Archivi del mese: giugno 2012

Il Mucchio n. 696/Extra n.38

È in edicola il numero 696 del “Mucchio”. Include mie recensioni dei nuovi album di Adele & Glenn, Aesop Rock, Dexys, Simone Felice, Gentle Mystics, Laetitia Sadier, Bobby Womack e Ben Zabo. Nella sezione “Classic Rock” firmo una “Pietra miliare” dedicata a “Just As I Am” di Bill Withers e mi occupo di ristampe di Donnie & Joe Emerson, Johnny Otis, Annette Peacock, Diana Ross e Small Faces. Nel numero 38 di “Extra”, pubblicato come allegato, firmo una lunga retrospettiva su Randy Newman e inoltre recensisco un album di Ladybug Transistor e un DVD dei Mott The Hoople.

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Presi per il culto (17): Cymande – Cymande (Janus, 1972)

Questa che vado succintamente a raccontarvi è una storia curiosa, ma senza drammi. Quasi una bella favola, sebbene sia pure il resoconto di un fallimento. È un benevolo caso che le fornisce l’incipit. Il 18 ottobre 1971 John Schroeder si reca in un club del quartiere londinese di Soho per visionare un gruppo. Già produttore per EMI e Pye, primo a dare alla Motown una distribuzione britannica, ha fatto due soldini scoprendo gli Status Quo e soprattutto cofirmando un numero uno per Helen Shapiro e vendendo in proprio quel milione di copie di un 45 giri a nome Sounds Orchestral. La band che vorrebbe vedere ha dato forfait e in sua vece si esibiscono i Cymande (nel folklore delle Indie Occidentali, da dove tutti quanti provengono, è la parola per “colomba”, simbolo universale di pace), che a questa altezza sono Ray King (voce), Patrick Patterson (il leader; chitarra), Steve Scipio (basso), Mike Rose (sassofono, flauto e bonghi), Derek Gibbs (secondo sassofono), Peter Serreo (terzo sassofono), Pablo Gonzales (conga) e Sam Kelly (batteria). Schroeder resta affascinato da ciò che ascolta, miscela inaudita di funk e psichedelia, afrobeat e latinismi santaniani, jazz e soul, con un retrogusto di reggae e in tralice persino del progressive, e in novembre fa registrare ai ragazzi un demo con quattro pezzi, pur non sapendo bene ancora che farne. Lo porta con sé quando nel gennaio seguente va a Cannes, al MIDEM, e fra coloro ai quali ne allunga una copia c’è Marvin Schlacter della Chess. Al ritorno a Londra trova un telegramma “Cymande, ottime reazioni, ci piacerebbe pubblicarli”.

Ed è così che il primo, omonimo LP di una formazione che nel frattempo ha cambiato cantante (il nuovo è Joey Dee) esce sull’etichetta personale di Schroeder, la Alaska, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti per una dipendenza della casa cui dobbiamo Chuck Berry e Muddy Waters. Esordio superlativo, forte di brani sensazionali come le ultralisergiche Dove e One More, la sognante Listen, le tribali Rastafarian Folk Song e Zion I e soprattutto The Message, caracollante funk in salsa latin-jazz che fa il botto nelle radio. I Cymande vengono convocati in gran fretta per una serie di spettacoli dal vivo (per l’occasione Desmond Attwell prende il posto di Serreo) e, increduli, si trovano a suonare all’Apollo e a conoscere diversi dei loro eroi, ubriacatura di gloria che passa alla svelta quando al ritorno a Londra scoprono che l’album, che negli Stati Uniti ha stabilito un piccolo record finendo in tutte e tre le classifiche (jazz, R&B e pop), è passato (San John Peel unico propagandista) completamente inosservato a casa loro, flop che farà sì che la Alaska non possa nemmeno permettersi di stampare il successore, “Second Time Round”. Vedrà così la luce soltanto negli USA, sempre su Janus, suscitando pur’esso buone reazioni, soprattutto con la dinoccolata Fug. Per cogliere l’attimo bisognerebbe avere la voglia e il coraggio di trasferirsi. Ai Cymande mancano. Nel 1974 “Promised Heights” li scopre in forma ancora smagliante (Brothers On The Slide forse il migliore apocrifo di Curtis Mayfield di sempre, Equatorial Forest una gemma di progressive da un altro pianeta), ma è l’addio. Un ulteriore, non eccezionale 33 giri, “Arrival” (coinvolti Patterson, Scipio, Rose e Kelly), farà capolino nel 1981 su Winley, label newyorkese fra le prime a licenziare rap: significativa coincidenza. E poi basta davvero. Basta?

Forse fino a oggi i Cymande non li avevate mai sentiti nominare e nondimeno è altamente probabile che, senza saperlo, abbiate negli scaffali della musica di costoro. Basta che possediate “3 Feet High And Rising”, debutto dei De La Soul e caposaldo fra i massimi dell’hip hop datato 1989. Puntate la terza traccia, Change In Speak, ed ecco, gira su un campionamento di Bra, da questo primo LP di Patterson e soci. Riprendete in mano l’originale: pulsazione iperfunk del basso subito ancorato a terra/scagliato al cielo da fiati qui randellanti, là sinuosi, e voci insieme calorose e ieratiche. In mezzo, un break che urla “campionami! campionami!” (e difatti…) e una chitarra elettrica che fa capolino e sguscia, ebbra di fumi stupefacenti. Se Fela Kuti fosse stato George Clinton? In tanti sono da allora andati dietro ai De La Soul, dai Fugees a DJ Kool, da Heavy D a Master Ace, a (uscendo dagli USA) MC Solaar e Ruthless Rap Assassins. Se tutti hanno pagato il dovuto, probabile che i componenti di Cymande abbiano guadagnato dalla loro musica più nei ’90 che nei ’70. Non che ne abbiano particolarmente bisogno. Patterson è un avvocato di grido, Scipio fa il giudice, altri si sono più plausibilmente affermati come turnisti. Ve l’avevo detto che in fin dei conti era una bella storia.

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Bobby Womack – The Bravest Man In The Universe (XL)

Finora decisamente anno di pantere grigie, il 2012. Tocca farsene una ragione e accettare che è nella logica delle cose che sarà sempre di più così e fintanto che le pantere grigie non cominceranno a lasciarci. Mancano (nel senso di: sono troppo pochi) i grandi artisti giovani e a quei pochi troppo spesso manca il carisma. Stiamo saltando (abbiamo già saltato) intere generazioni e chi ne ha una più acuta, anche dolorosa consapevolezza sono proprio i venticinquenni, i ventenni e a scendere di oggi. I quindicenni che si imbattono su YouTube in questo o quel classico di decenni fa e fra eccitazione e smarrimento si domandano dove siano le loro di canzoni. Ma non è argomento che si possa affrontare e risolvere dicendo di un disco e serviva solo per introdurre a un inatteso e sfolgorante ritorno e al quarto eccellentissimo album pubblicato, in questi primi sei mesi di 2012, da un ultrasessantenne quando non settantenne: dopo “Old Ideas” di Leonard Cohen, “Locked Down” di Dr. John, “Banga” di Patti Smith, ecco a voi “l’uomo più coraggioso dell’universo”. Magari forse no, ma uno dei più stilosi per certo sì. A proposito di “più”: non il più venerando della nobile quanto felicemente scapestrata compagnia, Bobby Womack, e nondimeno colui con lo stato di servizio nettamente più stagionato. Prima esibizione in pubblico? Primavera 1952. Aveva otto anni. Altra cosa che non si può fare recensendo un disco: comprimere in poche centinaia o migliaia di battute che siano una vicenda così lunga.

