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Jah Live – Bob Marley a quarantatré anni dalla morte

In “Exodus”, che esce nel giugno 1977 ed è considerato l’apice della parabola artistica marleyana da quasi tutti quelli che non ritengono che quell’apice sia “Natty Dread”, il tema dell’esilio è presente sin dal titolo, argomento che fa capolino qui e là ed è centrale a una traccia omonima che chiude la prima facciata con toni spiazzantemente esultanti in luogo che dolenti, funkeggiando a rotta di collo e  sarà il primo brano del Nostro a venire massicciamente programmato dalle radio nere americane. Il lato A opta per l’impegno, dipanandosi prima della giubilante chiusura di cui sopra fra il lento skankeggiare di Natural Mystic e la melodia lieve ma ficcante di So Much Things To Say, la collisione di chitarre riverberate e fiati schizzati di Guiltiness e l’ondeggiante ipnosi di The Heathen, appesa al muro e al cielo da un assolo da manuale del nuovo chitarrista Junior Marvin: un piccolo Hendrix. Cambi facciata e il combattente, il polemista cede il passo al seduttore. Che si scatena nel ballo durante la festa di Jamming, si fa suadentissimo con Waiting In Vain e presumibilmente cattura la preda con la ballatona da Marvin Gaye datosi al country-blues Turn Your Lights Down Low. Per poi festeggiare tenerissimo (sono già arrivati i bambini?) con la filastrocca favolistica di Three Little Birds e fare universale quel sentimento privatissimo che è l’amore con una impossibilmente gioiosa One Love, che dopo dodici anni di ininterrotta permanenza in repertorio riconosce infine e ufficialmente il debito nei confronti della People Get Ready di Curtis Mayfield.

All’epoca, di “Kaya” (pubblicato nel marzo 1978 e numero 4 in Gran Bretagna migliorando di quattro posizioni il piazzamento del predecessore) si parlò come di un lavoro deludente e compromissorio, ricercatamente commerciale, una sensibile involuzione rispetto a “Exodus”. Capita ancora di leggerne in questi termini e ogni volta rido agro. Ma di quale involuzione si ciancia quando il disco è figlio di quelle stesse sedute (la scelta più logica sarebbe stata approntare un doppio) che avevano fruttato l’album prima? Giustamente acclamato come un capolavoro, ove altrettanto routinariamente “Kaya” viene detto un mezzo passo falso irredento dalla presenza del micidiale funky reggae party di Is This Love. È tempo di rivalutarlo e tanto. In particolare per una prima facciata ideale estensione, tolta la drammatica parentesi di Sun Is Shining, della seconda di “Exodus”, solo che qui prima di celebrare l’amore per la donna si celebra ─ Easy Skanking, la traccia omonima ─ quello per la ganja. Varrà la pena ricordarlo: per i rasta non una droga ma un sacramento. E del secondo lato vorrei citare almeno una gigiona e aromatizzata errebì Running Away e una Time Will Tell in cui torna il gusto dello spiritual. È ora di farla finita di scrivere scempiaggini su “Kaya” e visto che ci siamo pure sul doppio dal vivo (dicembre sempre ’78) “Babylon By Bus”: elefantiaco e troppo patinato e troppo rock, troppo questo e quello e blah blah blah. Ove per ogni chitarra in assolo sopra le righe c’è uno slargo dub (si ascolti la seconda metà di Exodus), per ogni successo un arrangiamento inedito e non di soli successi è fatto il cartellone.

Il seppure obbligato soggiorno londinese sarebbe in fondo felice per Marley, che lontano dalle tensioni giamaicane può rilassarsi, scrivere alcune delle sue canzoni più memorabili, dedicarsi più che mai al calcio nel tempo libero e in quello che avanza ancora alla più importante delle tante tresche extraconiugali, un torrido affaire con Cindy Breakspeare, Miss Mondo 1976 e non aggiungo altro. Sarebbe felice, non fosse per il dettaglio di una ferita a un piede che il Nostro si è procurato proprio giocando a pallone e non vuole saperne di guarire. Il 7/7/1977, data infausta che nella cosmologia rastafari è fortemente indiziata come quella del principio della fine del mondo, si fa visitare a Londra e il verdetto è preoccupante. C’è il serio rischio che si sviluppi un tumore e per scongiurarlo i medici consigliano l’amputazione dell’alluce. Marley è riluttante, anche per via dei precetti religiosi che osserva, a sottoporsi all’operazione. Non senza un secondo consulto. Il chirurgo che lo esamina a Miami sentenzia che basterà un trapianto di cute. Il suo destino è segnato.

Sono due ultimi LP le pietre miliari sulla strada che lo condurrà alla morte l’11 maggio dell’81. “Survival” (ottobre 1979) è il disco in cui si recupera l’impegno politico, in una chiave di panafricanismo spinto esplicitata sin da una copertina in cui sono riprodotte le bandiere degli stati del Continente Nero, tutti eccettuati quelli sotto il tallone di regimi coloniali o razzisti. Vi sfilano principalmente canzoni di lotta, da un’esuberante Zimbabwe a una corale Africa Unite, da una marziale Babylon System a una perentoria Wake Up And Live, ed è una parentesi la giocosamente autoreferenziale (un’ode al reggae stesso) One Drop. Se “Uprising” (giugno 1980) è un altro mezzo capolavoro, e non il congedo dimesso che rischiò di essere, lo dobbiamo a Chris Blackwell e pure di questo non potremo mai ringraziarlo abbastanza. Quando ne ascolta i nastri il capoccia della Island apprezza la malinconica ma pure scherzosa Pimper’s Paradise e la zuccherosamente innodica Forever Loving Jah, e ovviamente la disco in levare di Could You Be Loved che ha sopra tatuata in caratteri cubitali la parola “hit”, ma osserva che all’album manca qualcosa. Marley non replica, sorride e basta. Il giorno dopo torna in studio con Coming In From The Cold e Redemption Song. Ma sono anche tre concerti a farsi tappe verso l’ineluttabile.

Il 22 aprile 1978 i Wailers sono a Kingston, di nuovo, per “One Love Peace”, festival stavolta bi-partisan che auspica che nel dibattito politico nell’isola si torni a usare la forza del ragionamento e si metta da parte quella delle armi. Il colpo di scena si ha sulle note di Jamming, quando un Marley come in trance convoca sul palco gli acerrimi rivali Edward Seaga e Michael Manley e fa sì che si stringano la mano, prodigio fino a quel giorno pronosticato come appena più probabile della pace fra israeliani e palestinesi. Il 18 aprile 1980 è un’esibizione di Bob Marley & The Wailers a celebrare di fronte a una folla oceanica, nella capitale Harare, la caduta del regime razzista rhodesiano e con essa la nascita dello Zimbabwe. Il sipario cala nella già più volte menzionata Pittsburgh il successivo 23 settembre. Due giorni prima Marley ha avuto un malore a New York, mentre faceva jogging in Central Park. Il giorno prima gli hanno detto che ha un tumore al cervello e gli restano tre settimane di vita. Resisterà invece otto mesi, benché metastasi gli vengano poi trovate pure nel fegato e nei polmoni.

L’ultima foto lo coglie in una clinica bavarese il 31 marzo 1981 e, a vederlo magro come un internato in un lager e spaurito come un bambino, ti sale un groppo in gola. Ma poi ne scruti meglio lo sguardo e lo scopri così sereno che ti pare impossibile che quest’uomo sia morto. Non può morire uno come Bob Marley e difatti ventisei anni dopo è ancora fra noi: Jah live.

Tratto da Le canzoni di libertà e redenzione di Bob Marley. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.25, primavera 2007. Ristampato in Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune.

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Una breve trattazione della produzione anni ’90 di Nick Cave

Si sa: la notte è più buia subito prima dell’alba. Da “The Good Son” emana un lucore che avvince e commuove. Il faulkneriano And The Ass Saw The Angel è stato finalmente pubblicato e accolto da ovazioni. In Brasile con i Bad Seeds per tre date trionfali, Cave ha conosciuto la stilista Viviane Carneiro e si è innamorato. E non solo di lei ma anche della tentacolare e cosmopolita Sao Paulo, in cui si trasferisce. L’album vede la luce il 17 aprile 1990, ventitré giorni prima del primogenito di Nick e Viviane, Luke, e che sia stato registrato in Brasile si sente. Non soltanto perché gli fa da incipit un adattamento dell’inno protestante locale Foi na cruz, che squisitamente riassume il costante intrecciarsi in esso di gioia e malinconia, ma per un gusto per la melodia assolutamente inedito. Il rock è racchiuso nella deliziosa chitarra surfeggiante di The Hammer Song e nella frenesia di una The Witness Song inondata pure di gospel. Il resto sono pianoforti romantici e profluvi di archi, pop che aspira alla perfezione e la raggiunge in una The Ship Song dopo la quale l’autore avrebbe potuto ritirarsi: è la canzone immortale che crede di non avere ancora scritto.

So di andare controcorrente, ché “The Good Son” già all’uscita fu disco che non metteva d’accordo e in ogni caso raramente viene citato fra i migliori di Cave: a me pare sia ─ per densità emotiva, sapienza degli arrangiamenti, qualità delle singole tracce e articolazione d’assieme ─ la sua raccolta autografa nettamente più memorabile.

Narrativamente gli anni ’90 di Nick Cave offrono materiale infinitamente meno interessante degli ’80, essendo la vita domestica faccenda non eccitante da raccontare quanto la vita spericolata. È un Cave sempre più rispettabile e rispettato che li traversa raccogliendo riconoscimenti da ogni dove, chiudendo con rimpianti e dolcezza la relazione con Viviane e avviandone una fugace con Polly Jean Harvey, lasciandosi alle spalle il Brasile e cominciando a chiamare “casa” Londra. Incontra un nuovo grande e possibilmente definitivo amore nella modella Susie Bick, che gli darà due gemelli, e infine si riconcilia con la memoria del padre, colui che l’ha iniziato alla letteratura, morto giovane in un incidente automobilistico (poco più che adolescente, il figlio apprese la notizia in una stazione di polizia in cui era in stato di fermo). Musicalmente, regalano al contrario dischi ancora capaci di generare controversie. Magari non “Henry’s Dream”, del ’92, che riprende le atmosfere di “The Good Son” scurendole appena e vanta canzoni superbe ─ una Papa Won’t Leave You, Henry dal ritornello saporoso di Irlanda, la lugubre Loom Of The Land (i Walkabouts ne offriranno una versione stellare in “Satisfied Mind”) e la tesa e minacciosa Jack The Ripper ─ ma è danneggiato dalla produzione inusualmente piatta di David Briggs (Neil Young; alcuni brani faranno ben migliore figura nel bellissimo “Live Seeds”). Magari non “Let Love In”, del ’94, che un tantino in effetti si adagia in una routine di classe ma è divertente nella vorticosa Jangling Jack e nella garagista Thirsty Dog e, alle prese con il delicato tema della pedofilia, appiccica al muro e fa il cuore a brandelli con Do You Love Me?. Di sicuro “Murder Ballads”, del ’96, album a tema che finirà per essere di gran lunga l’articolo più venduto del catalogo (oltre un milione di copie), grazie a un duetto con PJ Harvey e soprattutto a uno con Kylie Minogue, nell’incantata e crudele Where The Wild Roses Grow. È un disco che non ho mai amato particolarmente, pur apprezzandone l’umorismo che non molti hanno colto, una Henry Lee che evoca congiuntamente Leonard Cohen e Jennifer Warnes, l’orroroso vaudeville di The Curse Of Millhaven, la tenerezza blues di The Kindness Of Strangers e, più che altro, la liturgica Death Is Not The End, in cui al nostro uomo riesce di nuovo il trucco di migliorare Bob Dylan, sebbene un Dylan di seconda o terza categoria. Fatto è però che in “Murder Ballads” fatico a individuare la consueta messa a nudo dell’anima e quello che scorgo è un bravo attore. In tanti lo hanno detto capolavoro, ma mi permetto di dissentire.

