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Talkin’ All That Jazzmatazz (un omaggio a Guru)

“Quando ideai il progetto avevo già notato da tempo come un sacco di dj andassero alla ricerca sia di frasi melodiche che di break ritmici da riprendere in vecchi dischi jazz. Magnifico, veramente cool, e però io intendevo portare a un livello superiore il connubio fra i due generi musicali. Convocai allora alcuni di quegli stessi strumentisti per farli suonare di persona in un contesto hip hop. Invitai anche dei rapper e delle cantanti soul. Voleva essere solo un esperimento, ma in studio mi resi presto conto che ciò che stava venendo fuori sarebbe passato alla storia”: così l’artista nato Keith Edward Elam il 17 luglio 1961 raccontava la genesi di “Jazzmatazz Volume 1”, edito su Chrysalis il 18 maggio 1993 e si noti come il titolo annunciasse, e così sarà, che quella che il sottotitolo dichiarava essere “an experimental fusion of hip-hop and jazz” era solamente all’inizio. Un seguito arriverà nel ’95, un terzo capitolo vedrà la luce nel 2000, un quarto nel 2007, coinvolgeranno altri nomi altisonanti e pur senza eguagliarne né le vette né naturalmente l’impatto saranno tutto sommato all’altezza del prodigioso capostipite. Era il 2009 quando Guru rilasciava l’intervista da cui viene la citazione. Se ne andava il 19 aprile dell’anno dopo e tanto più addolorava la prematura dipartita perché accompagnata da una lettera testamentaria (apocrifa? la famiglia la ritiene tale) in cui lo scomparso attaccava con una vis polemica da togliere il fiato colui che per quasi due decenni era stato il suo sodale nei Gang Starr, Christopher Edward Martin, leggenda per fortuna ancora vivente con l’alias DJ Premier. Che non replicava. Dettagliare ulteriormente non è il caso e non solo perché, dato il contesto, risulterebbe inappropriato. Laddove con più ampi spazi sarebbe stato viceversa bello e utile illustrare adeguatamente come i 44’06” di un disco epocale rappresentassero sia un approdo che un punto di partenza. Esaltato dalla critica, l’album faceva numeri più che discreti ma lontani da quelli che a cavallo fra quello stesso anno e il successivo totalizzeranno i britannici US3 citando estesamente Herbie Hancock in Cantaloop, brano di apertura di “Hand On The Torch”. Su Blue Note, ossia per l’etichetta che “Jazzmatazz” omaggia sin dalla copertina. Tocca far di necessità virtù riducendo all’essenzialissimo il riassunto delle puntate precedenti di un incontro con i crismi dell’inevitabilità i cui prodromi più lontani possono essere fatti risalire addirittura ai tardi anni ’40: a Joseph Deighton Gibson Jr., conduttore radiofonico afroamericano di vasta popolarità noto come ─ udite udite ─ Jack the Rapper. O se no agli anni ’70 era aurea di Gil Scott-Heron: inarrivabile poeta che porgeva le sue rime su spartiti cui il jazz concorreva almeno nella stessa misura di soul e funk. O, come minimo, al 1989.

Nel debutto dei Gang Starr “No More Mr. Nice Guy” la seconda traccia è intitolata Jazz Music. L’ottava è un remix di Words I Manifest, pezzo già uscito in precedenza su un 12” e basato su Night In Tunisia di Dizzy Gillespie. Lì Guru e DJ Premier passano dalle parole ─ l’anno prima Talkin’ All That Jazz, brano incluso nel secondo album degli Stetsasonic “In Full Gear”, ha esplicitato una tendenza evidentemente in atto ─ ai fatti. Saranno in molti a seguirli ma non subito, anche perché il disco vende modestamente. Capita però che fra gli acquirenti ci sia Spike Lee, che gradisce al punto da ingaggiarli per la colonna sonora di Mo’ Better Blues. Jazz Thing, una collaborazione con Branford Marsalis, è il brano che la illumina e segnerà una svolta decisiva nella carriera di Guru e Premier, da qui in poi un mito che miracolosamente non deluderà mai, confezionando un capolavoro via l’altro, a partire dal ’91 e da “Step In The Arena”, quasi un secondo esordio. Anno cruciale quello: i canadesi Dream Warriors segnano una clamorosa doppietta con My Definition Of A Boombastic Jazz Style e Wash Your Face In My Sink, in cui riprendono rispettivamente Quincy Jones (Soul Bossa Nova) e Count Basie. Tristemente al passo di addio, Miles Davis nel a dire il vero non granché riuscito “Doo-Bop” affida la produzione a Easy Mo Bee. Ron Carter si fa complice del favoloso “The Low End Theory” degli A Tribe Called Quest ed è ulteriore eloquente certificazione di come, mentre il pubblico del jazz schifa la nuova black, i musicisti ne siano al contrario intrigati. Nel ’92 i veterani Eric B & Rakim ricorrono ai servigi di un contrabbassista non accreditato nel colossale “Don’t Sweat The Technique”, con il quale sfiorano i Top 20 USA. Nel ’93 gli invece debuttanti Digable Planets vanno al numero 15 con “Reachin’ (A New Refutation Of Time And Space)”, in cui campionano Don Cherry, Sonny Rollins, Art Blakey, Herbie Mann, Herbie Hancock, Grant Green e Rahsaan Roland Kirk. Quanto ai De La Soul, in “Bulhoone Mindstate” riciclano Eddie Harrison, Lou Donaldson, Duke Pearson e Milt Jackson e ospitano Maceo Parker.

Insomma: dichiarando “Jazzmatazz” un esperimento Guru un pochino barava, ma giusto un po’. Ormai maturi i tempi, fu grazie a quest’album che una pur minoritaria parte della platea di cui sopra se non si convertiva tout court all’hip hop quantomeno maturava per esso del rispetto. Prima fidandosi di un parterre de rois comprendente il trombettista Donald Byrd, i sassofonisti Courtney Pine e Gary Barnacle, il vibrafonista Roy Ayers, il pianista Lonnie Liston Smith, i chitarristi Ronny Jordan e Zachary Breaux (oltre alle cantanti Carleen Anderson, N’Dea Davenport e DC Lee). Poi arrendendosi a dieci tracce dallo swing e soprattutto dal groove irresistibili e tracimanti classe da ogni solco. A propositi di solchi: non più disponibile il meraviglioso box Capitol/Universal del 2018 che al programma originale aggiungeva un LP di strumentali e uno di bonus, chi non provvisto volesse avere “Jazzmatazz Volume 1” sul più nobile dei supporti può da qualche mese rivolgersi a un’ottima stampa dell’olandese Music On Vinyl. Chi scrive raramente ha riscontrato una differenza così marcata fra un’edizione in CD e una in vinile di un disco. Il secondo offre una scena sensibilmente più aperta, con molta più aria fra strumenti e voci.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.448, dicembre 2022. Ricorre oggi il quattordicesimo anniversario della prematura scomparsa di Guru.