Tanto lo so che siete preparati e che, se su qualche specifico argomento avete delle lacune, potete cavarvela da soli. Mi limito dunque all’essenziale, partendo dall’incrocio sotto la navata di una chiesa, nel 1953, fra i giovanissimi Womack Brothers e i divi Soul Stirrers, fatidico in quanto Sam Cooke restava impressionatissimo dal ragazzino che sapete. L’uomo di You Send Me scorterà i fanciulli, ribattezzatisi Valentinos, nel passaggio dalla musica sacra a quella secolare ed era bello e amaro che Bobby si conquistasse l’indipendenza in quello stesso 1964 di cui il mentore non vedeva la fine, firma in calce a It’s All Over Now che era la canzone che regalava il primo numero uno americano a tali Rolling Stones. Ma soprattutto gli anni ’70 e i primi ’80 saranno fitti di trionfi per il nostro eroe, artefice di un soul raffinato ma quasi mai lezioso, innervato di country, di pop e di gospel, a un apice di maturità in un paio di lavori entrambi chiamati “The Poet”. Volumi uno e due, ’81 e ’84 rispettivamente. Ed è così che da allora lo chiamano tutti: il Poeta.

E come vogliamo chiamarlo Damon Albarn? Il Rompiscatole? Ma meno male che c’è, meno male che continua a mettere a buon frutto i proventi dei tanti e meritati successi dei Blur, propagandista di world music di un’efficacia e una rilevanza paragonabili ormai a un Peter Gabriel o a un David Byrne e non a quello si limita. Ogni tanto va a scomodare qualche suo idolo. Da lungi Bobby Womack si godeva una dorata pensione, l’ultimo lavoro in studio faccenda del lontano 1999, e chi va a disturbarlo? Era il 2010, la scusa un cameo in “Plastic Beach” dei Gorillaz, ma sul fatto che Albarn da subito avesse in mente ben altro scommetterei qualunque cifra. Ed eccolo il “ben altro”, tredici brani per complessivi trentasette minuti che, come ha magistralmente sintetizzato Stephen Thomas Erlewine, suonano cento per cento 2012 e cento per cento Bobby Womack, un po’ come accadeva due anni or sono con lo sfortunatamente testamentario “I’m New Here” di Gil Scott-Heron. Scorretene i crediti: vi imbatterete lì pure in Albarn e soprattutto in Richard Russell, arrangiatore e produttore che alla realizzazione di “The Bravest Man In The Universe” ha offerto un apporto almeno altrettanto decisivo. Esattamente a metà scaletta, in un interludio di ventuno secondi, Gil viene a farci un saluto dall’oltretomba e confesserò di essermi commosso. Intorno, un disco con la batteria dell’hip hop, i suoni del downtempo più fosco e in mezzo come nulla fosse schegge di gospel (Sweet Baby Mine) e scorci di jazz (Dayglo Reflection), ritagli cameristici (l’attacco della traccia omonima) e fughe per tangenti techno (Jubilee). Gli apici due apparenti opposti: una ballata acustica come Deep River all’incrocio fra Impressions e Otis Redding, una Nothin’ Can Save Ya che ipotizza un Tricky pacificato in una cornice di Portishead paranoici.

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Le Freak (Out) c’est poco chic: qualche stagionato appunto sul primo album di Frank Zappa

Era un altro 27 di giugno, di – un po’ mi fa spavento scriverlo – ben quarantasei anni fa: i o le Mothers Of Invention debuttavano a 33 giri ed era debutto che per certo si faceva notare, addirittura quattro facciate di vinile e nel rock fino a una settimana prima, al Dylan di “Blonde On Blonde”, nessuno aveva osato tanto. Figurarsi degli esordienti! Controverso da subito almeno quanto ambizioso e dunque moltissimo, dello sterminato catalogo zappiano “Freak Out!” resta uno degli articoli che più dividono. Ben a ragione di ciò Stefano Isidoro Bianchi ne faceva, nell’ottobre 2002, l’argomento di una delle puntate di Destroy Babylon, brillante e indimenticata rubrichetta blow-uppiana in cui si scherzava con i santi e si lasciavano in pace i fanti. Io contribuivo così.

Tanto vale dichiararsi subito: mai amato l’uomo di Cucamonga (sono per Beefheart, io), alcuni tratti della cui personalità – umana e artistica – ho sempre trovato detestabili e principalmente presunzione, frigidità emotiva e gratuita volgarità (spacciata per satira e allora Beavis & Butthead sono i Voltaire che ci meritiamo). Ma più che altro, pur annoverandone alcuni fra i miei più cari amici e/o fra i colleghi che maggiormente stimo, non ho mai sopportato gli zappofili, tristanzuola genìa che dal suo idolo mutua puntualmente e peggiorandoli gli aspetti più sgradevoli. E dire che tanto di Zappa ci sarebbe da salvare, a livello perlomeno di intenzione se non per gli esiti! In primis – dice bene Giordano Montecchi che fra gli esegeti del Frank è fra i più acuti e i meno smaccatamente apologetici – una capacità di sintesi (che è altra cosa rispetto alla contaminazione) inaudita. Anche se non sono poi affatto certo che lo stesso Caro Estinto condividerebbe la sua iscrizione in toto in una – seppure da lui grandemente allargata – orbita rock.

Tutto questo lungo preambolo per dire che mi sono accostato al riascolto di “Freak Out!”, che da molti anni prendeva polvere nei miei scaffali, armato di robusti pregiudizi. L’ho sempre pensato opera sopravvalutata nell’ambito della stessa discografia zappiana e se sta a casa mia è giusto per meriti “storici”, non perché mi sia mai piaciuto, ove “Hot Rats” e il poco considerato “Waka/Jawaka” (voti: 9 e 8) sono stati viceversa, in altri tempi (quando il tempo per mandare a memoria i dischi ancora c’era), mandati a memoria. Fra i tanti capolavori di quel paio di anni che cambiarono irrimediabilmente la musica popolare del XX secolo (tanto per andare giù con i calibri pesanti mi limito a citare Hendrix, i Beatles e i Velvet) mi è sempre parso il proverbiale vaso di coccio fra quelli di ferro. Un vaso sgraziato poi, sghembo, dai colori lividi e con qualche crepa. Non ho cambiato idea. Devo però onestamente ammettere che me lo rammentavo peggiore e che ho cavato un qualche piacere dal tornare brevemente a frequentarlo, soprattutto per quanto attiene alle prime due facciate. Se non proprio pepite, si scavano fra i loro solchi pietruzze sbrilluccicanti mica male, dall’orroroso vaudeville di Who Are The Brain Police? all’esilarante doo wop di Go Cry On Somebody Else’s Shoulder, dal valzerino con influenze soul How Could I Be Such A Fool a quella clamorosa parodia dei Fab Four che è Any Way The Wind Blows. Passato al secondo LP, ho parecchio goduto con una Trouble Everyday che a me ricorda (deliro?) i 13th Floor Elevators, salvo poi annoiarmi sempre più ed essere quasi tentato di togliere a metà The Return Of The Son Of Monster Magnet. Caos alle mie orecchie poco o punto palingenetico in cui taluni hanno individuato un afflato stravinskijano che mi sfugge.

