Archivi del mese: giugno 2018

OK, dico la mia (40 e non 41)

Ieri sera sono passato da Amantes per uno spritz. Ai lettori torinesi non devo spiegare cosa sia – cosa sia stato – Amantes. Ai non torinesi dico che per ventidue anni in quelle tre stanze sono successe cose – concerti, proiezioni, conferenze, mostre d’arte – e soprattutto si sono incrociate persone. Amantes era quel tipo di posto che ci andavi dopo o prima di cena, quando avevi voglia di fare due chiacchiere, ed eri sicuro (in particolare il giovedì, quando a girare dischi in modalità Kingston era Paolone Ferrari) che ci avresti trovato qualcuno, o qualcuna, che conoscevi. Che probabilmente ti avrebbe presentato qualcuno, o qualcuna, che non conoscevi. Eri arrivato di cattivo umore? Quasi invariabilmente te ne andavi sorridente e non era solo una questione di tasso alcolemico. Era così, Amantes, sempre pieno di gente bella e interessante. Vi si incontrava tutta la Torino di un certo tipo e senza manco bisogno di darsi appuntamento.

Ieri sera molta di quella Torino lì è passata, come me, a sporgere un saluto. Centinaia di persone, così tante da riempire i marciapiedi di via Principe Amedeo per metri e metri in una direzione e nell’altra, così tante da fermare il traffico. La solita gente bella e interessante. Allegra, ma stavolta era un po’ un’allegria di naufragi. Il circolo ARCI locale per antonomasia non celebrerà il ventitreesimo compleanno. Si ferma a ventidue. Abbassa la saracinesca, vittima di una crisi che sotto la Mole ha picchiato duro, incattivendo ma soprattutto deprimendo la città, mortificandone una vivacità culturale che resta unica. Amantes ha chiuso e già mi manca. Ci sono sempre stato così bene che quando, due anni e dieci giorni fa, mi sposai non ebbi dubbi riguardo al dove fare la festa: lì, come ho ricordato a Roberto Tos abbracciandolo. Con tutto quello che hai organizzato qui dentro un ricevimento di matrimonio ti mancava, eh? Ciao, Roberto. Ce lo berremo ancora un bicchiere insieme, da qualche altra parte, ma non potrà proprio essere la stessa cosa.

Sempre ieri è arrivata la notizia della chiusura della più longeva rivista musicale italiana. Quarant’anni compiuti (festeggiati non credo proprio) lo scorso ottobre. Fu su un “Mucchio” allora “Selvaggio” che pubblicai il mio primo articolo, nel febbraio 1983. Vi ho collaborato – sommando due diversi periodi: ’83-’88 e poi ’99-2012 – per quasi diciannove anni e credo di essere stato la seconda firma – dopo Federico Guglielmi e non contando il fondatore e affondatore – per anzianità di servizio su quel giornale. Per dire quanto “Il Mucchio” sia stato una parte importante – determinante persino – della mia vita. Come e perché me ne andai la seconda volta – precedendo di qualche mese le dimissioni, uno via l’altro, di quasi tutti i principali collaboratori – credo che in molti lo ricordino. Per chi vuole rinfrescarsi la memoria, qui, qui e qui. Ci siamo lasciati come peggio non si sarebbe potuto, sono convinto di avere molto contribuito alla perdita di credibilità della testata e non me ne pento minimamente. Al tempo avvertii come un dovere etico il divulgare ciò che avevo scoperto e questo è quanto.

Non sono né contento (come immaginavo che sarei stato) né dispiaciuto (era in realtà morto nel 2013; ciò che è sopravvissuto poco, pochissimo aveva in comune con la storia precedente) che abbia cessato le pubblicazioni. Alla notizia (che fra gli addetti ai lavori circolava già da qualche giorno) mi sono scoperto serenamente indifferente ed ecco, questo mi ha rattristato sì. Ho solo due commenti da fare. Il primo è che trovo che ci sia una sorta di giustizia poetica nel fatto che sia morto, al di là del considerevole calo post-2013 delle vendite sia in edicola che in abbonamento, a causa di un contenzioso giudiziario fra le due persone che tradirono la fiducia dei collaboratori e la passione dei lettori. Il secondo è che mi hanno infastidito le lacrime di coccodrillo su Facebook di quanti si sono detti addolorati, devastati persino, per la scomparsa del “Mucchio”, premurandosi però di aggiungere che non lo acquistavano più dal… (al posto dei puntini un anno qualunque, dal ’77 in poi). Se non si vuole che un giornale muoia lo si compra, non vale dispiacersene dopo.

