugge, allora, come il sax e la tromba di un giovanissimo (ventun anni quando queste sedute venivano eternate) Don Cherry svarino prendendosi libertà inaudite, dentro ma in prevalenza fuori dalle sequenze di accordi della melodia di base, sull’orlo e spesso oltre della dissonanza. Lo si noterà tanto di più, da lì a pochi mesi, nel successivo ─ secondo e ultimo 33 giri per la Contemporary ─ “Tomorrow Is The Question!”, laddove senza un pianoforte a legarla la musica si faceva mercuriale e se tanti gridarono al genio erano molti di più a parlare di un bluff, o tout court di un ciarlatano che se suonava così era per incapacità, figurarsi un po’. Lode allora a quella lenza di John Lewis che in contemporanea con gli eventi annotava: “Ritengo che la musica di Ornette sia uno sviluppo di quella di Charlie Parker senza che di Parker riprenda le scale o lo stile. È un qualcosa di assai più profondo e spero che sia lui che Don Cherry abbiano una vita artistica lunga e fruttuosa”. L’avranno. “Tomorrow Is The Question!” (punto esclamativo ne è rimasto uno, ne mancano almeno due) appare insomma già un filo più “avanti” del pur prodigioso, e complessivamente forse più ispirato, predecessore. Eternato da Lester Koenig a Los Angeles fra il gennaio e il marzo del 1959, affianca di nuovo al sax alto di Coleman la tromba di Cherry, mentre al contrabbasso si alternano Percy Heath e Red Mitchell e alla batteria sedeva per l’occasione Shelly Manne. È un gioioso e magmatico scorrere di blues alterati, ballate, presagi di armolodia. Seconda testimonianza preziosa dei preparativi per una rivoluzione.

La quale andava compiutamente in scena ─ a dare man forte al leader il solito Cherry e una fenomenale sezione ritmica formata da Charlie Haden al contrabbasso e dal redivivo Billy Higgins dietro piatti e tamburi ─ appena due mesi dopo, il 22 maggio 1959 (il disco verrà pubblicato in novembre, primo di innumerevoli su Atlantic), ai Radio Recorders di Hollywood. Nesuhi Ertegun a preoccuparsi che venisse registrata impeccabilmente (anche dal punto di vista della qualità tecnica si stenta a credere, ascoltandole, che queste incisioni abbiano sessantadue anni) dopo essersi preoccupato di convincere il sassofonista a non abbandonare la musica per darsi a studi religiosi, come a un certo punto era fortemente intenzionato e provateci voi a immaginare le conseguenze se il discografico non fosse risultato abbastanza persuasivo. Appassionato, preveggente, astuto, Ertegun contribuiva (incommensurabilmente) a rendere epocale l’album pure imponendogli il titolo splendidamente arrogante che ha, “The Shape Of Jazz To Come”, “La forma del jazz a venire”, niente di meno, quando l’autore avrebbe voluto chiamarlo “Focus On Sanity”. Con una scaletta di sei pezzi tanto per cambiare tutti a firma Coleman (due outtake verranno recuperate nel 1970 in altrettante antologie) il disco reinventa radicalmente la tradizione cui tuttavia appartiene e porrà le basi per il nascere di una nuova scena, a battezzare la quale provvederà sempre Ornette nel 1961 con un altro e già ennesimo capolavoro, “Free Jazz”. Lo fa mettendo in discussione e anzi definitivamente da parte quello che era nell’ambito il concetto canonizzato di armonia, accantonando l’idea che i cambi di accordo dovessero essere concretamente delineati e sistemando gli assoli secondo l’estro del momento, indipendentemente dal centro tonale del brano. Lunghe improvvisazioni legano il delinearsi del tema al suo riemergere, ma l’aridità di tanta avanguardia che da qui proverà a trarre ispirazione è tenuta alla larga dal calore di melodie di intrinseco romanticismo (non a caso la dolente Lonely Woman, che inaugura, sarà una delle poche composizioni del nostro uomo a venire frequentemente riprese da altri e a farsi dunque standard) e da una ritmica (Haden si concede talvolta l’archetto e sono momenti di lirismo indicibile) che insieme ancora, dialoga, sospinge.