Tanto altro si potrebbe naturalmente dire su “Freak Out!”, partendo magari dalla confezione e dall’interminabile lista che espone di “persone che hanno contribuito materialmente in molti modi a rendere la nostra musica ciò che è”. Centosettantanove nomi, fra cui innumerevoli esponenti della musica colta ma anche diversi bluesmen, e non è curioso per uno che la negritudine non l’ha mai padroneggiata? Ma sono altri gli album di Zappa che meritano analisi approfondite. (7) al primo disco, (6) al secondo.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.53, ottobre 2002.

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Christian Bland & The Revelators – Pig Boat Blues (Reverberation Appreciation Society)

Il mio gruppo preferito degli ultimi sei-sette anni? Di getto, senza pensarci su, direi certamente i Black Angels, forse anche i soli non italiani che nello stesso arco temporale mi sia capitato di vedere dal vivo due volte. Perdipiù in trasferta ed è cosa che succede sempre più di rado. Dopo averci pensato su, la risposta probabilmente non cambierebbe: Black Angels. Per la capacità del combo di Austin di fare rivivere contemporaneamente i concittadini 13th Floor Elevators e quei Velvet Underground da un cui brano – via Munch – hanno preso il nome. Impatto di una potenza paragonabile ai Sonic Youth, propensione a dilatazioni di stampo Grateful Dead (meno il substrato roots), un antecedente certo in materia di psichedelia rispettata nello spirito prima che nella lettera negli Spacemen 3, rispetto a questi, quelli e quegli altri ancora i Texani vantano in più una sensibilità pop che li ha portati ai confini di un (per carità: piccolo) successo mainstream: nel 2010 l’ancora senza un successore “Phosphene Dream” era cinquantaduesimo nella classifica di “Billboard”, il singolo Telephone colonna sonora della pubblicità di un’automobile e sono quei piccoli colpi di fortuna che economicamente ti cambiano la vita. Sempre nel 2010 il chitarrista Christian Bland dava alle stampe un suo “The Lost Album” che io coerentemente, be’, mi perdevo. Non fosse stato per la segnalazione di un lettore (ne ho di davvero attenti e ne sono davvero contento), mi sarei perso pure “Pig Boat Blues”.

Cose che possono capitare con artisti che pubblicano solo in mp3 e in vinile, in tirature limitate, su etichette fantomatiche e clandestine, e poco da stupirsi allora che sfuggano ai radar non soltanto della stampa specializzata ma persino del Web. Per Bland i Revelators sono chiaramente un dopolavoro, sebbene oggi sicuramente meno “dopo” che all’altezza di un predecessore (l’ho recuperato, ho studiato) con qualità tecnica da demo e una scrittura nettamente meno estrosa e variegata della media della casa madre. Per il… blues della porcilaia galleggiante?… l’impegno è lievitato, i suoni sono stati curati di più (basta che non vi aspettiate gli Steely Dan), le canzoni (in quarantasei minuti ne sfilano sedici) evidenziano pur’esse verve e attenzione al dettaglio in vistosa crescita. Vi dico quelle che mi sono piaciute particolarmente: la mesmerica cantilena con finalino hard blues Say Hello, una Shadow Child all’incrocio fra Bob Dylan e il primo Julian Cope, gli Elevators che si danno al surf di CIA, lo stridulo raga (in singolare contrasto con il titolo) Beatles. E, più di tutte queste, una Shark Attack sognante e decisamente floydiana nei primi tre e mezzo dei suoi oltre sette minuti.

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File Under: Essential Listening – La vita, il tempo, le opere degli Hüsker Dü

Mi piacerebbe potere affermare che la sera del 16 giugno 1987 lasciai il Big Club di Torino lieto di avere appena assistito a uno dei concerti più memorabili della mia vita, ma mentirei a me stesso prima che a chi mi legge. Me ne andai invece sottilmente insoddisfatto del pur esplosivo spettacolo di cui ero stato testimone e senza sapermi spiegare il perché. Forse in quell’ora o poco più di canzoni straordinarie eseguite impeccabilmente avevo oscuramente colto – mi dissi qualche mese dopo, quando la notizia dello scioglimento degli Hüsker Dü gettò nel lutto una generazione: la mia – che quegli anni importanti di cui parla la canzone che apre “Warehouse: Songs And Stories” erano giunti al capolinea. E che nessuno avrebbe potuto restituirceli. Ma nessuno potrà nemmeno rubarceli, mai. Quando sette anni dopo mi ritrovai a scrivere questo articolo un’altra generazione aveva da poco perso il suo di eroe, in maniera tragicamente più definitiva.

Hüsker Did

Sarebbero potuti essere… “i vecchi Nirvana”: il primo gruppo d’estrazione punk ad assurgere allo stardom globale. Guardando le cose da un altro punto di vista: la loro epopea avrebbe potuto avere un epilogo ben più triste di quello, pur amarissimo, che ebbe. Ipotesi. Ma esaminando il “caso Hüsker Dü” (uno dei più sovente ripresi in mano, ultimamente, dalla critica d’ogni dove) emergono anche alcune solide certezze. Una delle quali è: niente Hüsker Dü, niente Nirvana. Con tutto ciò che consegue. Sarebbe immaginabile la scena rock odierna senza il gruppo di Smells Like Teen Spirit? Sarebbe divenuto mainstream ciò che un tempo era l’underground? Ci si troverebbe con i Green Day e gli Offspring (prossimamente, i Bad Religion: vogliamo scommetterci?) per mesi nei Top 10 USA e con band assolutamente anticonvenzionali come i Butthole Surfers e i Melvins sotto contratto per delle major? Sicuramente no. Ebbene, furono gli Hüsker Dü a spianare la strada a quanto è venuto dopo, firmando, dopo una mezza dozzina di LP su New Alliance, Reflex, SST, per la Warner. Se poterono farlo senza che la confraternita punk, solitamente fondamentalista, mugugnasse più di tanto è solo perché si erano in precedenza guadagnati sul campo un patrimonio di credibilità che nemmeno il disgraziato finale della loro carriera dilapiderà del tutto. Dimostrando che si poteva incidere per una multinazionale senza scendere a compromessi, sfidarono/sfatarono un tabù che oltre Atlantico era dominante e resero possibile quanto è accaduto da allora. Ne sono dunque corresponsabili, nel bene e nel male.

Ma la loro influenza sul rock attuale è enorme anche in termini di impatto sonico e costruzione delle canzoni. Sul valore di quelle si misura alla fine, quando si tirano le somme di una parabola artistica ormai conclusa, l’effettiva statura di un gruppo, e negli otto album dei Nostri figurano non poche fra le canzoni più memorabili di un decennio che soltanto R.E.M. e Sonic Youth hanno segnato altrettanto in profondità. Se il “suono Hüsker Dü”, possente e grintoso, violento eppure generoso di seduzioni melodiche, è imitatissimo e nel contempo resta unico e inimitabile è perché non nascono tanto spesso autori del calibro di un Bob Mould o di un Grant Hart. Da molti punti di vista, il Lennon e il McCartney della loro generazione.