Per quanto qualche ragione per non mettere più mano al portafoglio, dopo il terremoto che sapete, i lettori storici ce l’avessero eccome.

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Concerto Grosso per i New Trolls

Per l’epoca, per una musica che rivendica orgogliosamente il suo essere “giovane” e per tantissimi versi in effetti lo è, tre anni rappresentano un’eternità, come ere geologiche nel cui susseguirsi accade di tutto e tutto si ridisegna: eppure tanto mettono i New Trolls (premurosa e previdente,  la Fonit Cetra provvede a intrattenere gli astanti licenziando un omonimo LP che è in realtà una raccolta di singoli) fra il debutto a 33 giri “Senza orario senza bandiera”, datato 1968, e il secondo album vero. Ad ascoltarli in successione lo iato pare persino maggiore, ben più ampio – per dire – di quello che intercorre – esempio fatto non a caso – fra “Deep Purple” e il successivo (peraltro di pochi mesi) “Concerto For Group And Orchestra”. In ritardo di due anni su Blackmore e soci e addirittura di quattro sui Moody Blues di “Days Of Future Passed”, il complesso genovese è nondimeno il primo in Italia ad avventurarsi sullo sdrucciolevole terreno del connubio fra gli strumenti del rock e quelli – con relativo e ben più ampio organico – della classica. Comunque un bello e spericolato salto dal beat prestato a De André del predecessore.

Chi tardi arriva talvolta fa meglio di chi lo aveva preceduto. È il fortunato (da ogni punto di vista, tant’è che nel ’76 si replicherà) caso della graziosa operina che il compositore Luis Enríquez Bacalov modella su una forma musicale, quella appunto del concerto grosso, risalente al periodo barocco. Nei suoi quattro movimenti, che occupano il primo lato del disco non arrivando a totalizzare che diciassette minuti scarsi (e il quarto è oltretutto una ripresa del secondo), il dialogo fra strumentazione elettrica e acustica, e principalmente fra chitarra e archi, si sviluppa fra il garbato e il brioso, il sentimentale – ma mai stucchevole – e il solenne. Non terminasse assurdamente con il perfetto anticlimax di un oltretutto estenuante assolo di batteria, la seconda facciata risulterebbe comunque assai meno datata. Per quanto nessuno ci abbia creduto mai che quelle dei 20’30” di Nella sala vuota, improvvisazioni dei New Trolls registrate in diretta siano sul serio improvvisazioni.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.190, febbraio 2014.

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A Place To Bury Strangers – Pinned (Dead Oceans)

Strano ma vero: non solo nello stesso mese mi trovo a occuparmi dei nuovi album di tre gruppi (il terzo sono i Men) provenienti dal medesimo quartiere newyorkese ma nello stesso giorno e di seguito di due, l’altro gli Oneida, le cui parabole sono state ultimamente influenzate, e pesantemente, dalla definitiva trasformazione di Brooklyn in un luogo alla moda e per ricchi, ben diverso dalla zona popolare di una volta. Nel caso degli A Place To Bury Strangers aggiunge un elemento paradossale alla vicenda che a cacciarli dall’edificio che ospitava il complesso polifunzionale Death By Audio sia stata l’acquisizione di quegli spazi da parte di Vice, impresa multimediale generata dalla rivista simbolo di un certo giovanilismo fighetto. Una disdetta questo sfratto per Oliver Ackermann, chitarrista e cantante della band che lì provava. Se ne sarà però fatto una ragione, essendo poi la sua principale fonte di reddito non il complesso ma i distorsori che progetta e produce, usati fra gli altri da U2, Nine Inch Nails e Wilco.