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Confessin’ The Jazz – Joni Mitchell dopo “Blue”

Una delle più grandi storie di successo negli annali dello showbiz comincia un imprecisato giorno del 1971, quando un allora ventottenne David Geffen tenta invano di convincere Ahmet Ertegun a mettere sotto contratto per la Atlantic il ventiduenne Jackson Browne. “Sfonderà, ci farai un sacco di soldi”, si accalora, e resta spiazzato quando Ertegun gli replica ineffabile di essere ricco a sufficienza. Leggendaria figura di discografico dal fiuto formidabile con la propensione però a far prevalere l’amore per la musica su qualunque considerazione di ordine commerciale, non è che quanto ha ascoltato non gli sia piaciuto. Solo che ritiene che un così limpido talento potrebbe essere promosso meglio da un’etichetta dedita specificamente a quel tipo di materiali. Di Geffen, che nonostante la verde età vanta un cv impressionante, manager di Laura Nyro e CS&N fra il resto, ha molta stima. “Perché non ce li fai tu un sacco di soldi? Fonda un’etichetta.” Il giovanotto non ci penserà su più di tanto. La Asylum (nome programmatico per chi per i suoi artisti intendeva creare una casa che fosse innanzitutto accogliente) entro fine anno avrà già pubblicato un paio di LP e che si badasse alla qualità più che al fatturato è testimonianza inequivocabile che a firmarli erano David Blue e Judee Sill. Jackson Browne dovrà aspettare il gennaio dell’anno dopo, alla lunga ripagherà ampissimamente la fiducia ma prima di lui saranno gli Eagles (messisi insieme su istigazione proprio di Geffen) a fare scampanellare a festa i registratori di cassa. Loro e Joni Mitchell. Il nostro uomo ha sempre dichiarato che fondò sì la Asylum per Browne e però soprattutto con l’intenzione di eleggerne a vessillifere la Nyro e (scippandola alla Reprise) Joni Mitchell. Sfortunatamente (la dice la delusione più cocente della sua vita) la prima si defilerà. La seconda no.

Nel momento in cui stringe con il di poco più anziano (nove mesi) David un sodalizio che sarà ventennale la stella della Mitchell brilla da un paio di anni altissima nel firmamento del cantautorato nordamericano e diffondendo una luce tutta sua, inconfondibile. Dopo il mezzo inciampo di un esordio, “Song To A Seagull” (marzo 1968), apparentemente acerbo quando in realtà Joni già aveva scritto una manciata di classici distribuendoli a Judy Collins come a Dave Van Ronk, a Tom Rush e ai Fairport Convention e per di più involontariamente danneggiato dalla produzione dell’amico e mentore David Crosby, ha aggiustato il tiro pur rimanendo in un ambito di folk austero (in scaletta persino un pezzo a cappella) con il nettamente più solido “Clouds” (maggio 1969) e con “Ladies Of The Canyon” (aprile 1970) ha svoltato pop pur continuando ad affidarsi a una strumentazione acustica, perlopiù accompagnandosi da sola, alla chitarra o al piano. Primo suo capolavoro e pietra d’angolo del canone che sarà detto “confessionale”, il disco si congeda infilando una via l’altra Big Yellow Taxi, una hit a 45 giri, l’inno generazionale Woodstock e The Circle Game, che nell’intero catalogo dell’artista (canadese di nascita, californiana di adozione) resterà l’articolo di più deliziosa, epidermica cantabilità. Sistemata altissima l’asticella, con “Blue” (giugno 1971) l’ha scavalcata in prodigiosa scioltezza non solo senza nulla concedere in orecchiabilità ma anzi vergando spartiti più sfuggenti a supporto di testi come non mai a cuore aperto, sanguinante spesso. Critica in visibilio ─ e ci sta, e ci mancherebbe ─, ciò che stupisce in questa storia raccontandola oggi è che “Blue” raddoppiava gli incassi del ben più accessibile predecessore, andando al numero 15 negli Stati Uniti, al 3 in Gran Bretagna. Erano davvero altri tempi. O anche no: la ristampa, rimasterizzata ma senza bonus, che nel 2021 ne celebrava il cinquantennale nella settimana dell’uscita risulterà il CD più venduto su Amazon e l’album più scaricato su iTunes.

Vuoi perché si tratta di un’edizione limitata, vuoi perché non è esattamente economico (aspettatevi di pagarlo fra i 170 e i 180 euro, ossia fra i 34 e i 36 euro a disco), non si è prodotto in un’analoga benché analogica performance il cofanetto “The Asylum Albums (1972-1975)”, edito qualche mese fa dalla Rhino e contenente (sicché c’è da aspettarsi un secondo volume dedicato al quadriennio ’76-’79) esattamente metà di quanto Joni Mitchell pubblicò per l’etichetta, vale a dire tre lavori in studio e un doppio live. Se li si potesse acquistare separatamente quest’ultimo sarebbe soltanto per i cultori di più stretta osservanza desiderosi di sostituirlo o affiancarlo all’usurata copia d’epoca. Illo tempore un campione al botteghino (nella classifica di “Billboard” saliva fino al secondo posto), “Miles Of Aisles” (novembre 1974; registrato fra il marzo e l’agosto precedenti) è invecchiato così così, appesantito dagli scambi con l’adorante platea e con i pur fenomenali musicisti che vi affiancano la titolare che si limitano all’elegante compitino, laddove ben superiore pathos evidenziano i brani in cui costei ne fa a meno. Non mostrano al contrario manco una ruga “For The Roses” (novembre 1972), “Court And Spark” (gennaio 1974) e “The Hissing Of Summer Lawns” (novembre 1975). Impossibile una replica di “Blue”, in luogo di imboccare la via più facile per consolidare la propria fama tornando alla vivacità e relativa linearità melodica di “Ladies Of The Canyon”, o in alternativa fare qualche passo verso il rock (la coda di Blonde In The Bleachers mero divertissement), la Mitchell nel debutto per Geffen prendeva piuttosto a flirtare con il jazz. Moderatamente e concedendo graziosamente all’etichetta il singolo che le era stato chiesto con una spumeggiante You Turn Me On, I’m A Radio, l’ex-fidanzato Graham Nash a soffiare alla Dylan in un’armonica. La svolta si perfezionerà con il disco dopo e come per “Blue” lascia stupefatti che anche “Court And Spark”, opera assolutamente incompromissoria al netto di una spumeggiante Help Me, di una Car On The Hill che è quasi una seconda Woodstock e del rock’n’roll simil-Springsteen Raised On A Robbery, vendette assai: un numero 2 USA, addirittura. Doppio platino, certifica la Recording Industry Association Of America. Sofisticatissimo e parimenti ma diversamente stupendo “The Hissing Of Summer Lawns” sarà “solo” oro e un numero 4: comunque da non crederci, riascoltandolo.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.451, marzo 2023.

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Ancora fuori per pranzo (per Eric Dolphy)

