Archivi del mese: aprile 2012

Brendan Benson – What Kind Of World (Readymade)

I casi sono due: o io con Brendan Benson ho un rapporto particolarmente sfortunato e parimenti ondivago oppure è Benson stesso a porgersi nella sua produzione da solista con forti dislivelli qualitativi fra un’uscita e l’altra. Non che io le abbia scrutinate tutte, eh? Mi capitava nel lontano ’96 di recensire per “Rumore” il debutto direttamente su major (Virgin) dell’allora ventiseienne artista del Michigan, “One Mississippi”, e ancorché in breve ne dicevo piuttosto bene, raccontandolo come un buon surrogato di Lenny Kravitz (che è tutt’altro che un insulto a casa mia se il riferimento è al Kravitz degli esordi), però meno funky, meno lennoniano, più McCartney, con un tocco di R.E.M. Potrei aggiungere: come suono se non (di sicuro no) per livello delle canzoni il disco che avrebbero potuto fare i Big Star li avesse prodotti Todd Rundgren. Non mi ritrovavo a scrivere di nuovo del Nostro che ben tredici anni dopo e a “My Old, Familiar Friend” mi accostavo con il pregiudizio ultrapositivo indotto dall’essere divenuto nel frattempo Benson uno dei Raconteurs e, anzi, addirittura il perno del progetto, a un livello di importanza pari a quello di Jack White. Tutto bene? Ma per carità! Una mezza ciofeca di disco che in tanti etichettavano power pop e io power flop, stroncandolo su due diversi giornali. Salvando giusto un primo brano, A Whole Lot Better, ammiccante ai Byrds nel titolo e a un Tom Petty con il pilota automatico in tutto il resto.

“What Kind Of World” deve essere rimasto impilato per non meno di un paio di settimane con quegli altri venti o trenta CD prima che mi venisse l’estro di fargli fare un giro. Non mi attendevo nulla di buono. Mi è piaciuto. Mediamente abbastanza, a tratti molto. Arrangiato con mano assai più lieve del predecessore (benché un synth vada ogni tanto sopra le righe), alquanto più energico e insieme più schiettamente melodico al netto di ogni ruffianeria e di certe scivolate nel kitsch. Per dire: se nell’album prima il Jeff Lynne che faceva capolino era in pieno flirt con la disco qui – si ascolti Bad For Me – è ancora quello che, rassegnatosi a non essere né John Lennon né Paul McCartney, provava a fare l’Harry Nilsson. Se Tom Petty lì tornava a collaborare (ma con esiti sciagurati) con David Stewart qui in un momento si immagina alla testa dei Raspberries (Light Of Day), in un altro di dare una mano a Peter Case per riformare i Plimsouls e ne deriva una Come On da urli e ovazioni. Se Happy Most Of The Time è un Costello giovane ma non cinico, Thru The Ceiling sono i Nada Surf più epidermici. Laddove con scarto improvviso, depistante e squisito il congedo On The Fence fa di Gram Parsons uno dei Little Feat. Mentre scrivo il compare Jack White è primo in classifica in Gran Bretagna, presumibilmente in forza delle sole prenotazioni di “Blunderbuss”. Benson, che aveva esordito per una multinazionale, “What Kind Of World” se l’è dovuto pubblicare per conto suo e mi sa che se lo fileranno in pochi. Bello stavolta sì, perdente sempre.

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Father John Misty

Esce oggi in Europa (negli Stati Uniti domani) “Fear Fun”, primo album come Father John Misty di Joshua Tillman, ex-batterista e arrangiatore dei Fleet Foxes. Ne ho già scritto lo scorso 3 aprile in questo blog, con anticipo forse eccessivo ma dovuto alla di poco precedente pubblicazione del mini dei Poor Moon.

Questo post, con allegato video di una delle canzoni più belle (per certo la più accattivante) di un disco sul quale ribadisco un giudizio assolutamente positivo, vale allora come promemoria.

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Non si esce vivi dagli anni ’80 (10)

Incredibile a dirsi, per una volta questa rubrica riesce a essere, come si suol dire, “sul pezzo”. Pubblicavo questo articolo nel dicembre 1985, all’indomani dell’uscita di “Don’t Stand Me Down”, terzo album dei Dexys Midnight Runners. Be’, siamo in pieno 2012 e stanno per mandare nei negozi il quarto. Spero che musicalmente stiano meglio di quanto non sembri stare Kevin Rowland che, in copertina del nuovo “Uncut”, fa abbastanza spavento. Più che un vecchio, direttamente un cadavere. Voglio però ricordarlo com’era, pensare che ancora vive.