E come per gli Oneida da un male è scaturito un bene giacché, costretto a concentrarsi sulla scrittura piuttosto che sui suoni, non potendo più provare ai volumi assordanti di un gruppo il cui Wall of Sound è mitico, il nostro uomo ha infine confezionato un disco che ne riflette più la personalità che gli ascolti. Recensendo (bene) il precedente “Transfixiation”, lo raccontavo come una collezione di canzoni ciascuna delle quali già ascoltate da altri. Al quinto tentativo “Pinned” per la prima volta miscela le sue influenze punk e new wave, shoegaze e noise, electro e industrial in un assieme di una certa peculiarità. Né di sicuro lo danneggia che con il leader duetti spesso una voce femminile, quella della nuova batterista Lia Simone Braswell.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.398, maggio 2018.

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Un 24 giugno di un po’ di anni fa

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24 giugno 2018 · 09:56

Oneida – Romance (Joyful Noise)

Da Brooklyn e una significativa espressione culturale di ciò che, fino ancora agli anni a cavallo fra il secolo vecchio e l’attuale, rappresentava quella parte di New York, gli Oneida nel 2011 pagavano la gentrificazione del quartiere con l’abbattimento dell’edificio che ospitava la loro storica sala d’incisione, l’Ocropolis. Perdevano in un colpo la possibilità – se è permessa la boutade – di registrare i rumori della demolizione costruendoci attorno uno o più dei loro pezzi leggendariamente fragorosi e – facendo una riflessione più seria – un economico covo creativo, equivalente di ciò che fu l’Inner Space per i loro idoli Can. Dev’essere naturalmente anche a ragione di ciò che da allora la produzione della band si è rarefatta, “Romance” il successore “vero” di un “A List Of The Burning Mountains” vecchio ormai sei anni, silenzio interrotto soltanto, nel 2016, dalla collaborazione con Rhys Chatham “What’s Your Sign?”.

Ma non tutto il male vien per nuocere se in questo riaffacciarsi alla ribalta, che comunque include due brani cui cominciò a lavorare all’Ocropolis, il gruppo evidenzia una capacità di messa a fuoco da lungi smarrita e un po’ latitante persino nelle opere migliori. Addirittura, si potrebbe parlare di sintesi benché l’album duri la bellezza di settantadue minuti, diciotto però occupati dalla conclusiva Sheperd’s Axe, odissea dall’insolitamente delicato al nervoso e poi all’ansiogeno, all’ipnotico, al chiesastico, a base di sintetizzatori svagati, ritmi storti, chitarre abrasive. Prima, tutto si tiene assai meglio di quanto non fossimo abituati, dall’industrial funk di Economy Travel a una All In Due Time devota ai Neu!, da una Good Lie che incrocia Cluster e Flaming Lips (!) a una Reputation che evoca i Silver Apples, all’esilarante assalto punk-rock Cockfight.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.398, maggio 2018.

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Raspberries Fields Forever

Bizzarra parabola quella dei Raspberries, da Cleveland, Ohio, con agli estremi al principio un nome da culto per gli appassionati di cose sixties quali i Choir (titolari con It’s Cold Outside di uno dei più memorabili esempi di Merseybeat oltre Atlantico) e a fondo corsa l’elezione del leader, il belloccio Eric Carmen, a idolo adolescenziale, durato peraltro un mattino o poco più. In mezzo quattro album (tutti su Capitol) da affrontare a coppie. L’omonimo debutto e “Fresh” vedono la luce entrambi nel 1972, a ormai diversi anni dacché i Choir (tranne Carmen, tutti da lì i componenti originali) hanno mollato il colpo, e sono rispettivamente cinquantunesimo e trentaseiesimo per “Billboard”. Il primo uno slow seller con le sue trenta settimane di permanenza in classifica, il secondo quasi un best seller con insita la promessa di orizzonti di gloria che si riveleranno un’illusione ottica. Sono due dischetti carini ma non imprescindibili, collezioni di pop di un aggraziato sull’orlo del lezioso, prevedibilmente devote ai Beatles ma più che altro agli Hollies, che non si proibiscono lo scatto elettrico, l’estemporanea esibizione muscolare, ma vivono sostanzialmente di melodie zuccherine e sentimentalismi ragazzini.