Se un capolavoro va individuato nella produzione dei ’90 è piuttosto “The Boatman’s Call”, che usciva nel 1997 e raccontava la fine di un amore e anzi due con una sincerità bruciante fino all’imbarazzo e toccante. Raccolta di ballate prevalentemente pianistiche, è il più scarno e intimo fra gli album di Nick Cave e davvero dopo brani di intensità indicibile come Into My Arms e People Ain’t No Good ci si può chiedere, con il titolo di un’altra canzone che tuffandosi in una tempesta di sentimenti non vi pesca che dolore: Where Do We Go Now But Nowhere?.

Tratto da Nick Cave – Nel ventre della bestia. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.9, primavera 2003. Ristampato in Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. “The Good Son” arrivava nei negozi trentaquattro anni fa a oggi.

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Black Sabbath e satanismo – Genesi di una leggenda

Formalmente i Black Sabbath nascono un giorno di agosto del ’69 a bordo del traghetto che dall’Inghilterra sta portando ad Amburgo il cantante John Michael Osbourne (detto Ozzy; 3 dicembre 1948), il chitarrista Frank Anthony Iommi (per tutti Tony; 19 febbraio 1948), il bassista Terence Butler (meglio noto come Geezer; 17 luglio 1949) e il batterista William Ward (più familiarmente Bill; 5 maggio 1948). Nella città tedesca li attende un ingaggio di una settimana allo Star Club, esattamente il sordido localaccio nel quale, nel corso di ben più prolungati soggiorni, erano divenuti adulti i Beatles. Tutti quanti lungocriniti e tre su quattro baffuti, sicché appaiono più maturi di quanto non siano (non Ozzy, che il volto glabro fa sembrare il bambinone discolo che è), consumano le uniche droghe che è possibile e sensato consumare visto il luogo, vale a dire birra e sigarette, e discutono di musica e futuro. Di cosa suonare per potere avere una qualche speranza di guadagnarsene uno. Collettivamente noti come Earth, hanno urgenza sia di cambiare nome ─ per niente caratterizzante, anche se sempre meglio del primigenio e orrendo Polka Tulk, e oltretutto già usato da un’altra band che potrebbe intentare causa ─ che stile. Il blues è servito a rodarli e a procurare loro scritture, ma non c’è soddisfazione a eseguire materiali altrui o comunque derivativi e poi è indiscutibile: non è più alla moda. Bisogna cambiare per sopravvivere e hanno iniziato, mischiando al repertorio classico composizioni autografe in cui le scansioni rallentano, i riff si raddensano e si creano certe atmosfere… da horror cinematografico di serie B, genere di cui sono tutti appassionati, così come di occultismo spicciolo. Esemplare di questo agro stil novo è il pezzo che nei concerti raccoglie invariabilmente i maggiori consensi: Black Sabbath, titolo scippato all’edizione inglese di un film italiano del 1963, I tre volti della paura, di Mario Bava. Sulla strada per la sala prove un giorno Tony e Geezer sono passati davanti a un cinema che lo proiettava e il primo ha osservato al secondo: “Non ti sembra strano che la gente paghi per vedere qualcosa che la fa cacare sotto dallo spavento? Immagina se riuscissimo a creare una musica che ottenga lo stesso effetto. Che sembri… malvagia”. Fra una cicca e un rutto si decide: il titolo della canzone sarà la nuova ragione sociale, dopo Amburgo però e dopo avere onorato qualche contratto britannico già firmato. Ma ho corso e sarà il caso di fare alcuni passi indietro prima di compierne in avanti.

Uno per dire che il semplice fatto che gli Earth quel bel dì siano su quel battello in viaggio per la Germania denota che i quattro hanno una formidabile fede in se stessi e in particolare è Tony Iommi a essere convinto che orizzonti di gloria siano dietro l’angolo. Qualche mese prima il chitarrista ha ricevuto un’offerta di quelle che non si possono rifiutare e l’ha rifiutata: invitato a unirsi ai già popolarissimi Jethro Tull in sostituzione del dimissionario Mick Abrahams, è stato per alcune settimane della compagnia, partecipando fra il resto alla carnascialesca kermesse stoniana del “Rock’n’Roll Circus”, ma poi ha preferito tornare alla base. E pensare che i suoi stessi amici lo avevano incoraggiato ad accettare, a non preoccuparsi di loro, a non farsi sfuggire un’occasione irripetibile. Logico che Osbourne, Butler e Ward se ne siano sentiti, oltre che lusingati, responsabilizzati.

Due… Nonostante la verde età i ragazzi vantano curriculum di una certa sostanza fin da prima degli Earth. A livello amatoriale Ozzy e Geezer, insieme in tali Rare Breed. A livello professionale Tony e Bill, entrambi per quattro anni nei Mythology, power-trio etichettato come… ahem… “la risposta del Cumberland alla Jimi Hendrix Experience” che sulla soglia del contratto discografico è malamente inciampato in un arresto collettivo per possesso di marijuana che lo ha sbattuto, in un giorno sfortunatamente povero di notizie rilevanti, sulle prime pagine dei quotidiani nazionali.

Per capire la determinazione eminentemente operaia che giocherà un ruolo cruciale nell’affermazione del Sabba Nero bisogna infine avere ben presenti il retroterra socio-culturale ─ suburbia urbana della più degradata ─ dei protagonisti di questa saga e in special modo il vissuto dei due principali, Ozzy Osbourne e Tony Iommi. Il secondo ha disperato di potere coronare il sogno di divenire un musicista professionista il giorno in cui un incidente in fabbrica lo ha privato dell’ultima falange di medio e anulare della mano destra. Non sarebbe una tragedia non fosse che è un mancino e a suonare da “normale” proprio non ci riesce. Lo salva dalla depressione l’ex-principale che, oppresso dai sensi di colpa, lo va a trovare portando con sé un LP di Django Reinhardt e prima glielo fa ascoltare e poi gli racconta di come il celebre chitarrista zingaro avesse un problema analogo e anzi più serio. Iommi si entusiasma, si ingegna ad autocostruirsi due specie di ditali che applica alle dita mutilate e riprende a suonare. Un ulteriore problema che gli si presenta ─ la pressione che riesce a produrre sulle corde inevitabilmente non è quella ante handicap ─ è risolto accordando lo strumento un tono o anche più sotto il normale: escamotage che contribuirà in misura decisiva a definire il suono Black Sabbath, scuro e profondo come nessuno prima.

Quanto a Osbourne lo ha dichiarato innumerevoli volte: non avesse avuto successo avrebbe passato la vita dentro e fuori, ma più che altro dentro, le patrie galere. Famiglia poverissima, madre cronicamente depressa, padre alcolizzato (ma nondimeno un buon cristo che farà di tutto per aiutarlo nel momento in cui eleggerà la musica a possibile redenzione), una passione precoce lui stesso per l’alcool e ogni tipo di sostanza stordente, violenze sessuali subite (fuori dalle mura domestiche) ancora bambino. A quattordici anni ha tentato il suicidio. A diciassette è stato arrestato per furto ─ talmente consunti i guanti indossati per precauzione che ha lasciato impronte digitali ovunque ─ e ha passato in carcere un mese e mezzo. Dopo di che si è arrabattato con lavori occasionali: macellaio fra il resto. Se mai c’è stato uno nato per perdere eccolo: John Michael Osbourne.

Ma ritorniamo sul traghetto, scendiamone lievemente barcollanti con i nostri eroi e scopriamo che l’ingaggio è il più assurdo che abbiano rimediato a quel punto. Alla clientela di magnaccia e altri assortiti malavitosi, puttane e marinai sbronzi dello Star Club non importa un accidente di cosa suoni il gruppo di turno purché suoni, purché sul palco accada sempre qualcosa. Al massacrante, disumano ritmo di sette spettacoli al giorno (avete letto bene) i ragazzi si stufano presto di un repertorio ancora smilzo e cominciano a sperimentare manco fossero jazzisti della New Thing. Vale tutto, dai brani di tre minuti che diventano di mezz’ora agli assoli al pari dilatati, a volumi a mezza via fra la soglia della distorsione e quella del dolore. Un riff può essere stiracchiato per dieci minuti, oppure se ne possono sparare dieci in un minuto e Tony Iommi, che del riff contenderà il titolo di re a Keith Richards e Jimmy Page, deve probabilmente mettersene un congruo gruzzolo in saccoccia. Nessuno li ascolta sul serio, eppure è in quella fatidica settimana che i (non ancora) Black Sabbath scoprono improvvisamente di avere una personalità. Il bruco diventa farfalla. Naturalmente di ferro.