“The Shape Of Jazz To Come” è stato oggetto negli ultimi anni di numerose ristampe in vinile. Lo spassionato consiglio al lettore è di scansare accuratamente tutte quelle griffate con i marchi più improbabili, specializzati nello sfruttamento di opere su cui sono scaduti i diritti d’autore ma delle quali non hanno ovviamente l’accesso alle incisioni originali, e premiare invece il lavoro di un’etichetta seria, serissima quale è Speakers Corner, che riedita solo lavorando in analogico su master di prima generazione concessi in licenza dai legittimi proprietari. L’auspicio è che presto, prestissimo aggiunga al suo ricco catalogo anche “Something Else!!!!” e “Tomorrow Is The Question!”, le cui ultime ristampe non truffaldine sono su OJC e datano rispettivamente 2011 e 2015.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.435, ottobre 2021.

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Un po’ di cose che ho scritto negli anni riguardo a Pharoah Sanders

Sodale di John come di Alice Coltrane e titolare da leader di una buona mezza dozzina di album fondamentali, uno dei più audaci e geniali sassofonisti della storia del jazz ci ha lasciato lo scorso sabato, ottantunenne. È morto da vivo, che non è cosa che si può dire di molti.

Karma (Impulse!, 1969)

Il terzo lavoro in proprio di colui che era stato l’ultimo alter ego di John Coltrane venne registrato in due sedute nel febbraio del 1969. La prima ebbe luogo il 14, giorno degli innamorati, si sa. Di amore – di altro, più trascendentale tipo – “Karma” trabocca, mistico già nel titolo e in uno scatto di copertina che coglie il sassofonista seduto su un cuscino, gambe incrociate e braccia aperte. In meditazione o, chissà, preghiera, rivolta a quel Creatore che, spiega il lunghissimo brano (32’45”) che costituisce gran parte del disco, ha i suoi piani. Obiettivo: “pace e felicità per ogni uomo”. Presentato così “Karma” potrebbe sembrare, visto l’anno di realizzazione, un vaneggiamento hippie qualsiasi. Altro è tuttavia il senso di profonda, non banale spiritualità che trasmette. Altra è la solidità di spartiti in cui il richiamo a musiche etniche di area asiatica lungi dall’essere riverniciatura superficiale si fa parte essenziale di strutture bene articolate, in un gioco di vuoti e pieni, tensione e rilascio che vede Sanders in perenne, estatico assolo mentre un gruppo superbo (spiccano il piano di Lonnie Liston Smith Jr. e, in Colors, il contrabbasso di Ron Carter) intreccia trame qui fitte, là impalpabili. “Free jazz per le masse”, secondo Scott Yanow. Definizione felice ma limitante.

Complessa eppure cantabile, la monumentale The Creator Has A Master Plan fu il punto centrale di un percorso iniziato con il sottovalutato “Tauhid” e che avrà in “Jewels Of Thought”, “Deaf Dumb Blind”, “Thembi” e “Black Unity” altre tappe memorabili. Per non dire dei coevi album di Alice Coltrane cui Sanders offrirà un apporto decisivo.

Scritto nel dicembre 1999 per un progetto di “Blow Up” poi non andato in porto per ragioni che non ricordo. In parte recuperato, adattato e accorciato, su “Extra”, n.13, primavera 2004. Altrimenti inedito.

Thembi (Impulse!, 1971)

Permettete? Vorrei cominciare con un racconto di malcostume. Qualche tempo fa i negozianti di dischi ricevettero un comunicato dalla Universal in cui si annunciava la volontà di “valorizzare” il catalogo Impulse!. Ottima cosa, no? E come si intendeva valorizzarlo? Ribassando i prezzi e insieme avviando una campagna pubblicitaria? Macché. Alzandoli invece, portandoli dalla fascia media alla alta. Fine della “valorizzazione”. Sicché classici in gran copia – da Mingus a Coltrane, da Shepp ad Ayler, da Art Blakey a Yusef Lateef – sono oggi meno accessibili alla smania di conoscenza degli appassionati, soprattutto di quelli più giovani. Agire esemplare dell’avida idiozia di gente che dovrebbe essere riscattata alla società mandandola a lavorare i campi.