Quasi come fosse un giubbotto di quelli che si possono indossare indifferentemente per l’uno o l’altro verso, un anno dopo “Side 3” rovescia il sound dei Raspberries (da lì a un ulteriore anno “Starting Over” offrirà replica meno persuasiva) arrendendosi al rock’n’roll senza chiedere scusa, sin dal riff bello tosto di una Tonight da Byrds datisi all’hard, ma mantenendo e persino incrementando l’indice di seduzione melodica. La dice lunga un titolo in principio di seconda facciata: I’m A Rocker (e me ne vanto, te lo suono e te lo canto). La dicono tutta e superbamente un esercizio da manuale Who come Hard To Get Over A Heartbreak, una Ecstasy in anticipo su “Get The Knack”, i Byrds stavolta alle prese con i Lovin’ Spoonful di un’irresistibile Should I Wait. Non si sa cosa succeda. Appena sette settimane in classifica, un miserrimo numero 138. Beffa ulteriore che per chissà quale imbroglio contrattuale l’album sia oggi fuori catalogo, improponibili le cifre che vengono chieste per una copia in vinile, addirittura folli quelle che provano a estorcerti per un CD.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.184, settembre 2013. Oggi costa un po’ di meno procurarsene una copia in Rete, ma “Side 3” è tuttora fuori catalogo.

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The Sick Rose – Someplace Better (Area Pirata)

Ma davvero sono passati sette anni dacché i Sick Rose pubblicavano il predecessore di “Someplace Better”? D’altra parte quello si chiamava “No Need For Speed” ed era titolo che alludeva non al passo medio delle undici tracce ivi incluse, bensì al fatto che quel disco a sua volta si fosse fatto attendere un lustro. E – d’altra parte 2 – che devi fare se, essendo nato in un posto dove il rock’n’roll è sempre stato faccenda più minoritaria della sinistra radicale, non hai mai avuto la possibilità di farne, oltre che uno stile di vita, un modo di guadagnarsela la vita? Te la guadagni altrimenti e la musica si fa hobby da coltivare quando si riesce a inventarsene il tempo. Nei loro verdi anni – fra metà ’80 e inizio ’90 – i ragazzi furono dapprima una delle band più esplosive, a livello mondiale, del Sixties revival e poi un al pari eccelso esempio di rock non meno dinamitardo ma più devoto ai Flamin’ Groovies o agli MC5 che non al garage-punk alla “Nuggets”. Tornavano in pista, dopo qualcosa più che una pausa di riflessione, solo nel 2006 con “Blastin’ Out”, loro quinto album in studio raccolte escluse, e da allora la parola d’ordine è “power pop”.

Dopo due lavori prodotti da Dom Mariani (Stems, DM3, Datura) per questo nuovo il gruppo del cantante Luca Re e del chitarrista Diego Mese si è affidato a Ken Stringfellow (Posies, Big Star, R.E.M.) e di nuovo si è rivelata una scelta felice. D’altra parte 3: aveva del gran bel materiale da tirare a lucido costui. Nove pezzi di scintillante pop-rock in egual misura orecchiabile ed energico, in scia a eroi più o meno di culto (Shoes, 20/20) o di successo (Raspberries, Knack), e in coda un inatteso ritorno alle origini, con una Nobody di travolgente innodia e il vorticoso quasi-surf della traccia che suggella e battezza.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.398, maggio 2018.

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I primi (e unici) Pretenders

Lo so, è una frase fatta e abusata, ma a volte il destino sa sul serio essere cinico e baro. Lo era con James Honeyman-Scott. Moriva per un tiro di troppo di cocaina e che amara ironia che quel tiro di troppo fosse il primo e unico della sua vita. A stroncarlo era difatti un infarto dovuto a un’intolleranza che evidentemente non sapeva di avere per la sostanza in questione. Se ne andava il 16 giugno del 1982 e altro che iscriversi al famigerato “club dei 27”! James di anni non ne aveva che venticinque (e mezzo). Ma a proposito di Fato insopportabilmente cinico, ferocemente baro: succedeva due giorni dopo una drammatica riunione durante la quale lui, la cantante Chrissie Hynde e il batterista Martin Chambers avevano preso la decisione di allontanare dal loro gruppo il bassista Pete Farndon. Motivo? La tossicodipendenza (da eroina) ormai fuori controllo di costui. Nel giro di quarantott’ore i Pretenders si vedevano dimezzati (Farndon verrà stroncato da un’overdose da lì a dieci mesi) e naturalmente nulla sarà più lo stesso. Che spreco pazzesco di talento… A oggi (l’ultimo risale appena allo scorso ottobre) gli album in studio griffati con il riverito nome sono undici, ma soltanto i primi due possono esibirlo a buon diritto. Non è tanto un giudizio di merito, per quanto dopo il terzo ed eccellente “Learning To Crawl” la qualità media si sia inabissata. È che con Honeyman-Scott e Farndon avevano un suono che senza di loro si rivelerà irriproducibile. Ma andiamo per ordine?