Non paia un’eresia a nessuno il raffronto fra Beatles e Hüsker Dü. Naturalmente inaccostabili in termini di influenza extramusicale sulla loro epoca, le due band hanno per il resto seguito percorsi sorprendentemente simili: gli uni e gli altri hanno consumato la loro vicenda in un arco temporale relativamente breve, nel corso del quale si sono dimostrati eccezionalmente prolifici; tanto i primi che i secondi sono giunti allo scioglimento in maniera traumatica, e in entrambi i casi cogliendo di sorpresa i fans; infine, persino il post-split presenta non poche similitudini. Gli Hüskers molto dovevano alla lezione dei quattro di Liverpool ed ebbero l’onestà di riconoscerlo. Lo ufficializzarono persino, con una stupenda rilettura di Helter Skelter, catturata in concerto, sul primo 12” per la Warner. Restò a lungo in scaletta quel tellurico assalto all’arma bianca (pure questo merito, fra i tanti altri, hanno avuto i Beatles: l’avere inventato, con un singolo brano una dozzina d’anni in anticipo sui tempi, l’hardcore) cui seguiva, in medley, una liricissima Ticket To Ride.

Altre due celebri cover dei ’60 hanno fatto parte del repertorio del trio del Minnesota, significative quantomai per chiarire ove quel sound modernissimo affondasse in larga parte le sue radici: Sunshine Superman, del menestrello hippie per eccellenza Donovan;  Eight Miles High dei Byrds, che era stato forse il migliore singolo dell’era psichedelica e che gli Hüskers resero, nella loro interpretazione, il migliore singolo hardcore di sempre.

Si diceva dianzi dell’inusuale prolificità della band formata dal chitarrista Bob Mould, dal bassista Greg Norton e dal batterista Grant Hart (la formazione resterà fino in fondo questa) in quel di Minneapolis, sul principio del ’79: fra il primo 45 giri, datato gennaio 1981, e l’ultimo 33 ci sono poco più di sei anni, nel corso dei quali hanno visto la luce otto album, due dei quali doppi, e almeno altrettanti fra 7” e 12” contenenti materiale inedito. Ora, chiaramente, a rendere fuori dal comune la produzione degli Hüsker Dü non è tanto la quantità (qualcuno per caso si ricorda dei Milkshakes? sono andati avanti per anni facendo uscire un LP ogni tre o quattro mesi… no, vedo che nessuno alza la manina) quanto la qualità uniformemente elevata, spesso straordinaria. Fin dal debutto.

Statues/Amusement, singoletto marchiato Reflex ormai materiale da fiera del disco raro (ma niente paura: i due brani sono stati inseriti come bonus, con i tre dell’EP In A Free Land e un paio di inediti, nell’edizione su compact di “Everything Falls Apart” – e trattasi per di più di CD economico), suona oggi (non ottenne a suo tempo recensioni granché entusiastiche) come un’inequivocabile promessa di grandi cose a venire. Non tanto per via del pur pregevole lato A, oltre sei minuti di nervosissimo punk-funk-jazz in scia ai Minutemen, quanto grazie al retro: Amusement è un’anemica ballata dal ritornello a presa rapida che sa di grunge “unplugged” prima che a chiunque venisse in mente una cosa o l’altra (figuriamoci le due insieme). Il primo capolavoro firmato Bob Mould, insomma.

Tutt’altri suoni escono prorompenti dai solchi dell’esordio a 33 giri, registrato dal vivo nel corso della prima tournée della band, nell’estate ’81, e dato alle stampe all’inizio dell’anno seguente dalla californiana New Alliance. “Land Speed Record” è di gran lunga l’opera più grezza ed estremista della storia degli Hüsker Dü: diciassette… canzoni? tutte molto brevi, tranne la conclusiva Data Control, che parlano la lingua di un hardcore forsennato, caotico almeno in apparenza (ma vi è del metodo in questa follia), velocissimo, fragoroso. Persino oggi, in epoca post-grind, l’ascolto di questi suoni fra l’urticante e il lancinante risulta difficoltoso, intimidente persino.

Da “Land Speed Record” in avanti, però, ogni lavoro degli Hüskers risulterà più accessibile rispetto al precedente, sempre meno hardcore e più pop, più articolato. Influenze molteplici – dal pop chitarristico dei ’60 al garage-punk di quello stesso decennio e del seguente, passando per la musica popolare americana, la psichedelia, certo jazz – si affacceranno e renderanno il suono, nello stesso tempo, più vario e personale, inconfondibile. “Everything Falls Apart”, datato 1983, di nuovo su Reflex (fantomatica casa discografica gestita dal gruppo stesso), è paradigmatico al riguardo, con i sentori Black Flag secondo periodo di From The Gut, la muscolare ripresa di Sunshine Superman, l’irresistibile richiamo punk-pop della title-track. Ci si trova di fronte a una band in crescita, è lampante, ma nessuno all’epoca (probabilmente, nemmeno gli Hüskers stessi) avrebbe potuto immaginare quanto, e quanto rapidamente.

Fu nel 1984, l’anno dell’ingaggio da parte della SST del non ancora ex-Black Flag Greg Ginn (piccola etichetta che gli Hüsker Dü dapprima salvarono dal fallimento e poi resero la principale indie americana), che divenne evidente che il trio di Minneapolis era oramai una delle colonne portanti del rock a stelle e strisce. Tre i manufatti vinilitici di quell’annata invero di grazia. Aprì le ostilità un mini, “Metal Circus”, sette scariche d’adrenalina ad alto tasso di assorbimento mnemonico. Lo seguì a ruota il 7” con sul lato A Eight Miles High, di cui già si è detto. E poco dopo, ecco “Zen Arcade”. Una pietra miliare, l’album che da solo ridefinì – e da molti punti di vista archiviò (nel senso che dopo nessuna autentica evoluzione era più possibile) – l’hardcore. Ammesso che un’etichetta come “hardcore”, o qualunque altra, possa essere appiccicata a quattro magmatiche facciate nelle quali composizioni di un’efferatezza sonica degna di “Land Speed Record” si alternano a siparietti semi-acustici e entusiamanti assalti popcore (un titolo per tutti: Pink Turns To Blue, uno dei migliori del catalogo di Grant Hart), e il tutto sfocia negli allucinati quattordici minuti (raga-punk?) della conclusiva Reoccuring Dreams. Una performance che al ventesimo ascolto lascia a bocca aperta per lo sconcerto e l’ammirazione esattamente come al primo.

Incredibile, ma vero, come le notiziole della “Settimana Enigmistica”: “Zen Arcade” ancora non era nei negozi e già i nostri eroi erano chiusi in studio, in una breve pausa fra un tour e l’altro, per registrarne il seguito. Come non pensare, a posteriori, che proprio questa frenesia creativa abbia contribuito, oltre che alla leggenda del trio del Minnesota, alla sua fine? “Vivi in fretta, muori giovane, cerca di essere un bel cadavere” era il motto del gangster protagonista di un noto film hollywoodiano: gli Hüsker Dü lo presero alla lettera. Quasi.

