I casi sono due: o io con Brendan Benson ho un rapporto particolarmente sfortunato e parimenti ondivago oppure è Benson stesso a porgersi nella sua produzione da solista con forti dislivelli qualitativi fra un’uscita e l’altra. Non che io le abbia scrutinate tutte, eh? Mi capitava nel lontano ’96 di recensire per “Rumore” il debutto direttamente su major (Virgin) dell’allora ventiseienne artista del Michigan, “One Mississippi”, e ancorché in breve ne dicevo piuttosto bene, raccontandolo come un buon surrogato di Lenny Kravitz (che è tutt’altro che un insulto a casa mia se il riferimento è al Kravitz degli esordi), però meno funky, meno lennoniano, più McCartney, con un tocco di R.E.M. Potrei aggiungere: come suono se non (di sicuro no) per livello delle canzoni il disco che avrebbero potuto fare i Big Star li avesse prodotti Todd Rundgren. Non mi ritrovavo a scrivere di nuovo del Nostro che ben tredici anni dopo e a “My Old, Familiar Friend” mi accostavo con il pregiudizio ultrapositivo indotto dall’essere divenuto nel frattempo Benson uno dei Raconteurs e, anzi, addirittura il perno del progetto, a un livello di importanza pari a quello di Jack White. Tutto bene? Ma per carità! Una mezza ciofeca di disco che in tanti etichettavano power pop e io power flop, stroncandolo su due diversi giornali. Salvando giusto un primo brano, A Whole Lot Better, ammiccante ai Byrds nel titolo e a un Tom Petty con il pilota automatico in tutto il resto.
“What Kind Of World” deve essere rimasto impilato per non meno di un paio di settimane con quegli altri venti o trenta CD prima che mi venisse l’estro di fargli fare un giro. Non mi attendevo nulla di buono. Mi è piaciuto. Mediamente abbastanza, a tratti molto. Arrangiato con mano assai più lieve del predecessore (benché un synth vada ogni tanto sopra le righe), alquanto più energico e insieme più schiettamente melodico al netto di ogni ruffianeria e di certe scivolate nel kitsch. Per dire: se nell’album prima il Jeff Lynne che faceva capolino era in pieno flirt con la disco qui – si ascolti Bad For Me – è ancora quello che, rassegnatosi a non essere né John Lennon né Paul McCartney, provava a fare l’Harry Nilsson. Se Tom Petty lì tornava a collaborare (ma con esiti sciagurati) con David Stewart qui in un momento si immagina alla testa dei Raspberries (Light Of Day), in un altro di dare una mano a Peter Case per riformare i Plimsouls e ne deriva una Come On da urli e ovazioni. Se Happy Most Of The Time è un Costello giovane ma non cinico, Thru The Ceiling sono i Nada Surf più epidermici. Laddove con scarto improvviso, depistante e squisito il congedo On The Fence fa di Gram Parsons uno dei Little Feat. Mentre scrivo il compare Jack White è primo in classifica in Gran Bretagna, presumibilmente in forza delle sole prenotazioni di “Blunderbuss”. Benson, che aveva esordito per una multinazionale, “What Kind Of World” se l’è dovuto pubblicare per conto suo e mi sa che se lo fileranno in pochi. Bello stavolta sì, perdente sempre.