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Il Mucchio n.694

È in edicola il numero 694 del “Mucchio”. Ho contribuito con recensioni degli ultimi album di Alabama Shakes, Del Fuegos, Dr. John, Macy Gray, Nive Nielsen & The Deer Children, Luca Sapio e Sea Of Bees e della riedizione della raccolta-tributo a Rainer Ptacek “The Inner Flame”. Nella sezione “Classic Rock” firmo retrospettive su Maureen Tucker e Lee Hazlewood e mi occupo inoltre delle più recenti ristampe di George Harrison, T.Rex, Earl Van Dyke e Barry White e delle antologie di autori vari “Listen, Whitey!” e “World’s Funkiest Covers”.

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Presi per il culto (8): Flamin’ Groovies – Now (Sire, 1978)

Brutti e perdenti i Flamin’ Groovies. Guardate una qualunque loro foto, di una qualunque epoca e in qualunque formazione, e beccatene uno che abbia la vaga sembianza della rockstar che del resto non è. Un mezzo Iggy Pop, un quarto di Mick Jagger, un ottavo di Jim Morrison… macché… degli sfigati sin in effigie e nell’intero loro percorso artistico una naturale attitudine a trovarsi nel posto giusto al momento sbagliato, a fare cose fuori luogo. Roba da volergli bene a prescindere, anche non fosse inappuntabile una discografia che forse non vanta capolavori assoluti (i  perdenti veri sono impermeabili al capolavoro come alla tragedia) ma non ne tiri via niente, sette album non contando la valanga di pubblicazioni postume e tutti variamente buoni. Puntualmente lo stesso però a finire negli elenchi di classici quando ci si ricorda dei Groovies: “Shake Some Action”, 1976, primo di tre LP per la Sire. Mai nessuno invece che si fili il secondo, “Now”, uscito due anni dopo e registrato negli stessi studi – Rockfield, Monmouth, Galles del Sud – e con il medesimo produttore, Dave Edmunds, uno che sul rock’n’roll l’ha sempre saputa lunga. Quasi un dantesco contrappasso perché “Now” qualcosa vendicchiò e allora che sia dimenticato. Siccome pure fra gli sfigati qualcuno più sfigato degli altri c’è sempre. Solo che lo riascolti e ti accorgi che un’unica cosa ha in meno rispetto allo stimato predecessore, vale a dire una fulminante title-track autografa, e per il resto è la stessa roba, una mediazione perfetta fra gli Scarafaggi pre-“Revolver” e le Pietre Rotolanti pre-“Their Satanic Majesties Request”. Con ad aprire una favolosa versione di una delle più favolose fra le canzoni dei Byrds, Feel A Whole Lot Better.

Breve riassunto delle puntate precedenti. I Flamin’ Groovies nascono a San Francisco nel 1965, per iniziativa di quei Cyril Jordan e Roy Loney che per un lustro faranno formidabile coppia autoriale, e cambiano varie ragioni sociali prima di assumere quella con la quale si procurano la nomea di migliore rock’n’roll band cittadina. Peccato per loro che nel frattempo la psichedelia abbia preso possesso della scena e che con essa la musica dei Groovies, una festaiola scheggia di anni ’50 aggiornata ai primi ’60 da un po’ di folk-rock, non abbia nulla a che vedere. L’esordio “Supersnazz”, che esce nel 1969 e patisce una pessima produzione, è un clamoroso anacronismo. Vende quel poco che basta a convincere la Epic a mollare subito il colpo e la più piccola Kama Sutra a subentrarle, persuasa di avere trovato quegli eredi dei Lovin’ Spoonful che le servono disperatamente. Che illusione! Mentre la psichedelia declina e i cantautori prendono possesso della ribalta, “Flamingo” (1970) e “Teenage Head” (1971) sciorinano un campionario di primordiale rock’n’roll e blues indiavolato se possibile ancora più fuori sincrono rispetto all’epoca. Dopo la defezione di Loney, sostituito da in tutto e per tutto da Chris Wilson, e un primo tentativo di album abortito con Edmunds in cabina di regia, i ragazzi si prendono una prima pausa. Di quattro anni, ma meglio sarebbe stato fosse durata cinque, giacché “Shake Some Action” anticipa la deflagrazione del punk e non ne sfrutta dunque commercialmente l’onda lunga. Ove “Now” uscirà con la marea tornata bassa. I soliti tempisti.