Mi perdonerete se mi sono così mangiato metà dello spazio di questa recensione. Ci tenevo. Confido nel fatto che “Thembi”, se non posseduto, sia almeno conosciuto di fama dai più. A quattro anni dalla morte di Coltrane che ha troncato un sodalizio epocale, a due dal capolavoro “Karma”, che ha rischiato di fare dell’avanguardia una faccenda alla moda, a uno dalla pregevole accoppiata “Jewels Of Thought”/”Deaf Dumb Blind”, Sanders dà alle stampe (è il 1971) un album che dei predecessori mantiene l’ispirazione – coacervo di influenze africane e d’Oriente, hard bop, free e suggestioni psichedeliche – scorciando nel contempo il minutaggio della singola composizione. I consueti due brani diventano dunque cinque e un vitalistico impulso latino-funky si insinua, senza che l’empito spirituale si attenui. Esito: uno dei dischi più accessibili del Nostro, oltre che dei più belli.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.214, giugno 2001.

Moon Child (Timeless, 1989)

Naturalmente il Pharoah Sanders indispensabile è quello che fra il 1967 e il 1971, nel mentre agiva anche da complice prediletto della vedova Alice avendo ricoperto in precedenza il medesimo ruolo con l’ultimo John Coltrane, metteva in fila una prodigiosa sequela di pietre miliari su Impulse!: “Tauhid”, “Karma”, “Jewels Of Thought”, “Deaf Dumb Blind”, “Thembi”, “Black Unity”. Capisaldi di un jazz (lo dissero spiritual e l’etichetta è rimasta) inaudito, per un verso in continuità con il Coltrane di “A Love Supreme” e per un altro capace di trascendere il free deviandone l’audacia verso un Oriente dell’anima, impregnandolo di latinismi, rimettendoci dentro l’Africa. Si fosse ritirato allora, appena trentunenne, avrebbe comunque avuto garantito un posto nella storia della musica del Novecento. Non avendolo fatto si è ritrovato, ottantunenne, a pubblicare uno dei dischi più acclamati del 2021, “Promises”, in collaborazione con il dj e produttore in ambito di elettronica Floating Points e registrato con la London Symphony Orchestra.

Benché poi premiato da un Grammy, non veniva salutato con altrettanto entusiasmo nel 1990 “Moon Child”, che nel mentre scontentava i seguaci del Pharoah Sanders avant-garde non riusciva a guadagnarsi i favori del pubblico più tradizionalista. Giocava probabilmente un ruolo negativo in tal senso una distribuzione deficitaria negli USA e la cronica irreperibilità quantomeno in vinile (le copie originali su Timeless, olandese, oggi passano di mano intorno ai centocinquanta euro) ha poi fatto sì che quasi se ne perdesse la memoria. Per una sua doverosa rivalutazione giunge allora provvidenziale questa ristampa su Music On Vinyl, visto che una prima datata 2019 su Tidal Waves era sciaguratamente in tiratura limitata e risultava già esauritissima. Posto che non è di un capolavoro che stiamo parlando, almeno la prima – e omonima, nonché unica autografa – delle sei tracce in programma merita tale qualifica per il suo essere il Pharoah Sanders più cantabile (e difatti è cantato) di sempre: rilassata, sospinta da un basso felpato (Stafford James) e percussioni lievi (Cheikh Tidiane Fale), estremamente solare a dispetto del titolo. Più che degne di nota pure una parimenti rilassata Moon Rays (Horace Silver; in gran spolvero oltre al sax del leader il piano di William Henderson) e la resa ellingtoniana di All Or Nothing At All, cavallo di battaglia di Frank Sinatra.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.444, luglio/agosto 2022.

With A Heartbeat (con Bill Laswell; Douglas, 2005)

A sessantacinque anni – o per meglio dire a sessantatré, ché tanti ne aveva quando realizzò questo disco di cui è circolata (poco) un’edizione su Evolver – ha ancora cose da dire e da dare Pharoah Sanders? La perfida risposta, dopo avere ascoltato “With A Heartbeat”, è: forse sì, ma dovrebbe scegliersi meglio i compagni di strada. Bill Laswell, che pure di anni ne ha parecchi di meno, si è usurato parecchio di più spendendosi troppo e da tempo è un cliché vivente, all’incrocio fra ambient e musiche etniche, hip e trip-hop e (vogliamo dirla una parolaccia? diciamola!) new age. E dire che la collaborazione fra i due ebbe uno splendido inizio, nell’ormai lontano 1996, con quel “Message From Home” in cui il sassofonista, immergendosi in acque africane, ritrovava la verve di un’era aurea collocabile fra i mezzi ’60 e i mezzi ’70 in cui come nessuno a parte Alice Coltrane declinò estatico (definizione di Scott Yanow) “free jazz per le masse”. Tutta un’altra storia un album in cui il suo strumento si muove con grazia rara – qui sognante, là intensissimo, in bei saliscendi emotivi – ma in un contesto che appare artefatto.