In una copertina iconica almeno quanto era e resta rivoluzionaria la musica del disco che contiene è un particolare che a uno sguardo distratto potrebbe non essere colto subito: il cartello esposto nella vetrina a fianco della porta chiusa di un negozio annuncia che il proprietario “will be back”, tornerà, presumibilmente da lì a breve, ma il simulacro di orologio sotto la scritta che dovrebbe precisare l’ora del rientro non ha le usuali due o al più tre lancette (per quanto la terza già sarebbe superflua non trattandosi che dell’immagine di un oggetto atto a misurare il tempo e non dell’oggetto stesso). Sono sette, immagine che si presta a una quantità di interpretazioni. Potrebbe tornare fra cinque minuti, un’ora, due o mai chi si è lasciato dietro una così surreale comunicazione. Forse l’attesa del cliente fuori si prolungherà all’infinito. In una dichiarazione rilasciata ad A.B. Spellman, il critico che di lì a qualche anno sarà ben più noto come attivista politico, organizzatore di eventi e poeta che firmò le note di copertina originali di “Out To Lunch!” il titolare dell’album Eric Dolphy annunciava: “Mi appresto ad andare a vivere in Europa per un po’. Perché lì le opportunità di suonare ciò che suono sono maggiori. Ma anche perché, diversamente che in questo paese, se provi a fare qualcosa di altro da ciò che è comunemente accettato la gente ascolta, non ti attacca per partito preso”. Dolphy parlava poco prima o dopo il fatidico 25 febbraio 1964 in cui in una manciata di ore (presso il Van Gelder Studio di Englewood Cliffs, New Jersey, e con la supervisione di Alfred Lion) erano state eternate le cinque tracce per un totale di quarantadue minuti (il recupero nel 2018 su un CD giapponese di due versioni sostanziosamente alternative smentirà la leggenda, propagata da alcuni dei musicisti stessi, di un LP inciso praticamente per intero in diretta e con una singola take per brano, in larga parte improvvisando, in minor misura seguendo degli spartiti che si erano ritrovati sui leggii) che danno vita a quello che per Dolphy era il sesto 33 giri da leader (ottavo contando due live) ma, per la Blue Note, il primo. Non ce ne sarà un secondo. Il fiatista e compositore losangeleno partiva in effetti subito dopo per il Vecchio Continente come parte del Charles Mingus Sextet e, ultimato il tour, rimediava alcune date in proprio. Il 27 giugno si esibiva a Berlino Ovest e proprio durante il concerto collassava. Ricoverato in ospedale gli veniva diagnosticata una grave forma di diabete della quale ignorava di soffrire. Moriva due giorni dopo per shock insulinico. Aveva compiuto trentasei anni una settimana esatta prima. L’ipotetico cliente davanti al negozio di cui sopra ancora lo aspetta. E cinquantasette anni dopo il jazz ancora fa i conti con un album come mai se n’erano uditi di siffatti. Ancora si interroga, senza potersi dare risposte, su quanto differente sarebbe stata la sua evoluzione se Eric Dolphy non se ne fosse andato via tanto prematuramente. Nemmeno ebbe la soddisfazione di vederlo uscire, “Out To Lunch!”, che la prestigiosa etichetta newyorkese pubblicava in agosto. Suscitando enorme scalpore.

Già metà dello spazio a disposizione se n’è andata e dunque tocca comprimere in poche righe gli antefatti. Limitandosi ad annotare che Dolphy entrava per la prima volta ventenne in una sala di incisione nel 1948 come componente dell’orchestra di Roy Porter, collaborava con costui fintanto che non veniva arruolato nell’esercito e dopo il congedo faticava assai e a lungo per trovare qualcuno che lo facesse lavorare. Gli dava infine una chance nel 1958 Chico Hamilton ingaggiandolo per il suo quintetto. L’anno dopo si trasferiva a New York e tutto cambiava. Promosso a sorta di braccio destro da Mingus, figurava in dischi di Ron Carter, John Lewis, Ted Curson, Abbey Lincoln, Booker Little, Oliver Nelson, Max Roach, Gunter Schuller, Mal Waldron, per limitarsi ai principali. Ma, soprattutto, giocava ruoli importanti nell’epocale “Free Jazz” di Ornette Coleman e negli appena meno seminali “Olé”, “Africa/Brass” e “Impressions” di John Coltrane. Quanto agli LP da titolare: “Outward Bound”, “Out There”, “Far Cry” e “Conversations” (usciti uno per anno fra il ’60 e il ’63) sono notevoli, e già sarebbero stati sufficienti a riservargli un posticino nella storia del jazz, ma rispetto alla pietra miliare oggetto di questa pagina fanno la figura di poco più che esercizi preparatori. Naturalmente contò parecchio l’eccezionalità della squadra convocata a dare manforte a Dolphy, sassofonista, flautista e clarinettista formidabile: dream team schierante Freddie Hubbard alla tromba, Bobby Hutcherson al vibrafono, Richard Davis al contrabbasso (suonato all’occasione pure con l’archetto) e alla batteria l’enfant prodige Anthony Williams. Pare telepatico il dialogo fra gli strumentisti nei tre pezzi della prima facciata e nei due che occupano la seconda disegnando paesaggi sonori inediti, inauditi: Hat And Beard dedica a Monk in 5/4 che si trasformano in 9/4 non appena il gruppo è presente al completo, tema storto da marcetta con vibrafono rarefatto, clarinetto basso schizzato, contrabbasso flessuoso e batteria che spinge ed energizza; Something Sweet, Something Tender, unica ballata ma in qualche ineffabile modo altera quanto il resto; Gazzelloni, omaggio al celeberrimo flautista italiano perfettamente costruito per lo spazio di tredici battute prima che ci si slanci in un “liberi tutti” in cui vibrafono e batteria rispondono colpo su colpo, in stile free, a una tromba che vorrebbe viceversa restare ancorata al canone bebop; la lunga traccia omonima nella quale Davis e Williams paiono andare ciascuno per proprio conto (eppur si parlano) e il sax tiene parimenti sotto controllo una frenesia, un’apparente schizofrenia proto-ayleriane; e infine Straight Up And Down, ispirata a Dolphy dal barcollante incedere di un ubriaco e appropriatamente ondeggiante con swing e subitanei scatti nervosi. Riassumerà bene un critico quasi quarant’anni dopo: qui viene applicata per la prima volta la (non) regola sulla quale i Weather Report costruiranno una carriera, ossia “chiunque è in assolo in qualunque momento”.

Fenomenale anche a livello di incisione, “Out To Lunch!” è stato appena ristampato in vinile, nella versione stereo, dalla casa che lo editò al tempo. Vale la pena di segnalare che è messo in vendita a 25 euro, quando vergognosamente te ne chiedono ormai regolarmente dai trenta un su per dischi nuovi masterizzati male e pressati peggio.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.436, novembre 2021. Ricorre oggi il novantacinquesimo anniversario della nascita dell’artista.

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Il magico 1968 dell’ippogrifo Pentangle

Registrato nell’autunno 1968 e pubblicato nel gennaio dell’anno dopo “Birthday Blues” resterà per due anni e mezzo l’ultima prova da solista di Bert Jansch, a quell’altezza occupato a tempo pieno dall’avventura Pentangle. Ha ragione Richie Unterberger quando osserva che è un po’ come ascoltare i Pentangle ma in una versione sbilanciata, con la ritmica consuetamente lì storta e là swingante ma senza la seconda chitarra a contrappuntare quella che da sola si prende il proscenio e senza la voce femminile tanto caratterizzante e, oggettivamente, infinitamente più suggestiva. Non è la migliore prova dell’autore né da solista né in un contesto di gruppo e nondimeno qualche articolo di vaglia al suo favoloso catalogo, oltre alla già citata I Am Lonely, lo aggiunge: una fiabesca Tree Song; la virtuosistica (dedica alla sua signora) Miss Heather Rosemary Sewell; una A Woman Like You che azzarda il raga; una traccia omonima squisitamente barocca benché in solitario e scandalosamente breve.

Non avrà a lungo un successore, il Blues del Compleanno, perché l’ippogrifo Pentangle (ha presente il lettore? bestia leggendaria che fonde in sé quattro diversi animali e qui sarebbero cinque, ma due sono il medesimo) a quel punto vola ormai altissimo. Ci sono voluti due americani per propiziarne l’ascesa verso empirei di stardom e immortalità: uno è Jo Lustig, manager di pochi scrupoli quanto di efficacissimo attivismo, capace di procurare alla band una copertura mediatica impressionante, su una stampa specializzata che al tempo decide fortune e sfortune così come da parte della BBC; l’altro è il produttore Shel Talmy, uno cui già gli Who e i Kinks dovevano non tanto ma tantissimo e scusate se è poco. Saranno però i Pentangle il suo capolavoro: firma la regia dei loro primi tre album e non ci si crede quanto suonino bene. Il primo in particolare, inciso con a disposizione appena quattro piste dentro le quali riusciva ad accomodare un sound pazzamente caleidoscopico. Questo sia subito chiaro: se routinariamente si indica nel quintetto, a pari merito con i Fairport Convention (uno scalino sotto gli Steeleye Span; la Incredible String Band un’altra roba), la massima espressione del folk-rock britannico è per convenzione, per comodità di discorso. Giustamente con chi glielo dice Danny Thomson si infuria e rivendica che trattavasi, semmai, di folk-jazz. Non tanto per l’uso da parte sua di un contrabbasso, e non di un basso elettrico, quanto per la preferenza data a tempi altri (che cambiano magari durante lo stesso pezzo) rispetto al canonico 4/4. Nei Pentangle quasi mai la ritmica è squadrata: ondeggia, swinga, prende abbrivi marziali. E certe sonorità e scale ─ di una chitarra elettrica che pare a volte un sitar; e ogni tanto è proprio un sitar a far capolino ─ che istintivamente l’ascoltatore di rock non può non collegare alla psichedelia arrivano in realtà dalle musiche indiane, arabe, magari dell’Est Europa. Fra l’altro: senza che ciò mai incida sulla stratosferica qualità delle performance, assai spesso la nostra combriccola si presenterà alla ribalta in stato di alterazione collettiva (in special modo i due chitarristi), ma alcolica, non di origine chimica.