Disco che omaggia a più riprese gli Stones, riprendendo il titolo di un loro 33 giri meno il punto esclamativo (e un po’ pure la copertina di “Aftermath”),  rifacendone la ballatona Blue Turns To Grey e il raga-rock Paint It Black. Per il resto, fra Feel A Whole Lot Better e una pimpante There’s A Place (dal catalogo Beatles) incornicia alcune altre cover superlative, in particolare Reminiscing (Buddy Holly) e House Of Blue Lights (Jerry Lee Lewis), e una manciata di originali che felicemente le valgono. Tipo una Good Laugh Mun che è firmata Jordan/Wilson/Edmunds ma potrebbe essere di Lennon/McCartney/McGuinn e non so se mi sono spiegato. Chiuso il contratto Sire nel 1979 con il meno ispirato “Jumpin’ In The Night”, i Flamin’ Groovies si iberneranno fin verso a metà anni ’80, ritornando giusto in tempo per non sfruttare adeguatamente quel sixties-revival che aveva individuato in loro dei numi tutelari. Impagabilmente, dopo il semiantologico e splendido “One Night Stand” si congederanno di nuovo ed è stata l’ultima volta.

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Still Psychedelic After All These Years

Avevo visto i Pretty Things dal vivo una prima volta sul finire degli anni ’80. Furono simpatici e decenti, in un locale molto grande e semideserto (sì e no settanta persone), ma poco di più. Eseguirono tutto il primo album (una faccenda datata 1965) e mi fece una bizzarra impressione osservare quei tizi decrepiti impegnati nella ricerca del loro tempo perduto. Mai avrei immaginato che li avrei rivisti nel 2012, in un posto molto più piccolo ma in compenso bello pieno, e che si sarebbero prodotti in un concerto da paura, carrellata su una carriera intera e capace dunque di spaziare dal blues alla psichedelia via errebì. Favolosi. Ma sul serio. E non è che  stanotte mi siano sembrati più vecchi che nell’88 o ’89 o giù di lì.

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Questa mi sembrava di averla già sentita

Fra le cento altre mail di oggi ne ricevo una da EMI Music Italy che annuncia che da domani sarà disponibile per le radio il nuovo singolo di Richard Hawley, Leave Your Body Behind You. La vera e bella notizia, naturalmente, è che anticiperà di pochi giorni un album, “Standing At The Sky’s Edge”, che chi come me è un ammiratore dell’artista di Sheffield attende dal settembre 2009, quando vedeva la luce il pregevole “Truelove’s Gutter”. Ed è proprio perché sono un fan che auspico che a questo giro il nostro uomo non incorra in un altro imbarazzante “incidente” del tipo che questi due video documentano.

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Brian Jonestown Massacre – Aufheben (‘a’)

Come tanti, mi innamorai di questo gruppo di San Francisco che vanta una delle più brillanti ragioni sociali di sempre guardando il documentario del 2004 DIG!, a sua volta uno dei film più brillanti che mai si siano visti con al centro una rock band o per meglio dire due, essendo la seconda i mediocri Dandy Warhols. Come tanti, non potei che restare insieme affascinato e turbato dalla caduta in drogati inferi del líder máximo dei Californiani, Anton Newcombe, che la pellicola spietatamente testimonia: viaggio verso un cuore di tenebra che lascia scossi e insieme adirati, per l’insensato spreco di un talento immane, e di rado l’orrore e lo squallore della dipendenza da eroina hanno avuto una rappresentazione più disturbante. Tant’è… In un qualche miracoloso modo Newcombe è arrivato a vedere il 2012 (alzi la mano chi ci avrebbe scommesso un euro), ancora fa dischi e più sovente che no sono gran bei dischi. Chissà (non ho notizie di prima mano al riguardo) che non abbia persino messo un po’ la testa a posto, almeno almeno cambiando abitudini ricreative. Singolarmente atteso – due anni e due mesi: per gli standard del Nostro e dei suoi sempre variabili accoliti un’eternità – “Aufheben” è sfacciatamente e per l’ennesima volta music to take drugs to, per concepire la quale pare ovvio che di droghe se ne siano assunte, e tuttavia e vivaddio si direbbe che trattavasi di sostanze atte a espandere la mente. Mica di merda che sniffi o ti inietti.

Copertina assai brutta e per niente rappresentativa di quanto in essa alloggia, titolo in tedesco (le registrazioni sono state effettuate a Berlino) che tira in ballo Hegel, l’album realizza per certo uno dei sogni di fan di Newcombe, esegeta terminale e spesso epigono smaccato di Spacemen 3 e Spiritualized, assoldando in questa edizione dei Brian Jonestown Massacre Will Carruthers, che fu bassista tanto di questi che di quelli. Che ne risuonino echi negli undici brani per totali 51’10” che costituiscono l’opera appartiene per la sigla di San Francisco all’ordinaria amministrazione. Singolare è semmai che ce ne siano forse un po’ meno del solito, essendo altri i nomi “moderni” che vien da citare in prima battuta: i Primal Scream di “Screamadelica” per Waking Up To Hand Grenades, ma soprattutto gli Stereolab, particolarmente per un’iniziale Panic In Babylon che li mischia stupendamente ai Kaleidoscope (quelli americani) e subito dopo per Viholliseni Maalla. Lavoro parecchio orientaleggiante e ultrapsichedelico in una terra di mezzo fra il revival e il postmoderno, “Aufheben” trova i suoi apici epidermici quando cede senza porsi remore alla citazione: I Wanna To Hold Your Other Hand è una Tomorrow Never Knows in sedicesimo, Stairway To The Best Party una As Tears Go By catapultata sul palcoscenico di “Their Satanic Majesties Request”. Per cultori. Io lo sono.