Programmatico il titolo: intorno al battito di un cuore, per fortuna manipolato quel tanto che basta da non diventare un’assoluta ossessione, Laswell ha costruito quattro lunghi brani in transito dal raga al dub per tramite di cosmicherie che fanno molto primi ’70, con la collaborazione, oltre che di Sanders, di un altro fiatista, Graham Haynes, e del percussionista Trilok Gurtu. Qualche sprazzo di ispirazione c’è anche, ma più che altro si sonnecchia. Per gli standard del bassista da un lustro in qua non ci si può lamentare, da un disco con su scritto “Pharoah Sanders” ci si sente ancora in diritto di pretendere di più.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 255, aprile 2005.

Promises (con Floating Points e la London Symphony Orchestra; Luaka Bop, 2021)

Il bello di questa collaborazione sulla carta improbabile è che a proporla è stato l’artista di gran lunga più anziano: Pharoah Sanders, classe 1940 e una delle ultime leggende viventi e praticanti del jazz degli anni ’60 e ’70 (allora faceva la Storia; nei due decenni seguenti si è limitato a regalarci altri album bellissimi; tanti). Era costui che, stregato nel 2015 da “Elaenia”, esordio come Floating Points del dj e produttore di musica elettronica britannico Sam Shepherd, classe 1987, lo contattava. Immaginabili stupore ed esaltazione da parte di chi – cresciuto a Debussy e Bill Evans ed ecco che comincia a spiegarsi donde arrivi quanto si ascolta in “Promises” – spesso nelle sue serate aveva proposto a platee a tutt’altri suoni aduse la musica del sassofonista (celeberrimo un set berlinese inaugurato dai venti minuti filati di Harvest Time). Era seduti a tavola che i due decidevano che sì, un disco insieme si poteva fare. Eccolo.

Accolto per un verso con entusiasmo a prescindere da chi lo aveva battezzato un capolavoro forse prima ancora di ascoltarlo e per un altro tiepidamente da chi si aspettava magma e spigoli in luogo di un fluire disteso e incantatorio, “Promises” è suite di tre quarti d’ora in nove movimenti. Su un ricorrente motivo di sette note suonato da Shepherd su varie tastiere si innestano ora il sax tenore di Sanders (nel quarto movimento la voce, invece) con fraseggi talvolta studiatamente timidi e talaltra lunghi e avvolgenti, ora (oppure insieme) gli archi aggiunti a posteriori della London Symphony Orchestra. Si va dal sommesso a solenni crescendo, con il bonus di alcuni squisiti assolo. Più che dalle parti di Coltrane (Alice o John) si sta da quelle di Górecki.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.431, maggio 2021.

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Il grido d’amore di Albert Ayler

1. “…il suono dell’amore apre le porte… È una musica che sembra spiccare il volo, che sana, penetra, squarcia il cielo aperto, rivelando lentamente il volto raggiante dell’Amato”: potrebbe essere uno dei più bei panegirici mai redatti della musica di Albert Ayler. È invece Jeff Buckley che scrive di Nusrat Fateh Ali Khan apprestandosi a intervistarlo. Non passerà che un anno e mezzo e intervistatore e intervistato saranno morti. Il primo, troppo giovane, annegato nelle luride acque del Wolf River, a Memphis.

“La musica che suono è una lunga preghiera, un messaggio che viene da Dio”: potrebbe essere Nusrat Fateh Ali Khan che dice di sé al giovane Buckley. È invece Albert Ayler che parla e l’anno è il 1966. Il 25 novembre 1970 il suo corpo, in pessime condizioni per i venti giorni di permanenza in acqua, sarà ripescato in quella fogna a cielo aperto che è l’East River, a New York. La sua scomparsa ebbe un’eco debole. Un articoletto su “Downbeat”, la bibbia jazz che sovente lo aveva snobbato. Un più adeguato ricordo di Ralph J. Gleason su “Rolling Stone”. Poco altro. Uno dei musicisti più importanti di questo secolo se ne andava in silenzio; giusto alcuni intellettuali neri percepirono la portata devastante dell’evento. Nelle quasi tre settimane in cui era stato irrintracciabile, della sua sorte si erano preoccupati solo la sua donna, suo padre e il fedele pianista Call Cobbs. Toccò agli ultimi due riconoscere i poveri resti.