Al rientro a casa, il 22 di quello stesso mese, i quattro registrano un primo demo, con la supervisione di quel Gus Dudgeon che farà bei soldini con Elton John e David Bowie. Tal Jim Simpson se lo porta in giro per etichette ottenendo solo rifiuti. Non c’è da stupirsene, visto che sul nastrino incomprensibilmente sono finite due canzoni scadenti e che non rappresentano affatto il nuovo corso, una The Rebel che cita gli Hollies, figuratevi un po’, e la dedica a un manager il cui rapporto con i Nostri, ossequiando uno schema classico dello showbiz, finirà fra carte bollate e tribunali, di A Song For Jim. Che è un blues-rock basato sul piano, figuratevi un po’ 2. Però dal vivo i quattro pestano e tirano come dannati, sempre più coesi, una macchina da guerra cui il passaparola sta conquistando un buon seguito nel cosiddetto underground. Fa capolino in questa storia Tony Hall, amico di Simpson ed ex-dj di Radio Luxembourg con la voglia di passare dall’altra parte della barricata. È lui a tirare fuori i soldi, seicento sterline, per incidere non un secondo nastrino dimostrativo ma un LP e poi si vedrà che farne. Gli studi prenotati per due giorni sono i londinesi Trident, buchetto in Wardour Street, quartiere di Soho, che a dispetto di un’apparenza dimessa vanta tecnologie all’avanguardia e l’unico otto piste operante in Gran Bretagna nel 1969. Qualche mese prima hanno lavorato lì nientemeno che i Beatles. I ragazzi sono diventati un modello di efficienza: a registrare l’album impiegano un giorno solo e il secondo è speso mixandolo con la fondamentale regia di Rodger Bain, che curerà la produzione anche dei due 33 giri successivi. Adesso un disco c’è e si tratta di trovare chi lo pubblichi. Alla Philips mostrano un certo interesse, ma svanisce presto quando un singolo ─ su un lato Evil Woman, che sull’album ci sarà; sull’altro Wicked World che ne verrà invece esclusa ─ per la sussidiaria Fontana non ottiene riscontri significativi. Potrebbe già essere tutto finito, ingloriosamente, non fosse che nel programma di uscite della Vertigo, il marchio progressive di casa Philips, si apre all’improvviso un buco nel quale Simpson è lesto a infilare i suoi protetti. Il 13 febbraio 1970 ─ ça va sans dire: un venerdì ─ “Black Sabbath” è nei negozi del Regno Unito. La campagna concertistica che l’ha preceduto e lo segue, intensificandosi ulteriormente, paga dividendi al di là di ogni previsione: entra in breve in classifica ─ a fine aprile è al numero 8, performance strepitosa per degli esordienti che oltretutto con la stampa si sono presi subito male ─ e ci resterà per cinque mesi, praticamente fin quando non arriverà “Paranoid” a dargli il cambio: numero uno in Gran Bretagna, 12 negli USA, dove il debutto aveva fermato la sua corsa a un comunque straordinario ventitreesimo posto. A proposito di Stati Uniti: il quartetto vi sbarcherà una prima volta in luglio, a registrazioni del secondo LP già completate. Le poche decine di spettatori dei primi concerti diventeranno nel giro di qualche data centinaia, quindi migliaia. Quando i Black Sabbath ci torneranno, nel febbraio dell’anno seguente, su istigazione della loro casa discografica americana, la Warner Bros, quattro semplici parole campeggeranno sui manifesti annuncianti gli spettacoli: “Louder than Led Zeppelin”.

Dovrei a questo punto aprire un’ampia parentesi e, rubando il mestiere all’ottimo Sergio Varbella, diffondermi sul cambiamento che all’incrocio fra ’60 e ’70 interessa il modo di concepire le copertine dei 33 giri rock. Che a tutto il ’67 vedono obbligatoriamente effigiato il solista o il complesso che ne sono titolari e gradualmente relegano queste foto sul retro o all’interno della confezione, fino a farle a volte sparire del tutto, sostituendole con immagini che intendono evocare la musica proposta. Non è però il luogo e vi basti, se non ci avevate mai fatto caso, l’avere acquisito codesta informazione. Quel che mi preme qui sottolineare è che forse mai copertina, prima e dopo, ha rappresentato lo spirito di un gruppo, l’essenza di un sound come quella del primo Black Sabbath. In piedi, in mezzo a una palude vestita dei colori dell’autunno e immersa in una luce di sangue, una misteriosa signora in nero. Alle sue spalle una casa che nel contesto pare non meno sinistra. Appollaiato su un mozzicone d’albero morto un corvo osserva la scena. È una foto, ma la lieve sovraesposizione la fa parere un quadro. Avrebbe potuto immaginarselo Edgar Allan Poe fra i fumi dell’oppio. Avrebbe potuto dipingerlo Dante Gabriel Rossetti per illustrare dei versi della sorella Christina. Roger Corman o lo stesso Mario Bava non avrebbero potuto fare di meglio come prima inquadratura di uno dei loro film “de paura”. Che nelle colonne sonore un tema conduttore come Black Sabbath la canzone che apre “Black Sabbath” l’album non l’hanno mai dispiegato: tuoni; uno scrosciare di pioggia; campane; un riff si leva lento e squassante, quietamente brutale e dice bene il Wilkinson quando annota che così possono suonare giusto le porte dell’inferno che si spalancano. Da lì a qualche minuto da uno stato di catatonia si passerà, con uno dei più magistrali cambi di andatura che la storia del rock ricordi, a uno di terrorizzata frenesia.

Non credo di esagerare se dichiaro che con una confezione meno indovinata l’esordio adulto del complesso di Birmingham non si sarebbe rivelato altrettanto epocale. Affermo l’ovvio appuntando che l’avvento del CD ha avuto come principale conseguenza nefasta quella di cancellare l’arte della bella copertina. In questo caso è di un capolavoro a sé che stiamo discorrendo, che il formato ridotto mortifica in maniera e misura inaccettabili, e mi piace sottolinearlo in un momento in cui il farsi immateriale della musica ─ con il download ─ le infligge un’ultima e fatale umiliazione. Così è se vi pare e chiamatemi pure nostalgico. Ma tornando al Sabba Nero… ci credereste? Che l’album esca in tal guisa è una felice scelta di un qualche oscuro discografico: “Abbiamo dato la nostra approvazione quando ce l’hanno sottoposta, ma non siamo stati noi a ideare la confezione”, ammette nel marzo 1970 il buon Geezer in un’intervista a un quotidiano locale. Uomini maledettamente fortunati che viene il sospetto che un qualche patto faustiano dovessero averlo firmato sul serio.

Missione ai limiti dell’impossibile andare dietro a un incipit tanto memorabile senza accusare cali di tensione, ma “Black Sabbath” per gran parte del suo svolgimento ci riesce, cedendo giusto per qualche minuto sul principio del secondo lato, con quella Evil Woman già citata perché scelta sciaguratamente dalla Fontana per tastare il terreno a 45 giri. Non una brutta canzone (fra l’altro una cover, dagli americani Crow), sia chiaro, ma la cantabilità scanzonata e il piglio boogie la rendono un corpo estraneo al resto dell’opera. All’armonica crepitante, alla chitarra granitica, alla batteria tumultuosa dell’hard definitivamente post-blues di The Wizard. Alla sarabanda a tempo di valzer che si slabbra in litania stregona di Behind The Wall Of Sleep. All’assolo di basso che danza l’attacco di N.I.B. prima di instradarla su una terra di mezzo fra melodramma e metallurgia. Al dark-folk psichedelico precipitato nell’Ade da un’elettrica che è lava, lama e marmo e un basso che rotola sfrenato di Sleeping Village. Alla qui estatica e lì rovinosa collisione Zeppelin-Cream (a un certo punto citati esplicitamente) di Warning, una rilettura di Aynsley Dunbar di cui confesso di non conoscere la versione originale. Di non essere nemmeno riuscito a scoprire da dove l’abbiano prelevata Iommi e soci.

Sul testo di N.I.B. vorrei spendere qualche parola, magari partendo da un titolo che più avanti i Sabbath stessi sosterranno riferirsi alla barbetta appuntita (“nib” vuol dire “pennino”) esibita al tempo da Bill Ward. Ma chiedete lumi a qualunque adepto e sicuro vi risponderà che trattasi di acronimo per Nativity In Black. Sia come sia: la canzone narra una vicenda di seduzione letteralmente diabolica, con Satana che si dà un gran daffare per persuadere una ragazza a mettersi con lui. E tanto dice e briga, fra il resto cambiando pure nome, riprendendo quello di Lucifero in memoria dell’angelo che era stato, che alla fine la fanciulla cede alle lusinghe. “Vecchio satiro!”, esulta l’ascoltatore politicamente scorretto, che non aveva potuto non notare un certo senso di disperazione insinuarsi nel corteggiamento portato avanti dal Maligno. Che attore! Ha finto di struggersi per fare più facilmente cadere la preda ai suoi piedi. Non fosse che, con fenomenale rovesciamento prospettico, finiamo per capire che no, non era finzione, era davvero innamorato della ragazza e disposto addirittura a cambiare vita pur di farsi accettare da lei. Un bravo diavolo, più Andy Capp, se vi riesce di immaginare un Andy Capp genuinamente con il cuore in mano, che non Faust. Uno con cui potreste chiacchierare al pub e che al terzo boccale vi metterebbe sotto il naso, orgoglioso, le foto dei figli.

La leggenda dei Black Sabbath satanisti è, giustappunto, poco più che una leggenda. Un’operazione di marketing da inquadrare nel manifesto programmatico del quartetto, quello delineato alcune cartelle fa di forgiare una musica dalle apparenze malvagie che induca in chi ascolta il medesimo, artificiale senso di paura causato da un film dell’orrore.

Tratto da “Black Sabbath – Rock da camera (a gas)”. Pubblicato per la prima volta su “Extra” n.27, autunno 2007. Ristampato in Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Il primo album del quartetto di Birmingham compie oggi cinquantaquattro anni. Non li dimostra.

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Tender Comrade – Trent’anni di Billy Bragg

Cosa farai quando la guerra sarà finita, mio tenero compagno,/quando riporremo le tute mimetiche/e ce ne andremo ciascuno per la sua strada,/cosa dirai di ciò che ci univa, mio tenero compagno.” (Tender Comrade)

C’è un nuovo album di Billy Bragg in circolazione, o meglio ci sarà, dal 18 marzo, quando giungerà come si soleva dire una volta nei migliori negozi “Tooth & Nail”. Per il Bardo di Barking, che resta un’allitterazione da cui non ci si può esimere e definizione calzante tenendo a mente una voce tanto espressiva quanto non proprio operatica, fuori da qualsiasi canone di bellezza classicamente intesa, è il quattordicesimo in tre esatti decenni considerando tutto tranne le antologie. Mettendo in conto dunque diversi mini e pure la collaborazione, una e trina, con gli Wilco. Catalogo non particolarmente folto, allora, e per la parte in ogni senso più significativa concentrato nei primi anni di attività solistica del Nostro, compreso fra il 1983 di un tascabile “Life’s A Riot With Spy Vs. Spy” e il ’91 di un prolisso al confronto “Don’t Try This At Home”. Fra il punk-folk di quello e l’agit-pop di questo quasi tutto il Billy Bragg indispensabile, non faticherà ad ammettere anche il cultore più ultrà, fuor da una resurrezione di Woody Guthrie che gli appartiene più ideologicamente che non musicalmente. E se persino l’autore si interroga sul senso del proporsi con un album nuovo (cinque o sei anni ormai lo iato consueto fra l’uno e l’altro) al tempo dell’X factor un certo cinismo preventivo potrebbe essere giustificato. Ma poi ascolti un pezzo come Handyman Blues e improvvisamente sei di nuovo consapevole che sì, “quando il mondo va in pezzi ci sono cose che restano al loro posto”. Tipo quella voce che abbaia poesia (quando l’ultimo San Valentino felice sarà un ricordo sbiadito sogneremo ancora di grandi balzi in avanti). Tipo i dischi che ti hanno cambiato la vita.