Chrissie Hynde nasce ad Akron, Ohio (stessa città dei Devo e con Mark Mothersbaugh condividerà un complesso giovanile), nel 1951. Ventiduenne attraversa l’Atlantico per trasferirsi a Londra. Scrive per qualche tempo per il “New Musical Express” e poi passa a lavorare presso SEX, la boutique di Vivienne Westwood e Malcolm McLaren che fungerà da incubatrice al punk. Si trova così al centro della nascente scena e non si conteranno gli incroci (non sto a dettagliare per non finire lungo) con gente poi divenuta famosa. La faccio breve. A inizio 1978 la ragazza incide un demo che le procura un invito da parte di Dave Hill per un’audizione durante la quale esegue quelle stesse canzoni alla testa di un trio improvvisato con al basso tal Mal Hart e alla batteria Phil Taylor dei Motörhead. Favorevolmente impressionato dalla qualità dei materiali e soprattutto intuendo in Chrissie la stoffa della star, Hill le offre un contratto per l’etichetta che ha appena fondato, la Real Records, con l’intesa che formerà una band vera e propria. Originario di Hereford, capoluogo dell’omonima contea, Pete Farndon è il primo a venire reclutato ed è lui a presentare alla capobanda un chitarrista originario della stessa cittadina e quattro anni più giovane, James Honeyman-Scott. Dopo alcuni batteristi passati come meteore, a sedersi dietro piatti e tamburi è un terzo compaesano, Martin Chambers, ed è quel giorno del luglio 1978 che i Pretenders (che senza ancora avere un nome già avevano registrato alcuni brani al Regents Park Studio) nascono a tutti gli effetti. Alchimia magica quella che si crea, determinata dallo stile chitarristico da autodidatta della Hynde, cui strumentisti viceversa provetti come Honeyman-Scott e Chambers (Farndon è invece uno che supplisce con grinta e inventiva a una tecnica basilare) si adattano con una lieve sfasatura sulla battuta che rende il sound unico. Non bastasse la fenomenale voce della cantante: tono oscillante fra rock’n’roll e romanticismo, il maschiaccio e il sensuale. Incredibile che Nick Lowe non colga il potenziale del quartetto e, dopo avere prodotto la cover dei Kinks – Stop Your Sobbing, beat sentimentale ma pure di bella energia – che nel gennaio ’79 sarà il lato A del primo 45 giri, declini l’offerta di curare la regia del primo 33. Gli subentra Chris Thomas ed è un’altra scintilla che scocca: sarà il quinto Pretender pure quando i Pretenders originali si troveranno ridotti a due. Nell’omonimo LP d’esordio, che andrà nei negozi nei primi giorni del 1980 e raggiungerà il primo posto della classifica UK e il nono di quella USA, Stop Your Sobbing sigilla la prima facciata. La apre il riff a cento all’ora del monstre power pop Precious, cui vanno dietro una The Phone Call di esplosività trattenuta, il midtempo con chitarre squillanti Up The Neck, la frenesia sull’orlo del punk di Tattooed Boys, il funk strumentale Space Invader e una The Wait scandita da un altro riff di memorabilità immediata e totale. Giri il disco e a dare il cambio al romanticismo pop di Kid è il reggae da manuale (Grace Jones se ne approprierà subito) Private Life e a quello l’errebì bianco Brass In Pocket. Qui lo dico e mai lo negherò: il momento in cui Chrissie scandisce l’ultimo verso del ritornello – “gonna use my, my, my imagination” – è il più sexy della storia del rock. Punto. Nulla potrebbe sensatamente seguirlo, ma la dolcissima Lovers Of Today e la gioiosa, rovinosa apoteosi di elettrica graffiante, basso funk e batteria squadrata di Mystery Achievement lo fanno. Ed è un trionfo.