Ventotto anni dopo il mistero circonda ancora le circostanze della morte di Albert Ayler. Si diffusero voci fantasiose al tempo. Che fosse stato trovato legato a un jukebox. Che lo avesse fatto fuori l’FBI, come parte di un complotto mirante a distruggere la cultura antagonista afroamericana che già aveva avuto fra le sue vittime Eric Dolphy, John Coltrane e Jimi Hendrix, oltre naturalmente a Martin Luther King e a Malcolm X. Che lo avesse ucciso la mafia per saldare il conto di una partita di droga non pagata.

Lasciata la tesi cospirazionista a qualche futuro telefilm di Chris Carter, non sembra per niente plausibile che la morte del sassofonista sia legata a storie di droga, dacché è ragionevolmente certo che non abbia mai fatto uso di cocaina o di eroina. Pare tuttavia appena meno incredibile quella che è probabilmente la verità: che, semplicemente, si suicidò. Una fine in drammatico contrasto con un’esistenza votata a un sentimento religioso prossimo al misticismo. Fanno fede parecchi dei titoli autografi del suo repertorio: Spiriti, Profezia, Spirito Santo, Sacra Famiglia, Angeli, Gesù, La nostra preghiera, Luce nell’oscurità, Casa celestiale, Rinascita spirituale, La collina di Zion. Quanto doveva essere disperato per lanciarsi in quelle acque limacciose! Il suo mentore, John Coltrane, non era più di questo mondo; la sua casa discografica, la Impulse!, lo aveva scaricato; suo fratello Donald aveva superato il sottile confine che separa la sanità mentale dalla follia; e lui a trentaquattro anni, dopo otto di dischi e concerti, non aveva di che mantenersi.

Mary Parks, che ne fu la compagna negli ultimi anni, nel 1983 tentò di spazzar via le congetture sulla tragica fine di Ayler parlandone con un ricercatore discografico. A sentir lei, il sassofonista era depresso per la situazione in cui si trovava il fratello e per le accuse che gli muoveva la madre di esserne responsabile e già da qualche tempo vagheggiava il suicidio. La sera del 5 novembre 1970, dopo un alterco domestico, fracassò uno dei suoi strumenti sul televisore e uscì di casa di corsa. Prese il traghetto per la Statua della Libertà e in prossimità di Liberty Island si buttò in acqua. Tutto qui. Fine del mistero?

Comunque sia morto, una cosa è certa: Albert Ayler è morto per i nostri peccati.

2. Ho comprato il mio primo disco di Albert Ayler non più tardi di tre anni or sono, una copia americana del doppio “The Village Concerts” “tagliata” e sigillata, buttata fra un Iron Maiden e un Olivia Newton-John su una bancarella, al prezzo di una Coca Cola in un McDonald. Annoiato da oltre tre lustri di frequentazione con il rock mi stavo accostando al jazz, con il quale in precedenza avevo avuto rapporti soddisfacenti ma saltuari, partendo naturalmente dai suoi eretici, quelli sui quali i jazzofili DOC (razza schifosa) hanno sempre sputato sopra, salvo poi chiedere scusa: il Miles Davis elettrico, Sun Ra, John Coltrane, Don Cherry, Ornette Coleman. Mi mancava Ayler per chiudere il quadrilatero sui cui lati restanti erano posizionati questi ultimi tre, che sapevo avere avuto a che fare con lui in varie maniere. Fatto risorgere da John Lurie in “The Resurrection Of Albert Ayler”. Citato di continuo nelle interviste da John Zorn e dai Sonic Youth. Idolatrato da Henry Rollins che nell’autunno del 1990, ospite di una radio studentesca californiana, aveva diffuso nell’etere per oltre mezz’ora la sua musica. Mi portai a casa “The Village Concerts”. Fu amore.