Lavoravo, se si può chiamare lavorare trasmettere in tarda serata la musica che nessun altro trasmetteva, si trattasse dei Clash o di un po’ di blues, in una radio di Leeds. Mi pagavano così poco che non potevo nemmeno permettermi di andare al pub a mangiare qualcosa e allora occupavo il tempo prima del programma frugando nello scatolone dove finivano i promo destinati a essere rivenduti. Fondamentalmente, qualunque cosa non ricordasse Elton John o Lionel Richie veniva buttata lì e fu così che una sera ci trovai ‘Life’s A Riot’ e me lo portai a casa. Lo so che suona come un cliché, ma la mia vita cambiò per sempre quella notte, quando la puntina cadde sul primo solco di A New England. Tutto, assolutamente tutto quanto mi è successo da allora è figlio di quel momento.” (Andy Kershaw, dj di Radio One e del BBC World Service; per il resto del 1983 e parte dell’84 autista, tour manager, tecnico al seguito di Billy Bragg)

Se ti senti sola, ti chiamerò/…/e se starai cadendo saranno le mie mani a sorreggerti/e quando sarai amareggiata, capirò/…/sono il lattaio della gentilezza umana, lascerò una bottiglia in più.” (The Milkman Of Human Kindness)

Non posso dire che la mia vita sia stata cambiata in misura al pari significativa da “Life’s A Riot With Spy Vs. Spy” solo perché a imprimerle la traiettoria che non ha più smesso di seguire già aveva provveduto White Riot, all’incirca nei giorni in cui operò il medesimo miracolo ─ significativa differenza, rilevanza delle conseguenze a parte: lui la sua epifania la sperimentò dal vivo ─ sul diciannovenne Stephen William Bragg. Conservo nondimeno a oggi un ricordo assai vivido di quando, avendone letto varie volte sui settimanali specializzati britannici ma avendo fino a quel punto invano cercato di procurarmi una copia di quel mini, fui un bel giorno e anzi una bella sera, sintonizzato sulle frequenze della torinese Radio Flash, mandato al tappeto dalla voce sgraziata, dall’elettrica incalzante suonata come fosse un’acustica, dal ritornello innodico di A New England. Ancora qualche settimana e il disco era mio. Quanto resista in me del ventiduenne di allora, non saprei. So che lo squillare di corde e l’esuberante malinconia, memento di quanto sia dolce e insieme struggente perdersi in un altro da sé quando il futuro ti è ancora davanti, di The Milkman Of Human Kindness tuttora mi fa sobbalzare. Il cuore immancabilmente perde un battito.

Il bravo biografo (ad esempio Andrew Collins, che al protagonista di questa vicenda ha dedicato Still Suitable For Miners: titolo intraducibile senza perdere lo strepitoso gioco di parole) riserverebbe a questo punto un terzo dello spazio a disposizione al racconto di come ci si arrivò a quel mini-LP, formato dodici pollici ma da fare andare a 45 giri (John Peel naturalmente sbagliava e non sarebbe stato, se no, John Peel), sette canzoni per complessivi sedici minuti. Me la caverò più rapidamente, parendomi che il Billy Bragg per il quale meriterà sempre di fare scorrere inchiostro nasca con “Life’s A Riot With Spy Vs. Spy”, al limite dopo i pochi mesi, assimilabili a un periodo in incubatrice, trascorsi fra la tarda primavera dell’82 e l’autunno esibendosi già da solo in posti e situazioni improbabili, fra il Surrey e la Londra più proletaria. Liquido quindi in qualche riga la famiglia operaia ─ come d’altronde tutte nel secondo dopoguerra in quel di Barking, Essex, suburbia londinese e propaggine di Fordlandia in terra di Albione ─ e l’infanzia felice, un’adolescenza normale illuminata dalla scoperta del rock’n’roll e schiantata e bruscamente finita dalla morte del padre, quando Dennis Bragg non aveva che cinquantadue anni, il primogenito diciotto. Era l’ottobre 1976. Un mese dopo la band che il ragazzo aveva formato con l’amico fraterno Philip Wigg (quel Wiggy a lungo braccio destro nella vita che verrà) per poco non vinceva un concorso incredibilmente ben frequentato (si imponeva Dougie Boyle, futuro chitarrista di Robert Plant; secondi si piazzavano nientemeno che gli Iron Maiden) e la musica cominciava allora a diventare una cosa seria. Andati lì in realtà per vedere i Jam, Billy e Wiggy si ritrovavano insieme sotto il palco del londinese Rainbow il fatidico 9 maggio 1977 di cui sopra. E il resto è storia. Questa.

I braggologi completisti nel viaggio a ritroso alla ricerca dell’artista come giovane punk-rocker sono parecchio facilitati dacché nel 2002 Bragg stesso ha provveduto a radunare su un CD, “The Singles 1977-1980”, i tredici brani che, nella loro nemmeno troppo breve esistenza, i Riff Raff dispersero fra un EP (su Chiswick) e cinque 7”. Raccolta graziosa quanto inconsistente nel suo pressoché costante fare il verso ai Clash, fra qualche occhieggiamento al pub-rock (molto più Eddie & The Hot Rods che non Sex Pistols, i ragazzi) e uno scorcio di futuro in forma di una prima versione di Richard che nondimeno in questa lettura, con dietro una band, finisce per essere la più Strummer/Jones del lotto. Scritta quando il gruppo si avviava a grandi passi allo scioglimento, avendo messo a soqquadro un angolino di provincia inglese ma senza essere riuscito a farsi notare a sufficienza nella capitale (dei fogli specializzati il solo “ZigZag” dedicava ai Nostri un profilo di una pagina), è una delle due canzoni di quel periodo formativo che Billy porterà seco nella nuova vita artistica, essendo l’altra (ma guarda!) una A New England peraltro già adombrata in Kitten. Ma prima ci sarà l’inconsulto tuffo nel buco nero di un arruolamento da volontario nell’esercito di Sua Maestà, quattro mesi dritti da un’ipotesi di Full Metal Jacket con in fondo vivaddio non il Vietnam bensì un foglio di congedo, firmato a malincuore da un sottoufficiale del quale il nostro uomo parla ancora con grande rispetto. Oh… esperienza formativa pure quella. Incontestabilmente. Per quanto si stenti a raffigurarsi in uniforme da carrista il pacifista Billy Bragg, il socialista Billy Bragg che l’opposizione alla partecipazione britannica alla seconda guerra del Golfo indurrà ad allontanarsi da un Labour Party di cui per tre abbondanti lustri era stato sostenitore fra i più accesi, lucidi, ascoltati.

Il giovanotto si compra una batteria elettronica (la licenzierà presto) e una cassa amplificata portatile. Ha trovato lavoro in un negozio di dischi il cui proprietario possiede un registratore semiprofessionale. È usando il Portastudio del benemerito Steve Goldstein che ferma su nastro le sue prime sei canzoni post-Riff Raff. Richard non c’è, A New England sì, in apertura di un programma che comprende altri tre pezzi (The Milkman Of Human Kindness, The Man In The Iron Mask e To Have And To Have Not) che finiranno su “Life’s A Riot”, uno (Strange Things Happen) che recupererà su “Brewing Up” e un ultimo (The Cloth) destinato a rimanere a lungo inedito. Al tempo il “Melody Maker” ospita una rubrica, Playback, in cui una delle sue penne più quotate, Adam Sweeting, si occupa di demo e sono in genere botte da orbi, ceffoni che come quelli del dio di Gaber appiccicano al muro. Billy, che in concerto si propone come Spy Vs. Spy non volendo anticipare ai gestori dei locali né agli spettatori che si troveranno dinnanzi una one man band, spericolatamente gli spedisce le sue canzoni. Il 16 ottobre 1982 il telefono di Low Price Records squilla e all’altro capo c’è la sua ragazza, Katy. “Sei seduto?” È seduto.

Questo demo è una piccola miniera d’oro di melodie tanto semplici quanto solide poste a sostegno di alcuni dei testi più acuti e divertenti nei quali io mi sia imbattuto da diversi anni in qua. Con la sua voce ruvida e rauca Bragg canta di ragazze che lavorano, di disoccupazione, delle piccole frustrazioni di ogni giorno e di come combatterle, un realista che guarda tuttavia all’amore con il senso di meraviglia di un bambino. La sua visione del mondo è nel contempo disincantata e innocente, quella di un individuo vulnerabile e che però sa confrontarsi a muso duro con i duri fatti della vita. Queste canzoni sono insieme disturbanti e rassicuranti, piccoli salvagenti gettati in un mare in tempesta. Sagge e brillanti, dovrebbero fare vergognare di sé tanti che si azzardano a definirsi cantautori. Che ci sia o meno giustizia a questo mondo, di costui sentirete di nuovo parlare e presto.

Che non sarà l’equivalente inglese di “ho visto il futuro del rock’n’roll e il suo nome è Bruce Springsteen” ma ci va vicino.

Prosegue per altre 27.400 battute su Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.178, marzo 2013. Billy Bragg compie oggi sessantasei anni.

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I grandi insuccessi di Terry Reid

Il 13 novembre compie settant’anni l’artista che, nell’arco di una carriera iniziata tredicenne, probabilmente ha perso più treni di chiunque altro. Ma ogni volta lasciando in stazione qualcosa di meraviglioso. Ufficio oggetti smarriti.

Oggi come oggi a Londra di interessante non ci sono che i Beatles, i Rolling Stones e Terry Reid.

Non è certo (dipende da a chi date credito) chi affermò quanto sopra: se Aretha Franklin o il suo produttore Tom Dowd, che assistevano fianco a fianco a un concerto del giovanissimo autore, interprete, cantante, chitarrista e ne uscivano entusiasti. Chiunque fu, Lady Soul o Dowd (che dell’album che i più ritengono il disco imprescindibile di Reid, misconosciuto classico del suo tempo e fuori dal tempo, si troverà a curare la regia), ovviamente esagerava. A mettersi a fare un elenco ragionato, pur minimo, di quanto accadeva nella capitale britannica nel 1968, anno favoloso per antonomasia, c’è di che farsi cogliere dalle vertigini. Nondimeno la frase è significativa in quanto chiarisce che, 1), il giovincello era già ben più che una promessa e, 2), all’epoca non ci si chiedeva se sarebbe diventato una star, ma solamente quando. Eppure già le cose stavano andando per il verso sbagliato, l’esordio a 33 giri assurdamente pubblicato soltanto negli USA (nel Regno Unito non vedrà la luce che nel 1992, in CD; non esiste una stampa UK del primo Terry Reid in vinile) e non all’altezza, causa una scaletta raffazzonata e la mancanza di una guida sicura, unita a qualche interferenza fuori luogo, del produttore Mickie Most, del clamoroso potenziale del titolare. A quel punto un veterano.