Ancora Unterberger (in Eight Miles High, secondo tomo di una poderosa e imprescindibile storia del folk-rock) si spinge, un po’ spericolatamente, a dire i Pentangle i Beatles del versante britannico della scena. In questo senso ha ragione: che furono un gruppo in cui ciascuno dei cinque membri evidenziava una personalità forte, unica, chiaramente a sé rispetto alle altre quattro. Ci sta. Ma allora si può anche chiamarli i CSN&Y: per gli intrecci vocali e per l’abitudine di ricavare parentesi solistiche negli spettacoli dal vivo.

“The Pentangle” vede la luce a un anno quasi esatto (meno dieci giorni; il 17 maggio 1968) dal primo concerto. Chiaro che l’intesa si è affinata e, se la freschezza è da esordio, le si abbina la perfezione della macchina ampiamente rodata, ciascun ingranaggio funzionale all’armonioso muoversi d’assieme. Degli otto brani che compongono il succinto programma (trentuno minuti scarsi) solo metà è originale e inoltre ─ laddove Pentangling è sin dal titolo il manifesto di un suono mercuriale che scappa verso ogniddove fra momenti incantati, strappi e vortici ─ Bells e Waltz non sono che due (deliziose) scuse per esibire la magistrale padronanza dei rispettivi strumenti di Cox e Thompson. Mentre la pigramente arabeggiante Mirage è la versione per band di una peregrinazione di Jansch fra dune desertiche. Eppure: è un gruppo dalla personalità tanto straripante da evidenziarsi maggiormente nei materiali che rielabora: il gospel degli Staple Singers Hear My Call, girato jazz; i tradizionali Let No Man Steal Your Thyme e Way Behind The Sun, trascinati verso derive lisergiche da (per osare ulteriormente) Jefferson Airplane britannici; e Bruton Town, che parte minuetto e trasfigura in saga.

Proprio Bruton Town, e oltretutto relegata a fondo scaletta, è l’unica traccia del debutto presente nel disco dal vivo che, accoppiato a uno in studio, dà vita già entro fine anno al viceversa assai corposo seguito, “Sweet Child”. Scelta coraggiosa quella di uscirsene già con un doppio che giova alla crescente reputazione della band, se non a vendite che permangono modeste in rapporto all’entusiasmo di critica e pubblico pagante (ai concerti). La precedono lungo quaranta minuti undici brani inediti (la ristampa in CD oggi in catalogo offre lo spettacolo intero, chiarendo che da quel punto in poi l’esordio veniva ripreso quasi integralmente): resta forse il migliore riassunto di un canone capace di includere con disarmante naturalezza blues inacidati (l’autografa Market Song) come arcaici (il vivace omaggio a Furry Lewis Turn Your Money Green), ballate dal modernista (No More My Lord) al favolistico (Watch The Stars), una sinossi perfetta di folk barocco (Three Dances), mo-nu-men-ta-li riletture di due fra i massimi capolavori di Charles Mingus (Haitian Fight Song e Goodbye Pork Pie Hat) e poco dopo una performance a cappella di Jacqui McShee (So Early In The Spring) di una bellezza semplicemente paralizzante. Un gradito ritorno: The Time Has Come, adesso elettrica. Dal raffronto il 33 giri in studio risulta a momenti sminuito, a un primo ascolto almeno. Ma prolungandosi la frequentazione se ne evidenzia una seduzione più quieta quanto al pari persistente. Rappresentano apici stellari una canzone inaugurale e omonima dal sognante al turbinoso, l’ansiogeno strumentale (Thompson suona con l’archetto) Three Part Sing, il valzer sull’orlo della schizofrenia I’ve Got A Feeling (ispirato da Miles Davis), la ritmica Moon Dog, una Hole In The Coal che è di Ewan MacColl e parrebbe invece (ebbene sì e ancora) dell’adorato Mingus.

Dopo avere tanto seminato nel 1968 i Pentangle raccolgono nel 1969, con l’album che i più considerano il loro grande classico (tutti quelli che non gli preferiscono “Sweet Child”): “Basket Of Light”. Finalmente superstar, quinti nelle classifiche UK.

Tratto da Bert Jansch – La ballata di un enigma. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.237, febbraio 2018. Ristampato in Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Il primo, omonimo album dei Pentangle vedeva la luce il 17 maggio 1968, cinquantacinque anni fa.

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Nina Simone – Illuminazioni di immenso

“Poiché ho amato tanto e invano/e cantato con respiro così vacillante/il Signore nella Sua infinita misericordia/mi offre il dono della morte”: sono versi dello scrittore afroamericano del XIX secolo Paul Laurence Dunbar, colui che fu detto “il Poeta Laureato della razza negra”. Basterebbero, non fossero stati accompagnati da tanti altri egualmente mirabili e memorabili, a giustificare la sua fama postuma e, in definitiva, l’immortalità che lo accompagna. Non so dove sia stata sepolta Nina Simone, che ci ha salutati, da poco settantenne, lo scorso 21 aprile, senza che i media dessero risalto più di tanto alla scomparsa dell’ultima della serie di grandi voci femminili nere iniziata con Billie Holiday e proseguita con Ella Fitzgerald, con Dinah Washington, infine con l’artista venuta al mondo come Eunice Kathleen Waymon. Non so se le sue spoglie mortali siano state riportate in quella patria crudele e ingrata che si era lasciata alle spalle oltre trent’anni prima, o se riposi in quella terra di Francia che viceversa tanto l’ha amata e onorata. Non so se la sua ultima dimora, sempre che ultima dimora ci sia, sia o meno segnata da una lapide: se sì, credo però che i versi di Paul Laurence Dunbar dovrebbero adornarla, specifici manco fossero stati scritti apposta per lei. Credo che nessuno abbia mai avuto più dell’oggetto di questo mio inadeguato omaggio diritto a farli suoi. Già lo fece, nel 1969, musicandoli in Compensation, uno dei dieci brani che danno vita a un’illuminazione di immenso intitolata “Nina Simone & Piano!”, capolavoro ristampato in CD qualche tempo fa in utile accoppiata al certo meno ombroso “Silk & Soul” e da tenere sempre a portata di mano, per il giorno in cui doveste decidere di salpare per la famosa isola deserta. Un classico assoluto del… jazz? Soul? Un classico assoluto di Nina Simone e tanto dovrebbe bastarvi.