Non subito, e del resto raramente i grandi amori partono con il piede giusto. Se oggi l’universo ayleriano è un luogo familiare ove mi è gratificante aggirarmi riconoscendo corsi e ricorsi, ricavandomi cantucci nei quali crogiolarmi al tepore di un’inedita rivelazione, l’approccio fu difficoltoso. Questione di sovraccarico sensoriale. Appena dischiusa la porta, vieni travolto da un profluvio di ritmi insieme rozzi e sofisticati e di melodie che sembrano andare ciascuna per proprio conto. Ci vuole un po’ perché l’insieme acquisisca un senso e si scopra che vi è molto metodo in questa apparente follia. Diceva Picasso che da bambino disegnava come Raffaello e gli ci era voluta tutta la vita per imparare a disegnare come un bambino. Sassofonista fra i più dotati tecnicamente di sempre, il Nostro studiò quasi vent’anni per imparare ad approcciarsi al suo strumento in tale maniera. I critici jazz, stupidini, definirono il suo stile “primitivo”. Coltrane la pensava diversamente.

Prosegue per altre 19.434 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.6, luglio/agosto 1998. Albert Ayler suonava per l’ultima volta dal vivo il 27 luglio 1970, a St. Paul de Vence, Francia.

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Duke Ellington a Newport – La classica del Novecento

Nella lunga e straordinaria vicenda artistica di Duke Ellington fra le molte migliaia di performance dal vivo nessuna è celebre quanto quella che tenne con la sua big band il 7 luglio 1956, nella cornice della terza edizione dell’“American Jazz Festival”, a Newport. Celebre e cruciale, visto che una carriera in declino ne veniva portentosamente rivitalizzata, da lì a un mese e mezzo il nostro uomo addirittura si ritrovava sulla copertina di “Time” e prendeva a materializzarsi il miracolo di un gigante del jazz capace nei suoi anni più tardi, se non di essere rilevante come in gioventù, di scrivere un’infinità di pagine almeno altrettanto memorabili.

L’album che veniva prontamente ricavato da quella notte di magia è sin dall’uscita e unanimemente ritenuto fra i più classici nell’ambito, nomea di assoluto capolavoro sopravvissuta allo sconcerto che coglieva studiosi e appassionati nel 1996, alla scoperta (a quarant’anni esatti dall’evento) negli archivi della Voice Of America di un nastro che dimostra inequivocabilmente che uno dei più famosi live di sempre live lo è al massimo al 40%. Ricreato insomma per la più parte in studio, a causa di vari problemi tecnici che rendevano inutilizzabile in momenti topici la registrazione in mano alla Columbia. Ma ci importa poi davvero qualcosa di sapere che gli applausi sono posticci e qualche pur epocale assolo venne rifatto perché un microfono era sfortunatamente spento? Conta la qualità in ogni caso eccezionale di un jazz ruggente e raffinatissimo, swingante e melodico, di rado tanto vicino come in questi tre quarti d’ora a farsi la vera musica classica del Novecento.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.347, ottobre 2013.

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Brother Genius ─ Un ricordo di Ray Charles

Leggenda vivente ma poco praticante almeno dall’esilarante cameo datato 1980 in Blues Brothers, dove veste i panni di un venditore di strumenti musicali, l’artista georgiano ha caratterizzato i suoi anni ’80 e ’90, dopo che già i ’70 non erano stati memorabili, con album commerciali nel senso più deteriore del termine e una lunga serie di comparsate in dischi di gente non alla sua altezza, da Billy Joel agli INXS, dai Take 6 a Barbra Streisand. Di tutto ciò ha pagato il fio proprio venendo invece sottovalutato, vedendo la sua figura spostarsi da quel centro della scena che gli spetterebbe in rievocazioni di assieme del soul sulle quali la miseria dell’evo moderno pesa più di quanto dovrebbe. Non essendo scomparso anzitempo come Cooke o Redding, essendo la memoria delle sue imprese meno fresca di quelle nel bene e nel male congiurate da James Brown, non avendo vissuto seconde giovinezze né tantomeno potendone vantare una terza come Burke o magari una quarta come i Blind Boys Of Alabama, perché il mondo si ricordi perché venne chiamato The Genius può scegliere: potrebbe confezionare un suo ‘Don’t Give Up On Me’, o morire.