Nato a Huntingdon, una cittadina del Cambridgeshire, figlio unico di una coppia trasferitasi in quell’area prevalentemente rurale (risiede nella minuscola Holywell) e dal clima mite fuggendo un Nord grigio non solo per il meteo cronicamente avverso ma per le miniere anche a cielo aperto, Terry diletta il parentame che l’ha raggiunta e i vicini cantando, bambino, in ogni occasione sociale si presenti. Vince una gara che ha in palio come premio due magnum di champagne e la prima delusione, come un presagio di quanto il destino ha in serbo per lui, è che non abbia ancora l’età per potere assaggiare il prezioso nettare. Dodicenne chiede in regalo al padre una chitarra e la ottiene: una da pochi soldi. La promessa è che se si impegnerà abbastanza a imparare a suonarla lo strumento verrà sostituito con uno di maggior pregio. Non passa che un anno e già può maneggiare una passabile Hofner, elettrica, naturalmente con tanto di amplificatorino. Avete gettato un occhio al calendario? Avanzano al proscenio i Beatles e in men che non si dica il ragazzetto ne sa riprodurre alla perfezione il repertorio. Impressionato, papà gli compra una Gretsch professionale e un amplificatore Vox. Per il resto del decennio gli farà quando necessario da autista, improvvisandosi, da primo fan che è diventato, roadie e tour manager.

La scarna bibliografia in mio possesso (un’intervista al “Comston Lode” del 1979 e una a “Record Collector” del ’92, materiali usciti in questo decennio su “Uncut”, “Louder”, “Shindig”, “Wax Poetics” e “Mojo”; poco altro) non tramanda ai posteri le generalità dei due (presumibilmente) coetanei che fiancheggiarono Terry Reid nei Redbeats: in ogni caso qualcosa più di un complessino scolastico se venivano ingaggiati per una residenza in un locale di St Ives e si ritrovavano ad aprire spettacoli in zona dei Kinks e degli Hollies, niente di meno. Il che dava al nostro allora quattordicenne eroe l’opportunità di conoscere Graham Nash (sei anni e mezzo più ─ si fa per dire ─ anziano) e gettare i semini di un rapporto che da lì a un decennio frutterà un raccolto meraviglioso. Sia come sia: una sera a vedere i Redbeats va Peter Jay, stellina cadente giacché i suoi Jaywalkers hanno colto la loro unica hit tre anni prima (e già sembra un secolo) con Can Can ’62, una produzione griffata Joe Meek. Dopo quattro insuccessi di fila la Decca li ha scaricati e l’approdo alla Piccadilly (un sottomarchio Pye) ne ha sanzionato la retrocessione nella serie cadetta della discografia isolana. Da lì Jay vorrebbe risalire aggiornando un sound, fra pop e rock’n’roll, ormai obsoleto nel panorama ridisegnato dai Fab Four, dal beat, dall’onda montante del British Blues. Oltre che chitarrista già extraordinaire, Terry Reid ha una voce eccezionalmente matura per la sua età. Versatile. Soprattutto: negra. Ideale per la rotta verso lidi soul ed errebì che intendono intraprendere i Peter Jay’s Jaywalkers. Gli viene offerto il posto e accetta, lasciando gli studi regolari per iscriversi all’università della vita. On the road, per cominciare. Difficilissimo il primo esame, che supera brillantemente: un tour come supporto dei Rolling Stones riguardo al quale ha sempre raccontato di non essere riuscito ad ascoltare una singola nota degli illustri quanto scapestrati mentori (sono stati loro a scegliersi i gruppi spalla; il favoloso cartellone è completato da Yardbirds e Ike & Tina Turner) per via del wall of sound di urla del pubblico femminile. Lega principalmente con Keith Richards ed è il principio di un’amicizia che dura a oggi. La Columbia offre un contratto ai ragazzi che non frutterà però, e fuori tempo massimo per come suona, che un singolo di modesto impatto, datato 1967.

Recuperato nel 2006 nella doppia antologia EMI “Super Lungs (The Complete Studio Recordings 1966-1969”, The Hand Don’t Fit The Glove replica all’incirca il poppetto fuori moda da cui i Jaywalkers avrebbero disperatamente voluto affrancarsi. Infinitamente superiore un retro, This Time, con organo ficcante e fiati avvolgenti, Terry che gioca a fare Curtis Mayfield non avendo ancora scoperto Al Green. Molto meglio pure i quattro inediti sistemati in apertura di raccolta. Più della comunque godibile, sbarazzina It’s Gonna Be Morning, una I’ll Take Care Of You alla Otis Redding, una Funny How Time Sleeps Away parimenti Stax (sul secondo CD una versione alternativa più Old Blue Eyes che blue-eyed soul) e l’esultante (propulsa da un basso irresistibile) Just Walk In My Shoes. La band si scioglie, la Columbia si tiene stretto il cantante e all’inizio dell’anno dopo lo fa esordire a 45 giri. Di nuovo, meglio il lato B ─ una Fires Alive autografa e dal vago sentore di psichedelia ─ che il brano portante, la ballata alla Walker Brothers Better By Far. Il botteghino non premia e il contratto viene stracciato.

Il lancio di una monetina può cambiarti la vita. In quel momento soci, il primo in prepotente ascesa, il secondo viceversa prossimo a farsi superare da un mondo che gira sempre più veloce mentre lui resterà fermo, Peter Grant e Mickie Most si sono giocati Terry Reid a testa e croce. Ha vinto il secondo (il primo si prende ciò che resta degli Yardbirds e il lettore avvertito avrà inteso che in realtà il vincitore è lui) e ne è diventato il manager. È l’uomo che ha scoperto gli Animals, ha messo gli Herman’s Hermits in competizione con i Beatles, fatto ricchi i Nashville Teens e Brenda Lee e giocato un ruolo decisivo nell’ascesa allo stardom di Donovan. È fresco di lancio della carriera da solista di Jeff Beck ma a permetterglielo è stato il suo mandare a catafascio proprio gli Yardbirds. Discografico della vecchia scuola nonostante ancora debba compiere trent’anni (Grant ne ha trentatré) ha come formato di elezione il singolo e non si rende conto (o piuttosto ne è disgustato) che è l’album lo strumento che il rock ha scelto per farsi forma d’arte adulta (pensateci un attimo: ricordate un solo LP degli Animals o degli Yardbirds che possa dirsi una pietra miliare? non ve n’è, se volete avere il meglio del loro catalogo è alle antologie che dovete rivolgervi). Per lui una canzone deve durare massimo tre minuti e addirittura sta meditando di lasciare il rock per concentrarsi sul pop. Su cose tipo la sunnominata Better By Far, che l’etichetta già certifica una “Mickie Most Production”.

Bizzarro allora, quasi più che esca solamente negli Stati Uniti (e in Canada, e in Nuova Zelanda) quando il titolare è nome fra i più chiacchierati in patria, che da “Bang, Bang You’re Terry Reid” non vengano tratti 45 giri. In special modo considerando che i brani che sciupano un debutto che sarebbe per il resto efficace, e avrebbe potuto farsi memorabile con una scaletta oltre che accorciata (cinquantuno minuti; tanta roba per gli standard del tempo: troppa) meglio congegnata, li ha con ogni evidenza fortissimamente voluti il produttore. Per il futuro che ha in testa per il suo artista, che vede come un novello Scott Walker dalle inflessioni moderatamente soul, le cover della quasi title track, Bang Bang (My Baby Shot Me Down) (Sonny & Cher) e Something’s Gotten Hold Of My Heart (Gene Pitney) sarebbero dei lati A perfetti. Terry, che vorrebbe invece inserirsi nel filone eminentemente chitarristico del nascente hard, fa il possibile per personalizzare la prima ─ incattivendola, inacidandola ─ ma nulla può alle prese con una seconda di natura quintessenzialmente melò e dunque distantissima dalle sue corde. I due pezzi in questione sono sistemati in apertura e chiusura di prima facciata e il contrasto rispetto alle altre due riletture di brani altrui che occupano gran parte della seconda non potrebbe essere più stridente: sfilano nell’ordine una delle più dilatate e ruvide Season Of The Witch (da Donovan) che si ricordino e ─ in medley con un’autografa Writing On The Wall che parte liturgica per quindi farsi fanfara ─ una Summertime Blues (da Eddie Cochran) quasi all’altezza dell’appropriazione che da lì a due anni ne faranno gli Who del “Live At Leeds”. Entrambe sfondano il muro dei dieci minuti e ci si domanda se Most fosse in studio quando vennero registrate e come mai ne approvò (ma per fortuna!) l’inclusione nel disco. Sorge spontaneo il sospetto che già stesse perdendo interesse per l’artefice. Che firma le sei canzoni che completano il programma e fra le quali c’è dell’ottimo (Without Expression, rifatta già quell’anno dagli Hollies e che verrà ripresa anche da REO Speedwagon e John Mellencamp; una Sweater che anticipa la fascinazione a venire per il Brasile), del buono (l’incantata Erica; una Loving Time degna dei coevi Trinity di Brian Auger) e del prescindibile (Tinker Taylor e When You Get Home, rispettivamente hard e soul-rock sui generis).

Quest’uomo avrebbe potuto avere la mia vita! Ma non so se gli sarebbe piaciuta.

Il conto in banca magari sì.

(scambio di battute fra Robert Plant e Terry Reid in un club di Los Angeles dove il primo aveva raggiunto il secondo sul palco; 2004)

Non c’è niente da fare: fra i non molti che lo conoscono, almeno di nome, per tutti Terry Reid è colui che si fece sfuggire l’occasione di diventare la voce dei Led Zeppelin. Di che amareggiarsi l’esistenza fino all’ultimo dei propri giorni, no? L’interessato non la vede così, ritenendosi piuttosto quello che i Led Zeppelin li mise insieme. Nessun rimpianto, solo orgoglio.

Prosegue per altre 20.232 battute su Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.258, novembre 2019. Terry Reid festeggia oggi il settantaquattresimo compleanno.