Sono passati trentasette anni (quasi trentotto in realtà dacché venne registrato) e “The Pretenders” nulla ma proprio nulla ha perso in dirompenza e freschezza. Multiforme la sua forza, che risiede (parole che prendo in prestito da Stephen Thomas Erlewine) “nell’elegante fusione di rock’n’roll alla Stones, new wave di gusto pop e aggressività punk, orecchiabilità spiccata e attitudine viziosamente cool”. Potrei aggiungere: nell’essere femminile e femminista insieme – nella pratica, prima che nella teoria – di Chrissie Hynde. È un album me-ra-vi-glio-so e meravigliosa è la riedizione Original Master Recording che da alcuni giorni gira sul mio stereo. Infedele all’originale nella confezione (la copertina è diventata apribile; riprodotte al suo interno quelle che erano le due facciate della busta) quanto fedelissima a un’incisione che prende possesso della sala d’ascolto con una vividezza, una tridimensionalità sconosciute alle stampe d’epoca. James Honeyman-Scott e Pete Farndon rivivono. Sfortunatamente, solo nello splendore del suono stereofonico.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.386, aprile 2017.

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Per Ofelia (le provenienze dell’amore)

Per ragioni che per chi mi segue saranno chiare fra qualche mese, da una settimana in qua sto rileggendo e redazionando un tot di miei vecchi articoli. Fra gli altri me ne è ripassato fra le mani uno che scrissi per il mensile “Dynamo!” nel lontanissimo 1995, pezzo cui sono molto affezionato e che considero uno dei miei migliori di sempre. Lì fra il tanto resto scrivevo di P.J. Harvey e notavo la derivazione della copertina dell’allora fresco di stampa “To Bring You My Love” da un celebre quadro, datato 1852, di John Everett Millais, Ophelia. Un dipinto molto ma molto familiare agli appassionati di rock.

Pearls Before Swine – Beautiful Lies You Could Live In (Reprise, 1971)

Christian Death – The Wind Kissed Pictures (Supporti Fonografici, 1985)

Electric Peace – Rest In Peace (Enigma, 1985)

P.J. Harvey – To Bring You My Love (Island, 1995)

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Una rockstar in cucina (per Anthony Bourdain, 25/6/1956-8/6/2018)

Cucinare è il nuovo rock’n’roll? A leggere Kitchen Confidential, autobiografia che nulla cela (e se qualcosa è stato nascosto non voglio saperne nulla) di Anthony Bourdain, leggendario chef newyorkese a proprio agio con la scrittura come con i fornelli, si direbbe proprio di sì, e non solo perché l’autore è uso cucinare con una colonna sonora a base di “Dead Boys, Richard Hell & The Voidoids, Heartbreakers, Ramones, Television e così via”. Fatto è che Bourdain ha avuto una vita spericolata da autentica rockstar del mangiare bene, con tanto di drogati eccessi e cadute in personali inferni dai quali lo hanno salvato giusto la forza redentrice di una nuova sfida culinaria, l’orgoglio del proprio sapere, la voglia di imparare ancora. Fatto è che il mondo tracimante testosterone di cui il nostro uomo descrive le quinte (che sono poi in realtà, naturalmente, il vero palcoscenico) vive della stessa maschia e alquanto infantile volgarità di cui si – ahem – nutre tanto rock. “Se ti offendi facilmente per degli insulti diretti sulle tue origini, le circostanze della tua nascita, la tua sessualità, il tuo aspetto, la possibilità che i tuoi genitori si siano accoppiati con degli animali, allora il mondo della ristorazione professionale non fa per te”, ammonisce Bourdain.

È uno dei tanti consigli dispensati in quasi trecento scorrevolissime pagine, molti dei quali applicabili soltanto alla situazione statunitense, parecchio diversa da quella italiana, ma altrettanti di universale utilità. Pochi si metteranno in testa di fare lo chef dopo avere letto questo libro. Più probabile che alcuni che vagheggiavano di farlo ci ripensino, scoraggiati dalla durezza dell’ambiente che descrive. Ma per fortuna di noi golosi, di noi che possiamo capire l’epifania di Bourdain dinnanzi alla prima ostrica succhiata da bambino (meglio di qualunque altra prima volta: “prima passera, primo spinello, primo giorno alle superiori, primo libro pubblicato”), qualcuno andrà avanti.

(Anthony Bourdain – Kitchen Confidential, Feltrinelli, pp.297)

Pubblicato per la prima volta sul sito dinamotorino.it, dicembre 2002.

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