“New Day Rising” usciva nel gennaio ’85, “Flip Your Wig” otto mesi più tardi. Tuttora campioni di vendite della label della West Coast, sono gli ultimi due del poker di titoli dei Nostri per la SST. Sono dischi, praticamente intercambiabili fra di loro, che di “Zen Arcade” conservano la varietà d’ispirazione smussandone nel contempo gli spigoli più acuminati. Si fa preferire il primo (ma sono entrambi nel complesso straordinari) per via della presenza di alcune canzoni particolarmente memorabili: I Apologize innanzitutto, dal ritornello che è un colpo al cuore; Terms Of Psychic Warfare, che rivela potenti influssi dylaniani; Books About UFOs, con quel suo inedito pianoforte ai limiti del boogie.

Passano altri cinque mesi (veramente: era dall’epoca dei Beatles e dei primi Stones che un gruppo non faceva uscire i suoi LP – e che LP! – a ritmi così serrati) ed ecco “Candy Apple Grey”. Un album che doveva affrontare una sfida erculea – convincere i vecchi fans che il passaggio alla Warner non aveva (né avrebbe) avuto influenze deleterie sulla musica degli Hüskers e contemporaneamente conquistarne di nuovi – e la vinse con una disinvoltura impressionante. Degno prologo a quello storico doppio, “Warehouse: Songs And Stories”, che un anno dopo avrebbe segnato insieme lo zenit della vicenda artistica dei Nostri e il nadir di quella umana. Il conseguente scioglimento va ritenuto, con il senno di poi, calamità inevitabile.

Era successo che da qualche parte – fra un concerto e l’altro su e giù per gli States, fra una seduta e l’altra in sala d’incisione, fra una prova in cantina e l’altra alla vigilia dell’ennesima, interminabile tournée, mentre canzoni bellissime seguitavano a sbocciare – l’amicizia fra i due leader era appassita. Battaglie di ego in non più rispettoso confronto si erano scatenate. Da una comunicazione franca e cordiale si era passati gradualmente all’incomunicabilità più totale. I problemi personali – l’alcolismo di Bob Mould, la tossicodipedenza di Grant Hart, di cui fino all’ultimo nessuno ebbe nemmeno sentore al di fuori della band – si erano pesantemente aggravati.

Un pullman a bordo del quale nessuno parla che corre sulle strade d’America: ecco il ricordo che ho dell’ultimo periodo di vita degli Hüsker Dü. Nessuno di noi riusciva più a comunicare con gli altri. Si respirava un’aria spessissima.” (Grant Hart, 1989)

Chi oggi ha diciassette-diciotto anni, e quindi andava all’asilo quando vide la luce “Land Speed Record”, può ascoltare i dischi degli Hüsker Dü e apprezzarne in pieno la grandezza, ma non potrà mai capire fino in fondo quanto risultò scioccante per l’underground la notizia del loro scioglimento. Perché erano stati amati, gli Hüskers, non soltanto per la loro musica ma per l’immagine fiera e pulita insieme, ai limiti dello straight-edge ma senza quella intolleranza che aprirà la via alla dittatura infame del “politicamente corretto”. Erano gentili, intelligenti, problematici… sembravano perfetti. Fu un brutto colpo accorgersi da un giorno all’altro che erano… umani. Che avevano i loro difetti. Che loro stessi non erano riusciti a praticare quanto (senza mai essere dogmatici, sia chiaro) a lungo avevano predicato.

Erano a un passo dal diventare delle megastar e avrebbero potuto fare ancora dei dischi immensi, anche se è difficile ipotizzarli superiori a “Warehouse”. Probabilmente, però, li avrebbero pagati cari. Troppo. Seppero invece fermarsi, come sfortunatamente Cobain non ha saputo, un attimo prima che fosse irreparabilmente tardi.

Il testo – scritto nel 1982! – di It’s Not Funny Anymore suona allora inquietantemente profetico: “Puoi fare ciò che vuoi fare/Puoi dire quello che desideri/Puoi pensare quello che pensi di volere/Non ha comunque immportanza/Non è più divertente/Suona quello che ti va di suonare/Senti ciò che vuoi sentire/Non preoccuparti dei risultati/o dell’effetto che avrà sulla tua carriera/Comportati come preferisci/Sii quello che vuoi essere/Scopri ciò che veramente sei/E non prestare attenzione a me/Non è più divertente”.

Nova Mob Over America. Not!

Sarebbero potuti essere “i vecchi Nirvana”. Con ogni probabilità, un altro album sarebbe bastato. Perso allora il treno della fama (quella vera, non il culto degli aficionados), Grant Hart e Bob Mould non sono più riusciti a riprenderlo. Ove però il secondo potrebbe ancora farcela, il primo non sembra in grado neppure più di trovare l’ingresso della stazione. La cosa è sorprendente, perché dei due si è sovente dimostrato quello dalla sensibilità pop più spiccata: basti pensare che portano la sua firma Pink Turns To Blue, The Girl Who Lives On Heaven Hill, Flexible Flyer, Don’t Want To Know If You Are Lonely, Sorry Somehow, Charity, Chastity, Prudence, And Hope, vale a dire larga parte degli episodi più melodici e istantaneamente memorizzabili del repertorio degli Hüsker Dü. A farla breve: se lui e Mould sono stati il Lennon e il McCartney della loro generazione, Hart era McCartney. Eppure… Certo non è imputabile soltanto alla pochezza dei mezzi promozionali delle etichette per le quali sono usciti i suoi tre lavori – il primo è su SST, gli altri sono stati pubblicati da Rough Trade – la scarsa attenzione suscitata finora dalla carriera solistica del Nostro. Il problema è che la sua penna non ha oggi che occasionalmente i guizzi che un tempo erano la norma. Raramente graffia, accontentandosi di un’aurea mediocrità che è forse più indisponente di un fallimento totale.

Aveva cominciato tutt’altro che male il post-Hüsker Dü, Grant Hart. 2541, che precedette di qualche mese a 45 giri l’esordio sulla lunga distanza, è una delle più belle canzoni degli anni ’80 e regge il confronto con qualunque capolavoro marchiato Hüskers. Ma già nel 33, “Intolerance”, niente vale questa ballata indimenticabile, che parte acustica e nel suo incedere si carica di elettricità e di struggimenti infiniti. Più di qualcosa di buono, ad ogni buon conto, c’è: All Of My Senses, epica e dominata dall’organo; Now That You Know Me, dylaniana e già in scaletta nell’ultimo tour con Mould e Norton. Con il suo continuo mischiare Byrds e Animals, ricordi di punk e tentazioni folk, “Intolerance” manca di unitarietà ma in compenso frizza quanto basta. Gli LP a nome Nova Mob (il nuovo gruppo – in principio un trio, adesso un quartetto – di Grant, che comunque firma da solo quasi tutti i pezzi) che l’hanno seguito, il primo nel 1991, il secondo nel ’94, cadono nel peccato opposto – son troppo uniformi! – e non regalano che una canzone davvero magnifica: Shoot Your Way To Freedom (sul più recente).

Non si può certo dire, di “The Last Days Of Pompeii” e “Nova Mob”, che siano brutti dischi. Si fanno ascoltare, con le loro sonorità da Byrds post-hardcore, ma arrivi alla fine e ti accorgi che di quei brani che tanto ti erano parsi orecchiabili non ne ricordi uno. Possibile che, ancora più vicino ai trenta che non ai quaranta, Grant Hart abbia già espresso tutto quanto era nel suo potenziale? È un’eventualità che non si vorrebbe accettare ma che bisogna rassegnarsi a considerare.