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Van Morrison dai Them a “Astral Weeks”

Non ci si crede a tutto quello che ha combinato George Ivan Morrison nei ventitré anni e ventiquattro giorni che separano la sua nascita in quel di Bloomfield, Belfast Est, il 31 agosto 1945 dall’appuntamento il 25 settembre 1968 presso gli studi Century Sound sulla Cinquantaduesima Strada Ovest di New York, probabilmente la migliore sala d’incisione cittadina, con il produttore Lewis Merenstein e alcuni musicisti jazz dei quali non conosce che i nomi. Dopo una serie infinita di complessini amatoriali, il primo dei quali fondato alla tenera età di dodici anni (duplice segno dei tempi che suonino skiffle e si chiamino Sputniks), a malapena diciassettenne ha girato l’Europa cantando, suonando chitarra, armonica e sassofono alla testa di tali Monarchs, con i quali ha pure esordito discograficamente, diciottenne, con un singolo che, registrato in Germania e uscito solo lì, ha fatto capolino nelle zone più basse delle classifiche locali. Tornato a casa e dopo un paio di passaggi a vuoto, nell’aprile ’64 si è unito per un ingaggio al Maritime Hotel, un club discretamente malfamato frequentato da marinai, a una compagnia di altri ragazzini in pista da due anni come Gamblers, ne ha assunto la guida e li ha ribattezzati Them. Incredibilmente complicata per non essere durata che due anni e due mesi, la storia dei Them è quella di un gruppo di punk ante litteram che aggrediscono il blues e il soul con una foga tale da trasfigurarli in garage, del garage disegnano con Gloria l’inno definitivo (e con I Can Only Give You Everything uno di quelli di riserva) e, prima di congedarsi, si producono in una It’s All Over Now, Baby Blue che sta all’originale di Dylan quasi come starà al suo modello la All Along The Watchtower di Hendrix. Lasciatili (non prima di avere incrociato l’omonimo Jim e avergli insegnato un trucco o due) a destini psichedelici e non più di classifica, marginali e però di culto (una ben curiosa seconda esistenza), Van si è stabilito nella Big Apple, ha firmato un contratto da solista per la Bang Records e se n’è immediatamente pentito.

Fatto è che della Bang è proprietario un altro genio rissoso quale Bert Berns, ebreo nuovayorkese di ascendenze russe allora trentasettenne, produttore e soprattutto autore con all’attivo una serie di canzoni classiche da inginocchiarsi mentre se ne sgrana il rosario: Twist And Shout, Here Comes The Night (scritta proprio per i Them), Everybody Needs Somebody To Love, Cry Baby, Piece Of My Heart, per limitarsi a cinque che non posso pensare che ci sia un lettore che non le conosca tutte. Il problema principale fra questi due negri dentro è che uno ragiona ancora in termini di sette pollici, il secondo è proiettato nell’era dell’album. Paradossale che i ruoli si invertano quando, avendo registrato nel marzo ’67 otto brani in previsione della pubblicazione di quattro singoli, Van scopre per puro caso che Bert li ha radunati in un LP, lo ha intitolato “Blowin’ Your Mind” e lo ha spedito nei negozi, fra l’altro alloggiato in una terribile copertina pseudo-psichedelica. Come è naturale che sia, si infuria, ma è innanzitutto con se stesso che dovrebbe prendersela, avendo sottoscritto senza leggerlo con attenzione un accordo che dà al discografico diritti di vita e di morte sul cantante, o poco meno. Parrebbe meno logico che se la prenda pure quando Brown Eyed Girl comincia a scalare le graduatorie di vendita dei 45 giri, fino a entrare nei Top 10 USA, ma un senso – e duplice – c’è: per un verso lo infastidisce che un successo che oltrepassa, e di gran lunga, le migliori performance americane dei Them lo collochi in un mercato adolescenziale quando è da artista adulto che vorrebbe proporsi; per un altro aggiunge beffa al danno che, sempre per via del contratto summenzionato, vendite imponenti non gli fruttino che spiccioli. I due si affrontano a muso duro a più riprese e sono gare di urla dalle quali Morrison esce vincitore per K.O. quando il 30 dicembre 1967 un infarto stronca Berns, tragedia che la vedova Eileen imputerà proprio a quei litigi. Vendicativa, proverà a imporgli il rispetto di un contratto che ha ereditato e prevede ancora un’infinità di obblighi, ma inizierà ad alzare le mani in segno di resa quando il Nostro le consegnerà un nastro di trentasei minuti con dentro le trentadue “canzoni” che in teoria le dovrebbe.

Sono mesi tristi, incerti e irosi. Van ha scoperto di detestare New York (dove fra l’altro dopo l’affaire Berns non vi è proprietario di club che sia disponibile a farlo suonare) e si è trasferito nel Massachusetts, nella cittadina universitaria di Cambridge. Non ne placa le ansie, non ne sconfigge la depressione la compagnia dell’incantevole Janet Planet, musa e pure moglie dopo che Eileen ha provato a fargli ritirare il permesso di lavoro negli Stati Uniti, con il rischio di un conseguente rimpatrio forzoso nell’Ulster. Beve smodatamente e i dj delle radio locali si abitueranno presto alla voce ubriaca che, alle ore più improbabili della notte, telefona chiedendo oscure facciate di blues. Se ne esce pian piano, mettendo insieme una band elettrica e subito disfandola, cominciando a girare per bar ma non più soltanto per stordirsi, in duo con il contrabbassista Tom Kilbania, suonando acustico, magari senza avere il nome in cartellone dopo avere abitato per due anni il rock stardom. Al Catacombs di Boston, locale il cui palco ha ospitato a più riprese i Velvet Underground (ai Century Sound il Nostro incrocerà John Cale, al lavoro nella sala a fianco) ai due si unisce il flautista John Payne e quella che avrebbe dovuto essere giusto una jam si trasforma in sodalizio stabile. L’intesa è affinata in una settimana di esibizioni gratuite (ed è un modo per aggirare l’embargo) a New York, allo Steve Paul’s Scene, di spalla a Tim Hardin. Arduo affermarlo con certezza, ma a questo punto le canzoni che finiranno in “Astral Weeks” dovrebbero essere tutte in repertorio, sebbene in forme lontane da quelle che assumeranno.

Incastri che vanno al loro posto… A mettere un punto e a capo all’era Berns è una vecchia conoscenza di Berns stesso, Bob Schwald. Veterano del Brill Building, proprio approfittando dell’antica consuetudine con il defunto può impegnarsi nella trattativa con la vedova per liberare Morrison dal contratto capestro, nel mentre discute con Joe Smith il contestuale passaggio alla Warner e sarà un matrimonio quindicennale e stavolta felice. Ed è sempre Schwald ad arruolare come produttore Merenstein. Abituato a lavorare con leggende del jazz del livello di un Thelonious Monk o un Art Farmer, molto colpito da alcuni spettacoli cui ha assistito, costui a sua volta (con buona pace di Kilbania, che esce di scena) convoca il bassista Richard Davis, turnista con un curriculum impressionante che include da Sarah Vaughan a Eric Dolphy, passando per Thad Jones e Mel Lewis, e gli affida come primo compito quello di scegliere lui i musicisti che completeranno il gruppo. Sono il chitarrista Jay Berliner, il percussionista e vibrafonista Warren Smith Jr. e Connie Kay, batterista del Modern Jazz Quartet. Più l’arrangiatore Larry Fallon, che non interverrà in prima battuta ma giocherà in ogni caso un ruolo chiave cucendo a posteriori raffinatissime sopravesti di archi e fiati.

Berliner ha suonato jazz con il Charles Mingus del capitale “The Black Saint And The Sinner Lady”, folk-pop con l’Harry Belafonte di un al pari cruciale nel suo ambito “The Many Moods Of”. Sarà lui a fungere da ufficiale di collegamento fra mondi. Quando quarant’anni dopo deciderà di portare infine “Astral Weeks” in tour, dei musicisti originali Van Morrison richiamerà solamente lui.

Tratto da “Posseduto – Il Van Morrison di ‘Astral Weeks’”. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.180, maggio 2013. Ristampato in Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015.

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London’s Burning – La prima volta dei Clash

Un prodotto ─ il più pregiato ─ della loro era. Per qualche anno la più grande rock’n’roll band sulla piazza. Motivo bastante a celebrarne il venticinquennale che cade giusto nei giorni in cui vado scrivendo queste righe? Senza dubbio. Ma non l’unico e nemmeno il più importante. Perché c’è un’altra angolazione da cui osservare il “caso Clash” e financo più interessante: una compagine all’avanguardia. Spogliando per un attimo il termine dalle connotazioni dategli da Simon Reynolds e poi comunemente accettate, si può affermare che i Clash siano divenuti, strada facendo, il primo gruppo post-rock: il primo, cioè, a negare la centralità del rock (un’idea figlia della presunzione eurocentrica) e a considerarlo non la musica popolare della seconda metà del Novecento ma una delle tante musiche popolari. Prima di loro il rock era una faccenda a compartimenti stagni ove i vari sottogeneri raramente interagivano e i fruitori si dividevano in tribù. Dopo, non solo ogni commistione interna al genere sarà lecita ma diverrà pratica diffusa cercare contatto con tutte le musiche nere possibili ─ non soltanto il blues, il soul o il rhythm’n’blues, già metabolizzati, ma anche funky e disco, reggae e rap (mentre troppi critici lo liquidavano come una moda, i Clash si immergevano nella cultura che lo aveva generato) ─ e la galassia latina. Se non giunsero a confrontarsi con l’Asia e l’elettronica sarà perché la loro parabola era arrivata a compimento. L’attitudine al crossover, oggi a tal punto diffusa da passare inosservata, avanti “Sandinista!” era inconcepibile. In ciò risiede la loro rilevanza odierna, nell’invenzione della patchanka dispersa per il globo, mica nelle miriadi di cloni di questo o quello dei loro periodi e in particolare del primo. Non nego, ad esempio, di avere apprezzato (direi addirittura amato) dischi come “…And Out Come The Wolves” e “Life Won’t Wait” dei Rancid. Se però li esamino razionalmente, esorcizzando quella bestia grama che è la nostalgia, so che, contrariamente al modello di cui tradiscono lo spirito nell’istante preciso in cui ne perpetuano la lettera, non lasceranno traccia.

Ma sono questi ragionamenti perfettamente accessibili a chi, magari non ancora nato all’epoca in cui White Riot raggiunse i negozi, sia informato quanto basta sulla musica trattata su queste pagine. Può capire e apprezzare. Ciò che non potrà mai afferrare completamente (scusatemi se mi ripeto) è l’eccitazione, selvaggia e poeticissima, di cui i Clash colorarono i loro anni. Era energia brada senza che il testosterone c’entrasse granché. Era noi contro tutti (da cui le divise da guerriglieri di cui i Public Enemy si approprieranno). Era avere stile. Era essere realisti e quindi chiedere l’impossibile. Era vivere la vita come fosse un film. Lo scrissi in altra occasione su altre colonne e voglio qui ribadirlo: se mai c’è stato un rock “di sinistra” ─ una Sinistra, più che ideologica, romantica ─ i Clash ne sono stati i cantori più credibili.