Mai stato così (involontariamente) tempestivo, “sulla notizia” come si suol dire, in ventidue anni di onorata carriera: da me scritte sul finire del 2003, in una trattazione sui classici di soul e rhythm’n’blues, queste righe diventavano di pubblico dominio nella seconda settimana di giugno dell’anno successivo, quando il volume suddetto andava in libreria. Sapete quando è morto Ray Charles? Il 10 giugno 2004. Inevitabile che alla luttuosa nuova un’agra risata mi salisse alle labbra. Da allora ho scoperto di essere stato anche più preveggente di quanto non mi fosse parso sul subito: non solo con il postumo “Genius Loves Company”, registrato in circostanze drammatiche mentre la malattia incalzava, il nostro eroe ha scalato le classifiche, come non succedeva da parecchio, ma il film che ne racconta la straordinaria vita ha raccolto notevolissimi consensi sia di critica che di pubblico negli Stati Uniti e in tanti lo prevedono fra i protagonisti della corsa agli Oscar. Vedremo. Per intanto le ovazioni per l’ultimo sforzo (davvero) di Brother Ray più riascolto il disco, uscito in settembre, e più mi lasciano perplesso: decisamente, non un “Don’t Give Up On Me” (l’inatteso capolavoro che nel 2002 rilanciò Solomon Burke). Un album che commuove, questo sì, registrato da un uomo che se ne sta andando ma ancora c’è. Ti fa salire un groppo in gola sentire una delle voci più inconfondibili di sempre ridotta a un filo costantemente sul punto di spezzarsi, prevaricata, senza che probabilmente nessuno di costoro lo volesse, dalla folla di ospiti convocata per una collezione di duetti, di solito il trucco finale (ciao, Old Blue Eyes) di chi non ha più nulla da dire. Se la freschezza di Norah Jones ha la meglio in una Here We Go Again cui dona innocenza ineffabile, Elton John domina totalmente una Sorry Seems To Be The Hardest Word che resta la più soulful delle sue creazioni, Bonnie Raitt fa piangere e pungere magistralmente la slide in Do I Ever Cross Your Mind? e fra i tanti persino quell’altro defunto per ora in metafora di Van Morrison fa la sua porca figura al confronto, come non gli accadeva da ere giurassiche, riesumando Crazy Love. Ma il disco non sarebbe stato (oltre che un sì grande successo mercantile) indimenticabile ─ carino, al massimo ─ nel senso giusto del termine nemmeno con il padrone di casa al top, figurarsi così, spettacolo patetico, imbarazzante, che fa pornografia della morte e rende furiosi per il cinismo di uno showbiz prontissimo a monetizzare l’emozione per l’uscita di scena di un gigante. Soltanto un brano dei dodici in programma giustifica appieno, artisticamente, la sua esistenza ed è Sinner’s Prayer, blues energico ed elegante in cui trilla la chitarra di B.B. King e le mani di Ray Charles corrono sulla tastiera come ai tempi belli, evidentemente non ridotte dal cancro ai minimi termini come le corde vocali.

Ma forse no, forse sbaglio tutto, forse non ho capito niente. Il film era in lavorazione da molto prima che il male (che ha progredito velocemente) si manifestasse ed è una coincidenza ─ fortunata o sfortunata, fate voi ─ che sia uscito a tragedia compiutasi. Magari, gli applausi sarebbero stati lo stesso scroscianti. E quanto all’album c’è un altro modo di vederlo: un supremo sforzo di volontà di un uomo che nell’ultima uscita pubblica, lo scorso aprile (l’occasione la proclamazione degli studi al 2107 di West Washington Boulevard, Los Angeles, in cui ha lavorato per decenni a monumento storico), portato sul podio per il discorso di ringraziamento su una sedia a rotelle, dopo qualche frase di circostanza ha raccolto le energie residue per dire agli astanti che “sono debole, ma mi sto rimettendo in forze”. Ray Charles è morto come ha vissuto: rifiutando di arrendersi a una sorte oltraggiosa. Ha cantato e suonato finché non ne ha avuto più e in ogni caso “Genius Loves Company” è nella media, non fenomenale, delle produzioni dell’ultimo trentennio. Forse, lievemente sopra.

Prosegue per altre 27.729 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.81, febbraio 2005. Ricorre oggi il diciottesimo anniversario della scomparsa dell’artista.