Però si è assistito, negli ultimi anni, a resurrezioni (Lou Reed, Neil Young… Bob Mould) talmente inattese che una speranza alberga sempre in fondo al cuore. Ritorna Grant, ritorna!

All’inferno. E ritorno

Il post-Hüsker Dü di Bob Mould si divide a tutt’oggi in due fasi nettamente distinte fra loro: i primi due album, usciti a suo nome e sotto l’egida della Virgin; i tre lavori come Sugar, marchiati Creation nel Regno Unito (al boss della casa discografica britannica Alan McGee si deve il ritorno in auge del nostro eroe) e Ryko negli Stati Uniti. Separano i due periodi un biennio di totale silenzio e atteggiamenti nei confronti della vita antipodici. La nascita degli Sugar e l’ingaggio da parte dell’etichetta underground più importante, con la Sub Pop, dell’ultimo lustro hanno restituito a Mould fiducia nei suoi mezzi e una (relativa) positività nei confronti del mondo da troppo tempo (poco dopo “Zen Arcade”?) smarrita.

Dello stato depressivo in cui Bob era caduto all’indomani della separazione dai vecchi compagni “Workbook”, debutto in proprio uscito nel 1989, è testimonianza fin troppo esplicita. È un’opera intimista (già il titolo è eloquente al riguardo) e cupissima, che giusto il 45 See A Little Light (altro titolo significativo) rischiara un attimo, con le sue fragranze byrdsiane e il ritornello spensierato. Il resto è vita. Triste ai limiti della disperazione. Testi chiaramente autobiografici in cui la paranoia è di serie e la speranza un accessorio quasi mai montato. Musica che più che di Hüskers sa di Richard Thompson in vena di suicidio: folk elettrico da confessionale.

L’anno seguente tocca a “Black Sheets Of Rain” (“Nere coltri di pioggia”: allegria!) dettagliarci sulla situazione psichica del Nostro. Appena migliorata. Appena appena. La musica riscopre qui e là il gusto della chitarra incazzosa su ritmica a manetta (assicurata, come nel precedente lavoro, da una coppia formidabile: Tony Maimone al basso, Anton Fier alla batteria). Torna a far sano casino, ma spesso sono più strilli isterici che urla liberatorie. Tre brani di stratosferica levatura – It’s Too Late e Stop Your Crying, cavalcate rabbiose in purissimo Hüsker Dü-style; The Last Night, una superba ballata alla Tom Petty – fanno preferire questo secondo (e formalmente ultimo) capitolo della carriera solista di Messer Mould al primo, che pure vanta una consistenza media maggiore.

Tanto “Workbook” che “Black Sheets Of Rain” sono LP di buon livello (indiscutibilmente superiori, tanto per esser chiari, ai parti di Grant Hart) e in fondo già si sarebbe stati contenti se Mould, oltre a non ammazzarsi, avesse continuato a proporne di pari levatura. Ha fatto di più. Molto.

“Copper Blue”, l’album con cui ha esordito il marchio Sugar, riprende il discorso da dove “Warehouse: Songs And Stories” si era interrotto, proponendo un rock solido e compatto, potente e nello stesso tempo irresistibilmente pop, che dal punk viene ma punk non è più, se non nello spirito. Molte delle sue canzoni hanno la statura dei classici (tre in particolare: A Good Idea, Changes e If I Can’t Change Your Mind, non a caso tutte pubblicate pure su singolo) e anche il brano meno riuscito (diciamo Hoover Dam, che un synth fuori luogo deturpa un po’) è comunque stupendo. Il bassista David Barbe e il batterista Malcolm Travis non offrono contributi compositivi ma si guadagnano ugualmente il premio partita, in due modi: creando un muro di suono impressionante; restituendo, evidentemente, all’ex-Hüsker Dü l’entusiasmo di suonare.

Tanto sono state proficue le sedute d’incisione di “Copper Blue” che pochi mesi dopo, all’inizio del ’93, fruttano un altro LP, un mini questa volta, contenente sei composizioni che dal suo fratello maggiore erano state escluse perché figlie di un’ispirazione diversa (non, si badi bene, minore): per niente pop queste (unica eccezione la conclusiva Walking Away, caratterizzata da un organo chiesastico), rissose invece, turbolente. Catartiche.

“File Under: Easy Listening” (notare il titolo mordace) media suoni e atmosfere dei suoi predecessori ed è faccenda di un paio di mesi fa. Regala almeno un altro brano capolavoro (Your Favorite Thing) e fa degli Sugar una vera band (Company Book, la canzone firmata da Barbe, vale i nove episodi siglati Bob Mould). “Copper Blue” era stato disco d’oro negli Stati Uniti e aveva fatto sfracelli nelle classifiche indipendenti britanniche: “File Under” potrebbe replicarne alla grande le gesta. Sarebbe una soddisfazione non da poco per un musicista che i più, dopo il tempestoso divorzio dalla Virgin, davano per irrimediabilmente disperso.

A proposito di dispersi: qualcuno ha notizie di Greg Norton?

Concludendo

“Nova Mob” e “File Under: Easy Listening” non sono stati i soli dispacci provenienti da casa Hüsker Dü che abbiamo ricevuto nel corso del ‘94. Uno c’è stato inviato dalla Warner: “The Living End”, registrato dal vivo nel 1987, nel corso dell’ultima tournée, nulla ha tolto e nulla ha aggiunto alla leggenda degli Hüsker Dü. Ma ascoltarlo è stato piacevole. E pure un po’ commovente.

Pubblicato per la prima volta su “Dynamo!”, n.2, dicembre 1994.

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Non si esce vivi dagli anni ’80 (18)

Prima o poi qualcuno lo avrebbe tirato fuori e avrebbe provato a ricattarmi minacciandone la ripubblicazione. Allora lo precedo. Confesso. Il mio primo articolo per “Il Mucchio Selvaggio”, febbraio 1983.

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Biff Bang Pow: le memorabili creazioni dei Creation

Sempre adorato i Creation, dalla prima volta che mi imbattei in loro e doveva essere più o meno la metà degli anni ’80. Bizzarro allora che non conservassi memoria di avere scritto questo articolo. Alla ricerca nei miei archivi di materiale da recuperare per Venerato Maestro Oppure me lo sono ritrovato davanti con grandissima sorpresa e solo rileggendolo mi è tornato in mente di quando, poco dopo la prematura scomparsa di Kenny Pickett, Claudio Sorge mi telefonò per commissionarmelo. La raccolta che incenso non si trova più ma ce n’è in compenso un’altra, “Our Music Is Red With Purple Flashes”, che la recupera integralmente aggiungendo qualche traccia ancora.

Per definizione, dicesi “di culto” un gruppo che ha lasciato dietro di sé una scia nella quale altri si sono inseriti e una schiera di apologeti con vocazione al proselitismo. Ora, poche altre compagini di musicisti hanno incarnato l’essenza del “gruppo di culto” quanto gli inglesi Creation. Faccenda ardua con loro sfuggire alla retorica del “poveri ma belli”.