Album di una grandezza che quasi non ci si crede e si stenta ad abbracciare al primo ascolto come al ventesimo. Album che mette a nudo un’anima con tale impudicizia che ci si sente a tratti guardoni spregevoli a scrutare nei suoi abissi. Album che ti prende il cuore in mano e stringe, stringe, stringe. Seems I’m Never Tired Lovin’ You, dichiara la prima canzone, delicata e impossibilmente densa di sentimento, dedica al marito e manager Andrew Stroud che, da lì a pochi mesi, pianterà in asso la consorte spezzandole il cuore e in contemporanea ripulendole il conto in banca dalla non disprezzabile somma (un quarto di milione di dollari) accumulata in diritti d’autore e altro in poco più di un decennio, e possa per questo bruciare nei secoli dei secoli ─ il bastardo ─ nelle fiamme dell’inferno. Situazione cui retrospettivamente assai meglio si sposa un dittico finale mozzafiato: prima una I Get Along Without You Very Well (Except Sometimes) che cancella quella di Chet Baker e scusate se è poco; poi una The Desperate Ones teatrale e corrusca. Altre cose immani in mezzo… Innanzitutto la versione definitiva, fra jazz e gospel, di Nobody’s Fault But Mine, liberamente derivata da Blind Willie Johnson e guai a voi, guai vi dico, se non cogliete la prima occasione per andare a vedere l’ultima fatica di Wim Wenders, L’anima di un uomo, toccante omaggio al blues con al centro Blind Willie Johnson stesso, Skip James, J.B. Lenoir. E poi: una I Think It’s Gonna Rain Today che fa Randy Newman gospel; una Everyone’s Gone To The Moon (dal pregiato catalogo di Jonathan King) che il primo Tom Waits deve avere imparato a memoria; una Who Am I? che sciacqua Leonard Bernstein in acque soul; la suadente Human Touch. Interpretazioni che puntano dritto alla giugulare e all’ineffabile e tuttavia non sono niente, niente di niente raffrontate alla canzone che è la settima in lista ma ho tenuto per ultima. Si chiama Another Spring. Un’anziana signora su una sedia a dondolo parla fra sé e sé, amaramente, lamentando una vita fallimentare e segnata dall’abbandono, del marito (premonizione singolare) come dei figli. Nel fluire della melodia, dissonanti, piccole deflagrazioni accompagnano e sottolineano scatti di ira e smarrimento. Ma a un certo punto l’atmosfera cambia, un battito di mani introduce enfasi gospel ed è come se una brezza tardo-marzolina spazzasse via ogni recriminazione. È tornata la primavera. La vita rifiorisce. Nonostante tutto.

Prosegue per altre 6.744 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.62/63, luglio/agosto 2003. Ricorre oggi il novantesimo anniversario della nascita dell’artista.

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I migliori album del 2022 (2): The Comet Is Coming – Hyper-Dimensional Expansion Beam (Impulse!)

In un’intervista del 2016 il batterista Max Hallett (Betamax) raccontava così la genesi, tre anni prima, del progetto The Comet Is Coming: “Io e Danalogue the Conqueror (il tastierista Dan Leaves, NdA) avevamo messo insieme un duo psichedelico chiamato Soccer96. Ci esibivamo in giro per Londra e una sera questo spilungone con un sax in mano ci ha raggiunti sul palco. Quando ha attaccato a suonare con noi ha innescato un’esplosione di energia che ci ha lasciato sbalorditi. Un paio di settimane dopo King Shabaka (il sassofonista Shabaka Hutchings, NdA) mi telefona: ‘Facciamo un disco’. Abbiamo prenotato tre giorni in studio e alla fine ci siamo trovati con ore e ore di jam totalmente improvvisate. Da lì è partito un paziente lavoro di ‘taglia e cuci’”. Anticipato l’anno prima dal mini “Prophecy”, tratto dalle medesime sedute, nel 2016 “Channel The Spirits” scoperchiava crani esponendo la passione condivisa dai tre per “Sun Ra, Jimi Hendrix, John e Alice Coltrane, Can, Mahavishnu Orchestra, techno, house, grime e hip hop futurista”. Seguiva una candidatura ai Mercury Prize. Seguivano nel 2017 un altro EP, “Death To The Planet”, e nel 2019 l’accoppiata formata dal secondo album “Trust In The Lifeforce Of The Deep Mystery” e dal mini “The Afterlife”, entrambi già su Impulse!, etichetta assurta alla storia maggiore del jazz dando asilo alle sue avanguardie.

A incidere le basi di “Hyper-Dimensional Expansion Beam” i Nostri hanno impiegato (presso i Real World Studios di Peter Gabriel) un giorno in più di quelli che dedicarono al debutto. Dall’immersione in quanto registrato hanno poi estratto undici tracce pazzesche, sistemando fra la kosmische afro-dance di Code e la collisione fra hard bop e jungle di Mystik di tutto e di più, intervallando a momenti febbrili altri tendenti all’atmosferico nell’ampio iato dal sognante al fosco. Teo Macero avrebbe approvato, Sun Ra pure. Qui, forse, il solo jazz realmente moderno oggi.

Pubblicato per la prima volta in una versione più breve su “Audio Review”, n.447, novembre 2022.

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Ornette Coleman e l’invenzione di un nuovo jazz

Cacciato nel 1949 dal primo impiego stabile da musicista professionista, al seguito di un luna park, per avere insegnato al sassofonista che faceva coppia con lui un brano jazz e oltretutto, il che rendeva ancora più grave il delitto, in stile be bop. Ingaggiato nel ’50 da un grande del blues in procinto di diventare rhythm’n’blues quale Pee Wee Crayton ma, dopo poche date, pagato da costui per non suonare e sì, avete letto bene. Anche così, a forza di aneddoti, nelle note di copertina di quello che fu nel 1958 l’album d’esordio di Ornette Coleman il buon Nat Hentoff (uno dei critici meglio informati e più acuti che mai abbiano discettato di jazz) spiegava come mai l’artista di Forth Worth arrivasse a debuttare solo ventottenne quando i primi ingaggi li aveva rimediati a sedici anni. Colpa per così dire di un’originalità talmente spiccata da rendergli difficile trovare complici in grado, se non di capirlo, perlomeno di assecondarlo. Sul serio al tempo la musica dell’alto sassofonista texano era, come annunciava orgogliosamente il titolo del suo primo LP, qualcosa di diverso, e speciale, e dietro quattro punti esclamativi pienamente giustificati. Se oggi “Something Else!!!!” ci pare assolutamente godibile, e stentiamo magari a cogliere la carica innovativa  di composizioni già liberate da quelle che erano le convenzioni armoniche e melodiche dell’epoca, è per due ragioni: una è che, in misura rilevante grazie allo stesso Ornette, determinati paletti verranno poi spostati ben più avanti e cinquanta, sessant’anni dopo certi jazzofili ancora non ci hanno fatto l’orecchio; l’altra è che nelle nove magnifiche tracce (tutte autografe) che vi sfilano la ritmica ─ Don Payne al contrabbasso, Billy Higgins alla batteria ─ swinga che è un piacere. Idem il piano di Walter Norris e quasi sfugge, allora, come il sax e la tromba di un giovanissimo (ventun anni quando queste sedute venivano eternate) Don Cherry svarino prendendosi libertà inaudite, dentro ma in prevalenza fuori dalle sequenze di accordi della melodia di base, sull’orlo e spesso oltre della dissonanza. Lo si noterà tanto di più, da lì a pochi mesi, nel successivo ─ secondo e ultimo 33 giri per la Contemporary ─ “Tomorrow Is The Question!”, laddove senza un pianoforte a legarla la musica si faceva mercuriale e se tanti gridarono al genio erano molti di più a parlare di un bluff, o tout court di un ciarlatano che se suonava così era per incapacità, figurarsi un po’. Lode allora a quella lenza di John Lewis che in contemporanea con gli eventi annotava: “Ritengo che la musica di Ornette sia uno sviluppo di quella di Charlie Parker senza che di Parker riprenda le scale o lo stile. È un qualcosa di assai più profondo e spero che sia lui che Don Cherry abbiano una vita artistica lunga e fruttuosa”. L’avranno. “Tomorrow Is The Question!” (punto esclamativo ne è rimasto uno, ne mancano almeno due) appare insomma già un filo più “avanti” del pur prodigioso, e complessivamente forse più ispirato, predecessore. Eternato da Lester Koenig a Los Angeles fra il gennaio e il marzo del 1959, affianca di nuovo al sax alto di Coleman la tromba di Cherry, mentre al contrabbasso si alternano Percy Heath e Red Mitchell e alla batteria sedeva per l’occasione Shelly Manne. È un gioioso e magmatico scorrere di blues alterati, ballate, presagi di armolodia. Seconda testimonianza preziosa dei preparativi per una rivoluzione.