Basta! Ho sproloquiato a sufficienza. Tempo di passare ai fatti. 13 agosto 1976, questa la data che segnò l’esordio ufficiale dello Scontro. Avvenne di fronte a una scelta platea di giornalisti, il che dovrebbe dirla lunga sulla capacità di manipolare i media del manager Bernie Rhodes, già complice di Malcolm McLaren e se possibile anche più egocentrico del burattinaio dei Sex Pistols: comunque fondamentale per la fulminea ascesa dei Clash, come lo sarà per la rovinosa caduta. Dei cinque che si presentano alla ribalta del londinese Rehearsals, non un club ma la sala prove del gruppo stesso (c’era stato in realtà in precedenza un concerto di riscaldamento, a Sheffield, di spalla proprio ai Pistols), il ventiquattrenne Joe Strummer (nato Mellor) è l’unico che possa vantare un vinile nel suo curriculum. Oh, non una cosa da far crollare le mura di Gerico. Giusto un 45 giri su Chiswick iscrivibile in area pub-rock e vendutosi in qualche centinaio di copie. 101ers il nome del gruppo, miscela di Chuck Berry e garage ’60 senza altra pretesa che quella di divertire gli avventori del Charlie Pig Dog Club (non proprio il massimo della raffinatezza il posticino, avrete inteso dalla ragione sociale). Costui è stato l’ultimo ad aggregarsi alla compagnia. Gli altri, dai tre ai quattro anni più giovani, sono i chitarristi Mick Jones e Keith Levine, il bassista Paul Simonon e il batterista Pablo La Britain, quasi subito rilevato da Terry Chimes. Si chiamavano Heartdrops un attimo prima che arrivasse Strummer e London SS due: sigla provocatoria che fa capire che l’incendio del punk sta per divampare, palestra ammantata di leggenda per cui erano già passati, fra gli altri, Chrissie Hynde, un paio di futuri Damned, un Generation X e gente che si ritroverà nei Chelsea e nei Boys.

Del quartetto che indovina in Strummer, avendolo visionato in azione su un palco, carisma quanto basta a offrirgli il posto di cantante e punto focale, il ventunenne Jones è di gran lunga il più motivato e quello che intrattiene rapporti più proficui con il suo strumento. Due anni dopo, gli brucia ancora il licenziamento, istigato da Guy Stevens (proprio il vecchio marpione che si troverà a produrre “London Calling”), dai Delinquents, dilettantesco combo glam ispirato dalle gesta di MC5, Stooges, Mott The Hoople, New York Dolls. Non andrete da nessuna parte con quell’incapace, ha vaticinato Stevens. Non andranno da nessuna parte comunque. Mick sì. Devastato ma voglioso di riscatto, si è comprato una Les Paul Junior (stesso modello dell’idolo Johnny Thunders) e da allora ci si esercita ostinatamente, costruendosi un bagaglio crescente di trucchi. All’opposto il non ancora ventenne Simonon, studente d’arte tanto valido con i pennelli quanto inetto con una sei corde. Ci ha provato in tutti i modi Jones a insegnargliene i rudimenti e alla fine si è dovuto arrendere. Gli ha allora consegnato un basso, più facile da maneggiare, e gli ha dipinto sul manico le posizioni dove poggiare le dita. Diventerà un bassista di vaglia, Paul Simonon, e Mick Jones avrà modo di congratularsi con se stesso per avere avuto la testardaggine di insistere su quel giovanotto che non sapeva suonare, no: ma con quale eleganza portava a tracolla lo strumento!  Sublimemente appropriato che sulla copertina di “London Calling” ci sia lui.

Tratto da “Last Gang In Town – Il venticinquennale dei Clash”. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.3, autunno 2001. Ristampato in Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Il 13 agosto 1976 i Clash suonavano ufficialmente dal vivo per la prima volta (era in realtà la seconda), davanti a un selezionato pubblico di addetti ai lavori.

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C’erano o ci facevano? I primi Beastie Boys

Ci sono due scuole di pensiero sui primi Beastie Boys (cioè: non i primi-primi; capirete fra poco): taluni sostengono che “c’erano”, altri che “ci facevano”. Insomma: come spiegare la distanza abissale che separa il gruppo del 1986, uno dei più politicamente scorretti che si ricordino, da quello degli anni ’90, che offre rispetto alle donne, si interessa al buddismo e organizza concerti per la libertà del Tibet? Vero che dalle nostre parti abbiamo assistito a metamorfosi cherubine anche più sorprendenti, però… Giunge ancora in soccorso il libretto di “The Sounds Of Science”, in cui Adam definisce Fight For Your Right To Party, una superhit nell’87 e a tutt’oggi la canzone con la quale i tre vengono maggiormente identificati, “uno scherzo andato troppo oltre”. A sentire lui fu determinante il video (molto Animal House, n.d.a.), in cui i Nostri si comportavano da studentelli casinisti, sboccati, francamente stupidi. Appena uscì, partì il loro primo tour in proprio (avevano in precedenza fatto da spalla a Madonna e ai compagni d’etichetta Run-D.M.C.) e pensarono che sarebbe stato divertente riprendere sul palco quei personaggi. Salvo accorgersi in breve che il pubblico strabocchevole che affollava i concerti sembrava essere composto prevalentemente da individui di tal fatta. Salvo farsi prendere la mano dalla situazione. Morale della storia (una delle possibili): “State attenti a chi prendete in giro, potreste diventare come lui”. Ma non dovrebbe giustificarsi, il Boy. Fu uno spasso, per chi c’era, imbattersi dieci anni dopo in un gruppo capace di scandalizzare i media come da lezione Sex Pistols. Ma mi accorgo di stare correndo. Sarà il caso di fare qualche passo indietro.

Adam Yauch (che sarà presto noto come MCA, acronimo che sta per Master Of Ceremonies Adam) e Michael Diamond (che si ribattezzerà Mike D) si conoscono il 5 agosto 1980, alla festa per il sedicesimo compleanno del primo. Evidentemente si piacciono se da lì a un anno, appresi il primo i rudimenti del basso, il secondo quelli della batteria, cominciano a suonare insieme. I Beastie Boys nascono poco dopo, da un rimpasto nella formazione dei punkettari Young Aborigines, dei quali Mike fa già parte, così come John Berry e Kate Schellenbach, futura Luscious Jackson, che completano il primo organico del gruppo.

All’ombra della Grande Mela sta sbocciando l’hardcore. Suonano in tale stile i primissimi Beastie Boys, grezzi, per non dire totalmente inetti. Ne è testimonianza l’EP Polly Wog Stew, che vede la luce nel 1982 per la minuscola Rat Cage e prima di essere riedito, nel ’94, sull’antologico “Some Old Bullshit” passava di mano a cifre favolose. Non le vale. A dirla tutta non vale nemmeno il prezzo, assai più modesto, richiesto per acquisirne la ristampa. E bene fa “The Sounds Of Science” a sorvolare quasi su quei Beastie Boys.

Ma all’ombra della Grande Mela sta sbocciando anche l’hip hop. Berry e la Schellenbach lasciano. Li rimpiazza, proveniente da un’altra band hardcore, gli Young & The Useless, Adam “King Ad-Rock” Horovitz, figlio del noto commediografo e sceneggiatore Israel. Vengono snocciolati i primi rap. Al CBGB’s e al Danceteria, dove i tre sono di casa, cominciano a unirsi loro dei DJ: prima Rick Rubin, che non è ancora il produttore più pagato d’America; quindi Doctor Dre, che diventerà famoso anni dopo come presentatore del programma televisivo “Yo! MTV Raps”. In nuce nel singolo Cookie Puss/Beastie Revolution (ancora su Rat Cage), il cambio di pelle si completa nel 1984. Sebbene privi di un contratto discografico, in luglio i Beastie Boys supportano Madonna in un tour americano. In ottobre firmano per la Def Jam di Rick Rubin e Russell Simmons. In novembre sono fra i protagonisti, con LL Cool J, Kurtis Blow, i Fat Boys e altre giovani promesse del rap, del film Krush Groove. Si parla parecchio di loro.  Bisogna però aspettare il 1986 perché escano i primi 45 giri del nuovo corso, quattro, senza che i critici si commuovano né le classifiche si smuovano. Quando “Licensed To Ill” viene pubblicato è ormai novembre e nulla fa prevedere che in un anno collezionerà quattro dischi di platino (ciascuno certifica un milione di copie vendute) nei soli Stati Uniti. Ma, come accadrà un lustro più tardi con un altro album, chiamato “Nevermind”, per chi ha orecchie per intendere già dal primo brano è chiaro che ci si trova in presenza di un lavoro epocale. C’è molto teen spirit (sebbene non della tormentata qualità di quello di Cobain; esattamente opposto anzi) in Rhymin & Stealin’. Un titolo programmatico: le tre bestioline rimano su basi campionate e dunque rubate. Un colpo di genio: mettere insieme il ritmo e le tecniche dell’hip hop, dal sampling allo scratching, con i riffoni chitarristici del rock più greve.

Lo hanno già fatto, pochi mesi prima, i Run-D.M.C. Convocando gli Aerosmith per una rilettura della loro Walk This Way hanno abbattuto le barriere fra rap e hard e unificato due tipologie di ascoltatori, molto giovani, che si sarebbero dette inconciliabili. I Beastie Boys possono contare in più – è antipatico dirlo ma sarebbe ipocrita tacerlo – sul fatto di essere bianchi. All’industria non pare vero di avere finalmente fra le mani dei visi pallidi pratici di hip hop. Sogna di sdoganare il (non più tanto) nuovo genere, dopo averlo reso innocuo, presso il pubblico del rock, secondo strategie già sperimentate con il rock’n’roll dei primordi. Solo che – il solito bacino di Elvis che si mette di mezzo – non tutto va secondo i piani.

Tratto da “Beastie Boys – Rhymin & Stealin’ With Style”. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.375, 30 novembre 1999. Ristampato in Extraordinaire 1 – Di musiche e vite fuori dal comune. Non ci avesse lasciati il 4 maggio 2012, Adam Yauch compirebbe oggi cinquantanove anni.