Evitare accenti retorici è reso vieppiù difficile da una sfortunata coincidenza: questo articolo viene scritto quando è ancora fresca la notizia della morte per infarto, il 10 gennaio scorso, di Kenny Pickett, che del complesso fu, oltre che il co-autore di un buon terzo del peraltro poco cospicuo repertorio, la voce. Una morte prematura (Pickett aveva cinquantaquattro anni) che farà probabilmente sì che non vi sia un seguito all’omonimo LP dato alle stampe dal gruppo un paio di anni or sono, per la Creation di quell’Alan McGee tanto devoto alla band londinese d’adozione da battezzare con il suo nome la sua etichetta e con il titolo di una canzone dei Creation stessi, Biff Bang Pow, il proprio dopolavoro musicale. Il fan numero due del gruppo, dacché il titolo di fan numero uno spetta di diritto a Pete Townshend, che nell’autunno 1966 chiese insistentemente a Eddie Phillips di unirsi agli Who come secondo chitarrista e, ottenutone un cortese diniego, vagheggiò per un attimo di unirsi lui ai Creation. Il compromesso fra le ragioni del cuore e quelle della mente fu raggiunto con l’iscrizione di Townshend al “Creation Fan Club”. Ma sarà il caso di andare per ordine…

Le cronache (che dobbiamo interamente alla penna puntigliosa del solito Brian Hogg, autore delle note di copertina della raccolta Edsel “How Does It Feel To Feel”, che nella versione su CD raduna poco meno dell’opera omnia della band) narrano che tutto cominciò dalle parti di Cheshunt, Middlesex, nel sessantatré, con un quintetto chiamato Jimmy Virgo & The Blue Jacks. Lo componevano, oltre al leader alla voce, Norman Miffen alla chitarra solista, Mick Thompson alla ritmica, John Dalton al basso e Jack Jones alla batteria. Quando prima Virgo e poi Miffen lasciarono, rilevati rispettivamente da Kenny Lee (presto Pickett) e Eddie Phillips il complesso assunse una nuova ragione sociale, Mark Four, e firmò per la Mercury. Per tale casa pubblicò due 45 giri con scolastiche riprese di Bill Haley, Larry Williams, Marvin Gaye e Johnny Otis (rock’n’roll, country, soul e rhythm’n’blues, dunque, gli stili praticati). Passò poi alla Decca per i cui tipi licenziò altri due singoli, contenenti materiale originale a firma Pickett/Phillips questi e di ben superiore levatura: canzoni energiche e melodiche nel contempo, con qualche schizzo di feedback, inchini a Bo Diddley e un sentire comune con i coevi Who e Kinks. A questi ultimi, non a caso, si unì John Dalton. La contemporanea defezione di Thompson ridusse il gruppo a quartetto. Stabilita la propria base in quel di Londra, arrivato Bob Garner a sostituire Dalton, con un nuovo manager nella persona di Tony Stratton-Smith (futuro fondatore della Charisma) e un produttore di grido e valentissimo come Shel Talmy, che proprio con Who e Kinks aveva lavorato, in cabina di regia, parve ai Nostri che fosse il caso, per sottolineare tutte queste novità, di rinnovare pure il nome: e Creation fu.

È quindi un esordio per modo di dire Making Time/Try And Stop Me, il 7” con il quale i quattro debuttarono nel giugno ’66. Strepitoso nondimeno, soprattutto il lato A, da allora uno degli archetipi del suono garage, ripreso in decine di versioni e assunto da taluni anche come ragione sociale. Il retro ha un chiaro referente negli Who di Substitute ma è lungi dall’essere copia conforme. I riscontri di classifica furono modesti: si fermò alla quarantonovesima posizione. A crescere presto a livelli notevoli fu la fama delle esibizioni live dei Creation, eventi invero memorabili a detta di chi c’era: quasi più performance teatrali che concerti, con Pickett impegnato, oltre che a cantare, a dipingere con bombolette spray fogli e tele che dava poi alle fiamme a rappresentazione terminata e Phillips intento a modellare il suono della sua sei corde con ogni mezzo ritenuto necessario, compreso un archetto di violino (Jimmy Page riprenderà l’idea). Un po’ Crazy World Of Arthur Brown (un altro che a quegli spettacoli scippò un’idea o due), un po’ (senza saperlo) Velvet Undergound alla Factory, figli di una cultura mod non più tanto à la page e antesignani di quella hippie che sboccerà solo nell’estate dell’anno dopo, i Creation si trovarono intrappolati fra due ere del pop inglese e ne pagarono lo scotto. Il 45 giri successivo, Painter Man/Biff Bang Pow (bel problema scegliere fra le lusinghe melodiche del lato A e l’incipit alla My Generation della seconda facciata) violò a malapena i Top 40 e da allora le cose andarono sempre peggio.

Inutile raccontare per filo e per segno (lo fa del resto, con dovizia di particolari, l’impagabile Hogg) le peripezie successive del gruppo, che sono poi simili a mille altre storie di musicisti fuori sincrono con il loro tempo. Basti dire che, paradossalmente, a tagliare le gambe ai Creation fu il buon successo mietuto in Germania, che fece loro trascurare il mercato britannico fino a renderli stranieri in patria. Ne derivarono frizioni con il management e contrasti interni che portarono a una girandola di avvicendamenti nella formazione di cui, con due eccezioni, non vale la pena riferire: Pickett se ne andò, salvo tornare per un ultimo tour, e a un certo punto entrò in squadra Ron Wood, già con i Birds e con Jeff Beck e da lì a poco nei Faces e quindi nei Rolling Stones. I Creation uscirono di scena a due anni esatti dall’uscita del loro primo singolo, senza avere pubblicato veri 33 giri(“We Are Paintermen”, edito in Germania nel 1967, è di fatto un’antologia), così che il più che dignitoso lavoro omonimo messo in cantiere su istigazione del McGee nel ’95, dopo che nel ’94 i Nostri erano stati mattatori della rassegna “Creation Undrugged” mettendo in riga Ride, Jesus And Mary Chain e Oasis, può essere a tutti gli effetti considerato il loro album d’esordio. Pensate un po’!

La sunnominata raccolta Edsel fa sfilare nell’arco di un’ora scarsa tutti i 45 giri d’epoca del quartetto, i pochi brani altrimenti inediti presenti su “We Are Paintermen”, qualche pezzo uscito solamente in Germania e un paio di fondi di magazzino. Se le versioni di brani altrui (fra gli altri, la solita Hey Joe e una Like A Rolling Stone bignamizzata) sono curiosità e basta, molto vi è viceversa di indispensabile fra il materiale originale, a cominciare da quella How Does It Feel To Feel che al succoso compendio dà il titolo: la sospinge un riff tanto massiccio quanto carico di swing che la fa poderosa e agile nello stesso tempo. Ascoltandola, capirete perché un bel dì a Pete Townshend venne un’idea bislacca e comprenderete come gruppi diversissimi fra loro quali gli shoegazers Ride, britannici, e i noisesters Halo Of Flies, americani, ne siano rimasti stregati a tal punto da includerla nel loro repertorio. E dopo averla metabolizzata comincerete a sentirne echi un po’ ovunque: avrebbero potuto scriverla i Jesus Lizard, oppure i Supergrass.

Pubblicato per la prima volta su “Rumore”, n.63, aprile 1997.