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Oltre il jazz – Il multiforme genio di Yusef Lateef

Curioso e attivo fino all’ultimo Yusef Lateef (identità assunta quando si convertiva all’Islam, ventenne): ci lasciava nel 2013 novantatreenne avendo pubblicato il primo disco da leader cinquantasei anni prima e fino al 2010 ancora frequentava gli studi di registrazione. Mai gli piacque venire sistemato alla voce “jazz” ma tant’è, del jazz è stato uno dei giganti, sia come compositore che in quanto polistrumentista. Sax tenore e flauto gli strumenti di cui era un indiscutibile maestro ma, per dire, in questo “The Blue Yusef Lateef”, uscito nel 1968 su Atlantic e fresco di ristampa su Speakers Corner, suona anche tamboura, koto e shannie (qualunque cosa sia; una ricerca su Google non mi ha illuminato al riguardo). E poi dove metterlo? Quello il filone principale cui si richiamava in un composito canone che lo vide trarre ispirazione, in anticipo su chiunque fra i musicisti afroamericani e non solo, da assortite tradizioni etniche come dalla classica, occidentale e non, pescando ovunque in giro per il globo decenni prima che qualcuno si inventasse l’etichetta “world music”. World o ethno-jazz, allora? Eh, la fate semplice voi…

Prendete ad esempio proprio questo album, uno dei più godibili in un catalogo sterminato che ne comprende molte decine. Su otto brani tre – Othelia, Six Miles Next Door e Sun Dog – sono dei blues in dodici battute. Ma proprio come ne avreste potuto sentire suonati in un club di Chicago in quel decennio o nel precedente. Il primo (l’armonica di Buddy Lucas sugli scudi) è decisamente indiavolato, il secondo più misurato, il terzo avvolgente, con delle parti di fiati che potrebbero arrivare da un disco coevo della Stax. Nondimeno: pure Get Over, Get Off And Get On è un blues, ma modale e influenzato (dice lo stesso artefice nelle dettagliatissime note di copertina) da Johann Sebastian Bach. E anche (propulso da un basso preso di peso da My Girl dei Temptations) Like It Is, però in sedici battute e con una melodia marcatamente orientaleggiante, laddove Juba Juba profuma di gospel e rielabora una “prison song”. Ascoltate Back Home. Parrebbe un samba con qualche influsso afrocubano, giusto? Lateef ci spiega che la sua forma deriva dal barocco! Quanto a Moon Cup, gira fra exotica e psichedelia. E allora? E allora un album meraviglioso, uno dei tanti regalatici da costui.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.421, luglio 2020.

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I migliori album del 2021 (8): Emma-Jean Thackray – Yellow (Movementt)

I jazzofili possono pure arricciare i loro preziosi nasini, ma senza l’opera divulgativa diversamente svolta su questa e quell’altra sponda dell’Atlantico da Shabaka Hutchings e Kamasi Washington, e da una pattuglia sempre più folta di colleghi che ne sfruttano la scia, la musica che amano di un amore spesso malinteso avrebbe continuato ad abitare il nostalgico ghetto in cui era rinchiusa da decenni. E invece no. Sempre più giovani vanno (ri)scoprendola e non si spiegherebbero se no l’età media vistosamente calata ai concerti, certe platee di consistenza numerica sorprendente, la recuperata aurea di coolness intorno a un genere ultracentenario e la misura in cui sta infiltrando territori nemmeno troppo limitrofi. Non si spiegherebbe come questo esordio lungamente preparato (un poker di EP lo ha preceduto fra il 2016 e il 2020) della polistrumentista inglese Emma-Jean Thackray (“a volte mi chiedo se una ragazza bianca nativa dello Yorkshire abbia o no il diritto di esprimersi con una sintassi e un vocabolario così intimamente afroamericani”, si domanda marzullianamente dandosi poi per fortuna la risposta giusta) oltre ad andare al numero uno della classifica jazz UK sia salito fino alla seconda piazza di quella indie.

Oltre e più che commerciale, “Yellow” è in ogni caso un trionfo artistico per una figura esemplare – allieva di Keith Tippett ma a tempo (non tanto) perso pure dj – di una nuova generazione che non conosce steccati. Gioca a rimpiattino fra la tradizione bandistica di New Orleans e il soul, fra fusion e psichedelia, rievoca Alice Coltrane come il Roy Ayers o l’Herbie Hancock che si arrendevano al funk, si concede scorci cinematografici ed empiti spiritual, va in gita in Brasile e fa afrobeat Sun Ra. Magnifico.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.434, settembre 2021.

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