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Deviants e Pink Fairies ─ Dope, Rock’n’Roll & Fucking In The Streets

Non puoi sapere quando il tuo giorno verrà, se no ti prepareresti e almeno all’ultimo la vita non sarebbe la fregatura che è. Potresti lasciare tutto in ordine, un po’ per facilitare gli adempimenti burocratici a chi resta, un po’ perché sarebbe consolatorio consegnare ai posteri un autoritratto senza errori di stampa. Un’immagine opportunamente aggiustata, così che qualcuno si convinca che non eri il povero stronzo che eri. Non c’è niente come un bell’addio. Un testamento che trasmetta quella saggezza che mai hai saputo dove stesse di casa. Un post di virile congedo sul tuo blog. Ignoravo che Mick Farren ne avesse uno e quando mi ci sono imbattuto mi è scappato da ridere di fronte a un’impagabile “Avvertenza”, quella con cui il più noto dei motori di ricerca fa in genere precedere pagine di sesso o di odio e che avvisa il navigante che “alcuni lettori hanno contattato Google perché ritengono che i contenuti di questo blog siano discutibili”. Ho dichiarato con un clic “di comprendere e di volere continuare” e sono entrato. Credo di averci trascorso un paio di ore. Era aggiornato quotidianamente, Doc 40, e immalinconisce constatare che i post più recenti sono datati 15 luglio. Insomma: negli ultimi dodici giorni di un’esistenza impossibilmente piena e complicata, giunta non si sa come in prossimità dei settant’anni, il titolare non aveva più trovato il tempo ─ o la voglia, o la forza ─ di porci mano. In compenso gli ultimi tre interventi ne riassumono l’ethos come a farlo apposta meglio non avrebbe potuto. Incastonata fra una tavola di un fumetto SF e una polemica sul nuovo ordine mondiale, la foto di un roditore in posa tipo cantante al microfono: “Scoiattoli di tutto il mondo unitevi ─ Non avete da perdere che le vostre nocciole!”. Di nuovo mi è scappato da ridere, ma poi ho visto che il Nostro aveva un profilo Facebook e pure lì ho fatto un giro. Lì mi è venuto da piangere. Non per le immagini di esequie di ambientazione spiazzantemente bucolica per un vecchio guerrigliero metropolitano, ma di fronte all’ultimo aggiornamento di suo pugno, proprio il 27 luglio, quattro parole sopra un poster dell’“Atomic Sunshine One Day Festival”: “TODAY’S THW DAY”. Oggi è il giorno, con tanto di refuso. Ma forse Mick, da incorreggibile prankster quale era, avrebbe apprezzato l’ironia.

C’è chi ha scritto che un uomo la cui vita è stata così fino all’ultimo una fantasia rock’n’roll una morte migliore ─ sul palcoscenico di un club tutto esaurito, con nelle orecchie un ultimo scrosciare di applausi ─ non avrebbe potuto agognarla. Che se n’è andato da vero cowboy, con gli stivali ai piedi, e se a scriverlo è l’amico di quattro abbondanti decenni, il collega di ufficio nel “New Musical Express” più scomodo e irriverente che si ricordi, Charles Shaar Murray, ti viene voglia di crederci. Ma poi leggi un resoconto da testimone oculare della fatale serata di un collaboratore di “Shindig!” e ti sembra ─ è ─ un racconto dell’orrore. Te lo vedi davanti quell’anziano mostruosamente sovrappeso, obesa, oscena caricatura dell’allampanata, iconica figura che fu, scivolare dopo un paio di canzoni dalla sedia dove lo avevano fatto faticosamente accomodare e giacere immoto, al centro di una ribalta troppo piccola per contenere così tanta carne, così tanto dramma. Il gruppo di accompagnatori (in cartellone come The Deviants: sì, certo…) che si arresta smarrito. Qualcuno del pubblico che prova a prestare aiuto, nell’attesa di un’ambulanza. La folla sfolla in silenzio, disperdendosi nella prima notte londinese piovosa dopo un mese da estate al sud. Ma se un corpo troppo maltrattato alla fine lo ha tradito la mente era lucida. Visto che ci siete, in Internet, cercate un’intervista uscita in marzo su “The Quietus”. Parecchio lunga e approfondita. Splendida. Proprio alla fine Farren riassume una generazione e la sua gioventù con una frase che ne è epitaffio: “We were storming into the future”. Ci pensa un attimo e conclude: “We still want to storm into the future”.

I was a punk before you were a punk” (titolo di una canzone dei Tubes)

Non vi è modo in cui si possa racchiudere in spazi da rivista il romanzo per l’appunto non di un uomo ─ che pure ne fu via di mezzo fra mattatore e deus ex machina ─ bensì, se non di una generazione intera, dell’avanguardia di quella generazione. Della parte per la quale il graffito più celebre del maggio parigino ─ “Siate realisti, chiedete l’impossibile” ─ funse da manifesto programmatico. Marxisti, o anarchici, che avendo assunto LSD da lì in poi furono diversamente rivoluzionari e Mick Farren ne fu e sempre ne rappresenterà il prototipo.

Prosegue per altre 22.853 battute su Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.186, novembre 2013. Mick Farren se ne andava nel modo su descritto dieci anni fa a oggi.

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Nuotando nella lava appeso per le braccia a una betulla – Bob Dylan a Newport, 25 luglio 1965

Un titolo paradigmatico, una volta di più: si chiama “Bringing It All Back Home”, riportando tutto a casa (in Europa sarà però sempre “Subterranean Homesick Blues”), il 33 giri che nel marzo 1965 accende gli amplificatori e le polemiche. A mettere su per sbaglio per prima la seconda facciata, si potrebbe pensare che non molto sia cambiato, visto che Dylan è quasi sempre solo soletto con la sua chitarra e la sua armonica, e d’accordo che Mr. Tambourine Man già squilla dalle radio dell’intera nazione ma non è la versione dell’autore che si ascolta, bensì quella dei Byrds che sta dando il via alla stagione del folk-rock. Certo, i versi sono criptici e lirici come non mai ed evidentemente drogati (come anatema già basterebbe ai folkettari, che pure mai si sono fatti scrupolo di cantare Cocaine), però… Però l’ipnotica Gates Of Eden sarebbe potuta stare indifferentemente in uno dei due LP prima e la drammatica It’s Alright, Ma e la carezzevole (ma scontrosa, ma carezzevole) It’s All Over Now, Baby Blue almeno su “Another Side”. Ma cambia lato, figliolo, e cadrai dalla sedia, e poi ti alzerai, e comincerai a ballare. Subterranean Homesick Blues ha fragore di ordigno, travolge, è la canzone che avrebbe potuto scrivere Chuck Berry fosse stato Allen Ginsberg o viceversa, e dopo il countreggiare di She Belongs To Me provvede Maggie’s Farm con la sua dichiarazione di indipendenza (“ti dicono ‘canta’ ma ti trattano da schiavo e io mi sono stufato/non lavorerò più nella fattoria di Maggie”) benedetta da Chicago a chiarire definitivamente che honey, it’s a brave new world. Love Minus Zero/No Limit è colata di zucchero elettrico sui solchi, Outlaw Blues taglia fino all’osso, On The Road Again scintilla, Bob Dylan’s 115th Dream (e gli altri centotredici?) è un secondo “blues sotterraneo con la nostalgia di casa” di un nonnulla meno efficace del primo. Nella voce, una gioia tanto intensa da essere quasi cattiva; dietro, un gruppo non accreditato (Bruce Langhorne e Kenny Rankin alle chitarre, Paul Griffin al piano, Bobby Gregg alla batteria, Joseph Macho Jr. oppure William E. Lee al basso) che si porge con impeto garagista ma non si vieta gli intarsi. Che enorme sia lo scarto rispetto ai predecessori avrebbe dovuto farlo intendere già una copertina coloratissima, immediatamente iconica, con Bob seduto in un salotto con un gatto grigio in braccio, una confusione di riviste ed LP (Eric Von Schmidt, Lotte Lenya, Robert Johnson, Impressions) intorno e una misteriosa brunetta rossovestita (è la moglie del suo manager) alle spalle. Nel camino si intravvede una copia di “Another Side”e traetene le conseguenze che volete. “Bringing It All Back Home” è sesto negli Stati Uniti e addirittura primo in Gran Bretagna e adesso il nome di Dylan è davvero dappertutto, anche perché sulla scia dei Byrds una moltitudine ha preso a saccheggiare il suo repertorio (in un solo mese nel 1966 si conteranno ottanta cover). Gli estimatori della prima ora si guardano attorno confusi e si domandano se tutto ciò sia un’aberrazione momentanea. Naturalmente no.

In aprile il Nostro si reca in Gran Bretagna ed è la terza volta ma il primo tour vero. Sul palco si offre ancora come il menestrello solitario di un tempo e non ne può più dalla noia, come chiaramente si evince dalle immagini di Don’t Look Back, il documentario di D.A. Pennebaker che vedrà la luce due anni dopo. Al ritorno a casa riversa tutta la sua frustrazione in una canzone della quale dirà che “scriverla fu come nuotare nella lava appeso per le braccia a una betulla”. Feroce in un testo in cui si fa a pezzi una non identificata Miss Lonely, una “principessa sulla guglia”, magmatica nel tumulto di chitarre elettriche e ritmica tenuto assieme dal liquido organo di Al Kooper (che mai prima del giorno in cui venne incisa aveva messo le mani sullo strumento), Like A Rolling Stone è artisticamente e commercialmente un punto di svolta e non ritorno per Bob Dylan. Alla Columbia non sanno se esultare per un potenziale mercantile evidentemente smisurato, nonostante il brano suoni come una rivoluzione per il pop, o disperarsi perché dura sei minuti e quale radio lo trasmetterà mai. Danno un colpo al cerchio e uno alla botte mettendolo subito fuori a 45 giri ma diviso sui due lati. Sottovalutano i dj, che per la maggior parte registrano di seguito su un nastro le due facciate e suonano per intero la canzone, che in men che non si dica schizza al secondo posto in classifica ed è lì che staziona quando il 25 luglio il cantante si ripresenta sul palco del “Newport Folk Festival”. Il luogo che era stato scenario di malintesi omaggi a vecchi neri costretti (con molto poco rispetto a ben vedere) a presentarsi acustici quand’anche erano ormai usi suonare elettrici, la platea che aveva cristallizzato la musica tradizionale americana della prima metà del secolo facendo finta che il mondo avesse smesso nel frattempo di girare, vibrano di nervosismo. L’etnomusicologo Alan Lomax fa della Paul Butterfield Blues Band una presentazione tanto irridente da rasentare l’ingiuria e Albert Grossman, che è manager del gruppo oltre che di Dylan, si incazza belluinamente. Testimoni stupefatti addetti ai lavori, i due distinti signori di mezza età prendono a darsele di santa ragione rotolandosi sul prato. Ma è quando Bob Dylan sale al proscenio accompagnato proprio da alcuni dei musicisti di Butterfield, che eroicamente si prestano a farsi crocifiggere per la seconda volta in un pomeriggio, che la situazione si fa semplicemente folle. Ma davvero quel pubblico di puristi si attendeva, dopo Like A Rolling Stone, che Bob Dylan gli ricantasse Blowing In The Wind e qualche altro bene educato inno protestatario? Fatto è che insorge come un sol uomo e i fischi sono tanto alti da sommergere la peraltro male amplificata band. Mentre dietro le quinte ci si affanna a bloccare il padre padrone del folk Pete Seeger che, letteralmente idrofobo, brandendo un’ascia minaccia di tagliare i fili che portano al palco la stramaledetta elettricità, Dylan alza bandiera bianca dopo tre pezzi appena e se ne va. Ritorna con a tracolla una chitarra acustica presa in prestito e in lacrime canta (scelta quanto mai significativa) It’s All Over Now, Baby Blue. È un addio. Non si farà intimidire mai più. Mai. Più.

Tratto da “Bob Dylan – Highway 60 Revisited”. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.11, autunno 2003. Ristampato in Extraordinaire 1 – Di musiche e vite fuori dal comune.

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