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Presi per il culto (16): Link Wray – Bullshot (Visa, 1979)

“Non fosse stato per Rumble, non avrei mai preso in mano una chitarra”: parole di Pete Townshend citate immancabilmente quando si parla di Link Wray e il leader degli Who non era che uno dei soci di un club di estimatori quantomai variegato. Giacché non vi sono altri che possano vantare di avere avuto Jerry Garcia ospite in un proprio disco e avere ispirato a Lemmy il titolo della sua canzone più memorabile (Ace Of Spades) e una buona metà del suono dei Motörhead (inventato in pieni ’50!), di essere stati accolti nel salotto di Elvis e avere avuto più di un singolo nel jukebox di John Lennon. Ritenuto l’inventore del garage come dell’heavy metal, nume tutelare per i Cramps come per il grunge, idolatrato da Quentin Tarantino che nei ’90 lo riportava in auge piazzandolo a ripetizione in interviste e colonne sonore, il nostro uomo aveva alla morte, sopraggiunta nel novembre 2005, l’onore ultimo e definitivo di vedersi omaggiato pubblicamente sia da Dylan che da Springsteen con una cover: Rumble, guarda un po’, con la quale entrambi aprivano alcuni loro spettacoli. Se ne andava sentendosi apprezzato, a quattro mesi dall’ultima apparizione live e avendo dato una quarantina di concerti nel 2005. Non male per un settantaseienne che campava con un polmone solo da quando di anni ne aveva venticinque, avendo sacrificato l’altro alla patria in Corea. Evento che gli segnava la vita anche in questo senso: che era perché un medico gli sconsigliava di cantare che, una volta congedato, si concentrava sulla chitarra. L’avrebbe fatta suonare quella Les Paul (passerà poi a una Danelectro Longhorn dal manico sproporzionatamente lungo) come nessuno prima. Avrebbe inventato il fuzz senza il fuzz, squarciando le membrane degli altoparlanti per produrre distorsioni inaudite.

A oltre mezzo secolo dacché fu incisa ancora promana da Rumble (nello slang giovanile era l’attesa, carica di minaccia, che anticipa uno scontro fra bande di teppisti) un’aura di violenza pronta a deflagrare che stordisce. Non pare più assurdo, dopo averla ascoltata, apprendere che fu bandita – uno strumentale! – da pressoché tutte le radio americane. Andò ciò nonostante al numero 16 nella classifica generalista e a fine 1958 aveva venduto quel milione e mezzo di copie. L’anno dopo pure Rawhide supererà la soglia del milione di copie: sorta di Born To Be Wild un decennio in anticipo, inno senza parole per ogni delinquente minorile con una giacca di pelle e una moto sotto il culo, scagliata verso un infinito niente.

Io la Rawhide originale l’ho sentita qualche tempo dopo la comunque magnifica rilettura inclusa in questo LP del 1979 che catturai, a un tre o quattro anni dall’uscita, buttato fra i “tagliati” a lire 2.900 (la settimana dopo tornai e mi presi, allo stesso prezzo, un “Live At The Paradiso” successivo di un anno e al pari da urlo e da culto). Lo tirai su, avendo un’idea vaga di chi fosse questo chitarrista del North Carolina di ascendenze pellerossa sempre orgogliosamente rivendicate, per il fascino di una copertina iconica. Per quel ciuffo da Elvis, quegli occhiali da Roy Orbison, quel giaccone da James Dean, quella Gibson brandita come un’arma. Mamma mia, che colpo che fu! Sarei andato dopo a ritroso, procurandomi le incisioni storiche (incredibili) e alcune altre dei primi ’70 (prescindibili), ma per intanto per qualche settimana o mese che fu Bullshot (per Wray il momento più alto di un finale di decennio scoppiettante, innescato dal fortunato sodalizio con quel fantastico rockabilly man di Robert Gordon) monopolizzò il mio stereo. E ogni volta che torno a farlo girare lo ritrovo magnifico come nel ricordo. Superbe le cover: una Fever cupa e tagliente, da Suicide; una It’s All Over Now Baby Blue tonante e acida quasi quanto quella dei 13th Floor Elevators; una Don’t degna di Elvis. E superbo tutto l’autografo resto, dal boogie di Good Good Lovin’ a quella Rumble in sedicesimo che è Snag, da una Just That Kind con qualcosa di stoniano all’hard surf di Switchblade. A una The Sky Is Falling in transito dal languore alla vertigine.

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Nick Waterhouse – Time’s All Gone (Innovative Leisure)

Nel mondo in cui vive Nick Waterhouse i Beatles non sono ancora sbarcati in America, si chiamano Quarrymen, non li conosce nessuno e hanno un’età media sui quindici anni. È il 1957. Alla radio va forte Do You Mean It di Ike Turner & His Kings Of Rhythm e l’anno prima Little Willie John è andato al numero 24 nella classifica pop e all’uno in quella R&B con Fever. Van Morrison è un dodicenne che prende a calci lattine per le strade di Belfast e, avendo appreso qualche accordo dalla raccolta di spartiti (curatore Alan Lomax) Carter Family Style, è fresco di prove con la sua prima band, un gruppo skiffle chiamato The Sputniks. Non ha naturalmente idea che da lì a qualche anno formerà i Them, né che uno dei loro brani di maggiore impatto sarà, nel 1966, I Can Only Give You Everything. E come potrebbe sapere che quella canzone figurerà nel 2012 nel primo album di un giovanotto californiano nato nel 1987? Suonata esattamente come avrebbe potuto suonarla Ike Turner cinquantacinque anni prima. Fatta così, come retro di Do You Mean It sarebbe stata perfetta. Benvenuti nel mondo di Nick Waterhouse.

Va bene, un po’ ho esagerato, lo ammetto. Dire che il giovanotto è totalmente ignaro di quanto accaduto in materia di popular music dai primi ’60 in avanti è una forzatura, giacché le finora scarne note biografiche si peritano di informarci che gli appassionatissimi genitori lo tiravano su, oltre che con robuste dosi di John Lee Hooker, ad Aretha Franklin e Wilson Pickett, ma pure a Van Morrison. Fino a fine ’60 dovremmo arrivarci. Possibile che nelle prossime uscite il ragazzo, che nel frattempo avrà tutto l’agio di studiare essendo impiegato in un negozio superspecializzato in rarità black, si applichi (le basi della Atlantic già perfettamente padroneggiate) al suono della Stax e, chissà, magari addirittura a quello della Hi Records. Da qui ad allora questo divertentissimo Time’s All Gone ce lo terremo stretto. Vi sembrerà contraddittorio rispetto a quanto letto finora: rubricarlo sic et simpliciter alla voce “revival” sarebbe un errore. Il Nostro è filologico ma relativamente, non fa cover a parte la summenzionata dei Them (dunque tutt’altro che appiattita sull’originale) e del tempo in cui si immerge pare interessato più a omaggiare lo spirito che non a ricreare fedelmente i suoni. Si possono dunque mischiare le carte, come ad esempio in una Indian Love Call che ucronicamente si fa prodromo di She’s Not There. Energia cui la perdita di controllo è interdetta da un’innata eleganza, penna ispirata e ogni tanto furbetta (Fever in tralice tanto nell’iniziale Say I Wanna Know che in Teardrop Will Follow You), Nick slalomeggia in trentadue fulminanti minuti fra chitarre taglienti e sassofoni starnazzanti, ritmiche sferraglianti e voci femminili di innocenza innocentemente artefatta. E chi non muove il culo peste lo colga.

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