La quale andava compiutamente in scena ─ a dare man forte al leader il solito Cherry e una fenomenale sezione ritmica formata da Charlie Haden al contrabbasso e dal redivivo Billy Higgins dietro piatti e tamburi ─ appena due mesi dopo, il 22 maggio 1959 (il disco verrà pubblicato in novembre, primo di innumerevoli su Atlantic), ai Radio Recorders di Hollywood. Nesuhi Ertegun a preoccuparsi che venisse registrata impeccabilmente (anche dal punto di vista della qualità tecnica si stenta a credere, ascoltandole, che queste incisioni abbiano sessantadue anni) dopo essersi preoccupato di convincere il sassofonista a non abbandonare la musica per darsi a studi religiosi, come a un certo punto era fortemente intenzionato e provateci voi a immaginare le conseguenze se il discografico non fosse risultato abbastanza persuasivo. Appassionato, preveggente, astuto, Ertegun contribuiva (incommensurabilmente) a rendere epocale l’album pure imponendogli il titolo splendidamente arrogante che ha, “The Shape Of Jazz To Come”, “La forma del jazz a venire”, niente di meno, quando l’autore avrebbe voluto chiamarlo “Focus On Sanity”. Con una scaletta di sei pezzi tanto per cambiare tutti a firma Coleman (due outtake verranno recuperate nel 1970 in altrettante antologie) il disco reinventa radicalmente la tradizione cui tuttavia appartiene e porrà le basi per il nascere di una nuova scena, a battezzare la quale provvederà sempre Ornette nel 1961 con un altro e già ennesimo capolavoro, “Free Jazz”. Lo fa mettendo in discussione e anzi definitivamente da parte quello che era nell’ambito il concetto canonizzato di armonia, accantonando l’idea che i cambi di accordo dovessero essere concretamente delineati e sistemando gli assoli secondo l’estro del momento, indipendentemente dal centro tonale del brano. Lunghe improvvisazioni legano il delinearsi del tema al suo riemergere, ma l’aridità di tanta avanguardia che da qui proverà a trarre ispirazione è tenuta alla larga dal calore di melodie di intrinseco romanticismo (non a caso la dolente Lonely Woman, che inaugura, sarà una delle poche composizioni del nostro uomo a venire frequentemente riprese da altri e a farsi dunque standard) e da una ritmica (Haden si concede talvolta l’archetto e sono momenti di lirismo indicibile) che insieme ancora, dialoga, sospinge.

“The Shape Of Jazz To Come” è stato oggetto negli ultimi anni di numerose ristampe in vinile. Lo spassionato consiglio al lettore è di scansare accuratamente tutte quelle griffate con i marchi più improbabili, specializzati nello sfruttamento di opere su cui sono scaduti i diritti d’autore ma delle quali non hanno ovviamente l’accesso alle incisioni originali, e premiare invece il lavoro di un’etichetta seria, serissima quale è Speakers Corner, che riedita solo lavorando in analogico su master di prima generazione concessi in licenza dai legittimi proprietari. L’auspicio è che presto, prestissimo aggiunga al suo ricco catalogo anche “Something Else!!!!” e “Tomorrow Is The Question!”, le cui ultime ristampe non truffaldine sono su OJC e datano rispettivamente 2011 e 2015.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.435, ottobre 2021.

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Un po’ di cose che ho scritto negli anni riguardo a Pharoah Sanders

Sodale di John come di Alice Coltrane e titolare da leader di una buona mezza dozzina di album fondamentali, uno dei più audaci e geniali sassofonisti della storia del jazz ci ha lasciato lo scorso sabato, ottantunenne. È morto da vivo, che non è cosa che si può dire di molti.

Karma (Impulse!, 1969)

Il terzo lavoro in proprio di colui che era stato l’ultimo alter ego di John Coltrane venne registrato in due sedute nel febbraio del 1969. La prima ebbe luogo il 14, giorno degli innamorati, si sa. Di amore – di altro, più trascendentale tipo – “Karma” trabocca, mistico già nel titolo e in uno scatto di copertina che coglie il sassofonista seduto su un cuscino, gambe incrociate e braccia aperte. In meditazione o, chissà, preghiera, rivolta a quel Creatore che, spiega il lunghissimo brano (32’45”) che costituisce gran parte del disco, ha i suoi piani. Obiettivo: “pace e felicità per ogni uomo”. Presentato così “Karma” potrebbe sembrare, visto l’anno di realizzazione, un vaneggiamento hippie qualsiasi. Altro è tuttavia il senso di profonda, non banale spiritualità che trasmette. Altra è la solidità di spartiti in cui il richiamo a musiche etniche di area asiatica lungi dall’essere riverniciatura superficiale si fa parte essenziale di strutture bene articolate, in un gioco di vuoti e pieni, tensione e rilascio che vede Sanders in perenne, estatico assolo mentre un gruppo superbo (spiccano il piano di Lonnie Liston Smith Jr. e, in Colors, il contrabbasso di Ron Carter) intreccia trame qui fitte, là impalpabili. “Free jazz per le masse”, secondo Scott Yanow. Definizione felice ma limitante.

Complessa eppure cantabile, la monumentale The Creator Has A Master Plan fu il punto centrale di un percorso iniziato con il sottovalutato “Tauhid” e che avrà in “Jewels Of Thought”, “Deaf Dumb Blind”, “Thembi” e “Black Unity” altre tappe memorabili. Per non dire dei coevi album di Alice Coltrane cui Sanders offrirà un apporto decisivo.

Scritto nel dicembre 1999 per un progetto di “Blow Up” poi non andato in porto per ragioni che non ricordo. In parte recuperato, adattato e accorciato, su “Extra”, n.13, primavera 2004. Altrimenti inedito.

Thembi (Impulse!, 1971)

Permettete? Vorrei cominciare con un racconto di malcostume. Qualche tempo fa i negozianti di dischi ricevettero un comunicato dalla Universal in cui si annunciava la volontà di “valorizzare” il catalogo Impulse!. Ottima cosa, no? E come si intendeva valorizzarlo? Ribassando i prezzi e insieme avviando una campagna pubblicitaria? Macché. Alzandoli invece, portandoli dalla fascia media alla alta. Fine della “valorizzazione”. Sicché classici in gran copia – da Mingus a Coltrane, da Shepp ad Ayler, da Art Blakey a Yusef Lateef – sono oggi meno accessibili alla smania di conoscenza degli appassionati, soprattutto di quelli più giovani. Agire esemplare dell’avida idiozia di gente che dovrebbe essere riscattata alla società mandandola a lavorare i campi.