“Aufheben” verrà pubblicato il 30 aprile in Europa, il 1° maggio negli Stati Uniti.

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I Only Have Eyes For You

Scott Walker – 3 (1969)

Nektar – Journey To The Centre Of The Eye (1971)

Pretty Things – Savage Eye (1976)

The La’s – The La’s (1990)

AA.VV. – The Inner Flame (1997)

Ian Brown – Music Of The Spheres (2001)

Baustelle – Amen (2008)

Rufus Wainwright – All Days Are Nights: Songs For Lulu (2010)

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Rufus Wainwright – Out Of The Game (Polydor)

Del figlio di Loudon Wainwright III e Kate McGarrigle ho sempre ammirato l’essere esagerato in ogni manifestazione della sua arte, la formidabile considerazione che ha di sé che, non fosse temperata da un indubitabile sense of humour, facilmente potrebbe scadere nella prosopopea. Perché bisogna essere forse un po’ geni ma certamente parecchio matti per fare andare dietro a cinque collezioni del “pop” più idiosincratico degli ultimi quindici anni (e che nondimeno miracolosamente lo hanno davvero reso una piccola star) due live di seguito (uno dei quali rifacimento integrale di un celebre concerto di Judy Garland), una raccolta di brani per soli piano e voce (tre dei quali scritti per accompagnare altrettanti sonetti di William Shakespeare) e, dulcis in fundo, un box autocelebrativo di diciannove dischi e sì, avete letto bene. Di costui ho sempre applaudito l’ardire ma che mi piacessero i dischi… be’… diciamo che se di sicuro non ho ascoltato la sua opera omnia è perché mai un suo album mi ha acceso. Qualche canzone qui e là, nulla di più. “Out Of The Game” è il primo lavoro di Rufus Wainwright che mi ha regalato più di un brivido o un sorriso passeggeri. Il primo che ho gustato da capo a fondo, a ripetizione, con piacere crescente.

C’entra ovviamente più di qualcosa che  si distacchi nettamente da quelle prime cinque prove in studio che fondamentalmente costituiscono il canone del Nostro. Se gli arrangiamenti orchestrali non sono spariti, per certo si sono assai ridimensionati. Se gli svolazzi operatici ogni tanto si riaffacciano, esattamente il loro comparire al proscenio con parsimonia li fa sottolineature appropriate in luogo che pleonastici florilegi barocchi. Dire “essenziale” il piglio con il quale l’opera si porge sarebbe troppo e nondimeno, rispetto al solito Rufus, questa quasi-linearità (tolte le “Songs For Lulu” che erano altra cosa ancora) è inaudita. Dato a Cesare quel che è di Cesare, che in questo caso e parlando di produzione è quel Mark Ronson il cui marchio di fabbrica è la patina vintage soul che contribuì la sua parte a fare di Amy Winehouse AMY WINEHOUSE, potrei suggerirvi una scorciatoia per far sì che “Out Of The Game” vi colpisca subito dritto al cuore. Partite dall’ultimo dei dodici pezzi in programma: addio alla madre scomparsa di dolcezza e pregnanza straordinarie, Candles è una ballata piano e chitarra acustica ricamata di  fisarmonica e cornamuse che se ci fosse un dio dovrebbe resuscitare Jeff Buckley soltanto per fargliela cantare. E non che Rufus già non lo faccia, per l’appunto, divinamente.

Il rischio che tutto il resto ne venga irrimediabilmente sminuito sarà subito sventato dai languori country e dalla micidiale melodia della traccia omonima e inaugurale, da una Jericho capace di intrecciare (come giusto nel mondo di Rufus Wainwright potrebbe accadere) Big Star ed Elton John, dal blues da music hall un po’ Queen e un po’ David Bowie di Rashida. Altre ovazioni per una Welcome To The Ball che se fa pensare a  Judy Garland è a una Judy Garland prodotta da Van Dyke Parks, per una Montauk da colonna sonora Disney d’antan, per una Respectable che sono gli Wilco alle prese con Brazil. Esagero? Anche per una Bitter Tears discoide à la Pet Shop Boys. Non mi hanno al contrario convinto granché il synth ossessivo di Barbara e il gonfiarsi eccessivo dell’orchestrazione di una Song Of You che parte molto Leonard Cohen ma, insomma, son peccati veniali.

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