Mi perdonerete se mi sono così mangiato metà dello spazio di questa recensione. Ci tenevo. Confido nel fatto che “Thembi”, se non posseduto, sia almeno conosciuto di fama dai più. A quattro anni dalla morte di Coltrane che ha troncato un sodalizio epocale, a due dal capolavoro “Karma”, che ha rischiato di fare dell’avanguardia una faccenda alla moda, a uno dalla pregevole accoppiata “Jewels Of Thought”/”Deaf Dumb Blind”, Sanders dà alle stampe (è il 1971) un album che dei predecessori mantiene l’ispirazione – coacervo di influenze africane e d’Oriente, hard bop, free e suggestioni psichedeliche – scorciando nel contempo il minutaggio della singola composizione. I consueti due brani diventano dunque cinque e un vitalistico impulso latino-funky si insinua, senza che l’empito spirituale si attenui. Esito: uno dei dischi più accessibili del Nostro, oltre che dei più belli.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.214, giugno 2001.

Moon Child (Timeless, 1989)

Naturalmente il Pharoah Sanders indispensabile è quello che fra il 1967 e il 1971, nel mentre agiva anche da complice prediletto della vedova Alice avendo ricoperto in precedenza il medesimo ruolo con l’ultimo John Coltrane, metteva in fila una prodigiosa sequela di pietre miliari su Impulse!: “Tauhid”, “Karma”, “Jewels Of Thought”, “Deaf Dumb Blind”, “Thembi”, “Black Unity”. Capisaldi di un jazz (lo dissero spiritual e l’etichetta è rimasta) inaudito, per un verso in continuità con il Coltrane di “A Love Supreme” e per un altro capace di trascendere il free deviandone l’audacia verso un Oriente dell’anima, impregnandolo di latinismi, rimettendoci dentro l’Africa. Si fosse ritirato allora, appena trentunenne, avrebbe comunque avuto garantito un posto nella storia della musica del Novecento. Non avendolo fatto si è ritrovato, ottantunenne, a pubblicare uno dei dischi più acclamati del 2021, “Promises”, in collaborazione con il dj e produttore in ambito di elettronica Floating Points e registrato con la London Symphony Orchestra.

Benché poi premiato da un Grammy, non veniva salutato con altrettanto entusiasmo nel 1990 “Moon Child”, che nel mentre scontentava i seguaci del Pharoah Sanders avant-garde non riusciva a guadagnarsi i favori del pubblico più tradizionalista. Giocava probabilmente un ruolo negativo in tal senso una distribuzione deficitaria negli USA e la cronica irreperibilità quantomeno in vinile (le copie originali su Timeless, olandese, oggi passano di mano intorno ai centocinquanta euro) ha poi fatto sì che quasi se ne perdesse la memoria. Per una sua doverosa rivalutazione giunge allora provvidenziale questa ristampa su Music On Vinyl, visto che una prima datata 2019 su Tidal Waves era sciaguratamente in tiratura limitata e risultava già esauritissima. Posto che non è di un capolavoro che stiamo parlando, almeno la prima – e omonima, nonché unica autografa – delle sei tracce in programma merita tale qualifica per il suo essere il Pharoah Sanders più cantabile (e difatti è cantato) di sempre: rilassata, sospinta da un basso felpato (Stafford James) e percussioni lievi (Cheikh Tidiane Fale), estremamente solare a dispetto del titolo. Più che degne di nota pure una parimenti rilassata Moon Rays (Horace Silver; in gran spolvero oltre al sax del leader il piano di William Henderson) e la resa ellingtoniana di All Or Nothing At All, cavallo di battaglia di Frank Sinatra.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.444, luglio/agosto 2022.

With A Heartbeat (con Bill Laswell; Douglas, 2005)

A sessantacinque anni – o per meglio dire a sessantatré, ché tanti ne aveva quando realizzò questo disco di cui è circolata (poco) un’edizione su Evolver – ha ancora cose da dire e da dare Pharoah Sanders? La perfida risposta, dopo avere ascoltato “With A Heartbeat”, è: forse sì, ma dovrebbe scegliersi meglio i compagni di strada. Bill Laswell, che pure di anni ne ha parecchi di meno, si è usurato parecchio di più spendendosi troppo e da tempo è un cliché vivente, all’incrocio fra ambient e musiche etniche, hip e trip-hop e (vogliamo dirla una parolaccia? diciamola!) new age. E dire che la collaborazione fra i due ebbe uno splendido inizio, nell’ormai lontano 1996, con quel “Message From Home” in cui il sassofonista, immergendosi in acque africane, ritrovava la verve di un’era aurea collocabile fra i mezzi ’60 e i mezzi ’70 in cui come nessuno a parte Alice Coltrane declinò estatico (definizione di Scott Yanow) “free jazz per le masse”. Tutta un’altra storia un album in cui il suo strumento si muove con grazia rara – qui sognante, là intensissimo, in bei saliscendi emotivi – ma in un contesto che appare artefatto.

Programmatico il titolo: intorno al battito di un cuore, per fortuna manipolato quel tanto che basta da non diventare un’assoluta ossessione, Laswell ha costruito quattro lunghi brani in transito dal raga al dub per tramite di cosmicherie che fanno molto primi ’70, con la collaborazione, oltre che di Sanders, di un altro fiatista, Graham Haynes, e del percussionista Trilok Gurtu. Qualche sprazzo di ispirazione c’è anche, ma più che altro si sonnecchia. Per gli standard del bassista da un lustro in qua non ci si può lamentare, da un disco con su scritto “Pharoah Sanders” ci si sente ancora in diritto di pretendere di più.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 255, aprile 2005.

Promises (con Floating Points e la London Symphony Orchestra; Luaka Bop, 2021)

Il bello di questa collaborazione sulla carta improbabile è che a proporla è stato l’artista di gran lunga più anziano: Pharoah Sanders, classe 1940 e una delle ultime leggende viventi e praticanti del jazz degli anni ’60 e ’70 (allora faceva la Storia; nei due decenni seguenti si è limitato a regalarci altri album bellissimi; tanti). Era costui che, stregato nel 2015 da “Elaenia”, esordio come Floating Points del dj e produttore di musica elettronica britannico Sam Shepherd, classe 1987, lo contattava. Immaginabili stupore ed esaltazione da parte di chi – cresciuto a Debussy e Bill Evans ed ecco che comincia a spiegarsi donde arrivi quanto si ascolta in “Promises” – spesso nelle sue serate aveva proposto a platee a tutt’altri suoni aduse la musica del sassofonista (celeberrimo un set berlinese inaugurato dai venti minuti filati di Harvest Time). Era seduti a tavola che i due decidevano che sì, un disco insieme si poteva fare. Eccolo.

Accolto per un verso con entusiasmo a prescindere da chi lo aveva battezzato un capolavoro forse prima ancora di ascoltarlo e per un altro tiepidamente da chi si aspettava magma e spigoli in luogo di un fluire disteso e incantatorio, “Promises” è suite di tre quarti d’ora in nove movimenti. Su un ricorrente motivo di sette note suonato da Shepherd su varie tastiere si innestano ora il sax tenore di Sanders (nel quarto movimento la voce, invece) con fraseggi talvolta studiatamente timidi e talaltra lunghi e avvolgenti, ora (oppure insieme) gli archi aggiunti a posteriori della London Symphony Orchestra. Si va dal sommesso a solenni crescendo, con il bonus di alcuni squisiti assolo. Più che dalle parti di Coltrane (Alice o John) si sta da quelle di Górecki.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.431, maggio 2021.

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Il grido d’amore di Albert Ayler

1. “…il suono dell’amore apre le porte… È una musica che sembra spiccare il volo, che sana, penetra, squarcia il cielo aperto, rivelando lentamente il volto raggiante dell’Amato”: potrebbe essere uno dei più bei panegirici mai redatti della musica di Albert Ayler. È invece Jeff Buckley che scrive di Nusrat Fateh Ali Khan apprestandosi a intervistarlo. Non passerà che un anno e mezzo e intervistatore e intervistato saranno morti. Il primo, troppo giovane, annegato nelle luride acque del Wolf River, a Memphis.

“La musica che suono è una lunga preghiera, un messaggio che viene da Dio”: potrebbe essere Nusrat Fateh Ali Khan che dice di sé al giovane Buckley. È invece Albert Ayler che parla e l’anno è il 1966. Il 25 novembre 1970 il suo corpo, in pessime condizioni per i venti giorni di permanenza in acqua, sarà ripescato in quella fogna a cielo aperto che è l’East River, a New York. La sua scomparsa ebbe un’eco debole. Un articoletto su “Downbeat”, la bibbia jazz che sovente lo aveva snobbato. Un più adeguato ricordo di Ralph J. Gleason su “Rolling Stone”. Poco altro. Uno dei musicisti più importanti di questo secolo se ne andava in silenzio; giusto alcuni intellettuali neri percepirono la portata devastante dell’evento. Nelle quasi tre settimane in cui era stato irrintracciabile, della sua sorte si erano preoccupati solo la sua donna, suo padre e il fedele pianista Call Cobbs. Toccò agli ultimi due riconoscere i poveri resti.

Ventotto anni dopo il mistero circonda ancora le circostanze della morte di Albert Ayler. Si diffusero voci fantasiose al tempo. Che fosse stato trovato legato a un jukebox. Che lo avesse fatto fuori l’FBI, come parte di un complotto mirante a distruggere la cultura antagonista afroamericana che già aveva avuto fra le sue vittime Eric Dolphy, John Coltrane e Jimi Hendrix, oltre naturalmente a Martin Luther King e a Malcolm X. Che lo avesse ucciso la mafia per saldare il conto di una partita di droga non pagata.

Lasciata la tesi cospirazionista a qualche futuro telefilm di Chris Carter, non sembra per niente plausibile che la morte del sassofonista sia legata a storie di droga, dacché è ragionevolmente certo che non abbia mai fatto uso di cocaina o di eroina. Pare tuttavia appena meno incredibile quella che è probabilmente la verità: che, semplicemente, si suicidò. Una fine in drammatico contrasto con un’esistenza votata a un sentimento religioso prossimo al misticismo. Fanno fede parecchi dei titoli autografi del suo repertorio: Spiriti, Profezia, Spirito Santo, Sacra Famiglia, Angeli, Gesù, La nostra preghiera, Luce nell’oscurità, Casa celestiale, Rinascita spirituale, La collina di Zion. Quanto doveva essere disperato per lanciarsi in quelle acque limacciose! Il suo mentore, John Coltrane, non era più di questo mondo; la sua casa discografica, la Impulse!, lo aveva scaricato; suo fratello Donald aveva superato il sottile confine che separa la sanità mentale dalla follia; e lui a trentaquattro anni, dopo otto di dischi e concerti, non aveva di che mantenersi.

Mary Parks, che ne fu la compagna negli ultimi anni, nel 1983 tentò di spazzar via le congetture sulla tragica fine di Ayler parlandone con un ricercatore discografico. A sentir lei, il sassofonista era depresso per la situazione in cui si trovava il fratello e per le accuse che gli muoveva la madre di esserne responsabile e già da qualche tempo vagheggiava il suicidio. La sera del 5 novembre 1970, dopo un alterco domestico, fracassò uno dei suoi strumenti sul televisore e uscì di casa di corsa. Prese il traghetto per la Statua della Libertà e in prossimità di Liberty Island si buttò in acqua. Tutto qui. Fine del mistero?

Comunque sia morto, una cosa è certa: Albert Ayler è morto per i nostri peccati.

2. Ho comprato il mio primo disco di Albert Ayler non più tardi di tre anni or sono, una copia americana del doppio “The Village Concerts” “tagliata” e sigillata, buttata fra un Iron Maiden e un Olivia Newton-John su una bancarella, al prezzo di una Coca Cola in un McDonald. Annoiato da oltre tre lustri di frequentazione con il rock mi stavo accostando al jazz, con il quale in precedenza avevo avuto rapporti soddisfacenti ma saltuari, partendo naturalmente dai suoi eretici, quelli sui quali i jazzofili DOC (razza schifosa) hanno sempre sputato sopra, salvo poi chiedere scusa: il Miles Davis elettrico, Sun Ra, John Coltrane, Don Cherry, Ornette Coleman. Mi mancava Ayler per chiudere il quadrilatero sui cui lati restanti erano posizionati questi ultimi tre, che sapevo avere avuto a che fare con lui in varie maniere. Fatto risorgere da John Lurie in “The Resurrection Of Albert Ayler”. Citato di continuo nelle interviste da John Zorn e dai Sonic Youth. Idolatrato da Henry Rollins che nell’autunno del 1990, ospite di una radio studentesca californiana, aveva diffuso nell’etere per oltre mezz’ora la sua musica. Mi portai a casa “The Village Concerts”. Fu amore.

Non subito, e del resto raramente i grandi amori partono con il piede giusto. Se oggi l’universo ayleriano è un luogo familiare ove mi è gratificante aggirarmi riconoscendo corsi e ricorsi, ricavandomi cantucci nei quali crogiolarmi al tepore di un’inedita rivelazione, l’approccio fu difficoltoso. Questione di sovraccarico sensoriale. Appena dischiusa la porta, vieni travolto da un profluvio di ritmi insieme rozzi e sofisticati e di melodie che sembrano andare ciascuna per proprio conto. Ci vuole un po’ perché l’insieme acquisisca un senso e si scopra che vi è molto metodo in questa apparente follia. Diceva Picasso che da bambino disegnava come Raffaello e gli ci era voluta tutta la vita per imparare a disegnare come un bambino. Sassofonista fra i più dotati tecnicamente di sempre, il Nostro studiò quasi vent’anni per imparare ad approcciarsi al suo strumento in tale maniera. I critici jazz, stupidini, definirono il suo stile “primitivo”. Coltrane la pensava diversamente.

Prosegue per altre 19.434 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.6, luglio/agosto 1998. Albert Ayler suonava per l’ultima volta dal vivo il 27 luglio 1970, a St. Paul de Vence, Francia.

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Duke Ellington a Newport – La classica del Novecento

Nella lunga e straordinaria vicenda artistica di Duke Ellington fra le molte migliaia di performance dal vivo nessuna è celebre quanto quella che tenne con la sua big band il 7 luglio 1956, nella cornice della terza edizione dell’“American Jazz Festival”, a Newport. Celebre e cruciale, visto che una carriera in declino ne veniva portentosamente rivitalizzata, da lì a un mese e mezzo il nostro uomo addirittura si ritrovava sulla copertina di “Time” e prendeva a materializzarsi il miracolo di un gigante del jazz capace nei suoi anni più tardi, se non di essere rilevante come in gioventù, di scrivere un’infinità di pagine almeno altrettanto memorabili.

L’album che veniva prontamente ricavato da quella notte di magia è sin dall’uscita e unanimemente ritenuto fra i più classici nell’ambito, nomea di assoluto capolavoro sopravvissuta allo sconcerto che coglieva studiosi e appassionati nel 1996, alla scoperta (a quarant’anni esatti dall’evento) negli archivi della Voice Of America di un nastro che dimostra inequivocabilmente che uno dei più famosi live di sempre live lo è al massimo al 40%. Ricreato insomma per la più parte in studio, a causa di vari problemi tecnici che rendevano inutilizzabile in momenti topici la registrazione in mano alla Columbia. Ma ci importa poi davvero qualcosa di sapere che gli applausi sono posticci e qualche pur epocale assolo venne rifatto perché un microfono era sfortunatamente spento? Conta la qualità in ogni caso eccezionale di un jazz ruggente e raffinatissimo, swingante e melodico, di rado tanto vicino come in questi tre quarti d’ora a farsi la vera musica classica del Novecento.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.347, ottobre 2013.

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