È disponibile da metà settimana “Audio Review” di marzo. Ho contribuito recensendo sei album nuovi e due ristampe. Per la rubrica del vinile ho scritto in lungo degli Who di “Quadrophenia” e più in breve dei Casino Royale di “Dainamaita”.
Archvi dell'anno: 2024
Uno spreco immane, un talento enorme – La vita breve di Notorious B.I.G.
L’omone nato Christopher George Latore Wallace e meglio noto come The Notorious B.I.G. veniva dichiarato morto alle ore una e quindici del 9 marzo 1997. Avrebbe compiuto venticinque anni il successivo 21 maggio.
Ready To Die (Bad Boy, 1994)
Talmente diversi da essere simili: tutti e due nati a New York ma il primo rimasto lì e il secondo trapiantato in California; quello piccolo e smilzo, questo un omaccione di duecento chili; entrambi personaggi di enorme visibilità e successo e i loro successi più grandi li coglieranno dopo una morte violenta che li sorprenderà a sei mesi l’uno dall’altro, il secondo appena e il primo non ancora venticinquenne. Benché fiumi di inchiostro siano stati sparsi e le inchieste, anche televisive, non si contino non sapremo probabilmente mai se l’uno – Christopher Wallace, in arte The Notorious B.I.G. – fu davvero il mandante dell’omicidio dell’altro – Tupac Shakur – e cadde a sua volta vittima di una rappresaglia da parte degli amici di quello che – tragica ironia – era stato per lui un amico. Prima che la faida fra le due Coste facesse parlare le armi piuttosto che i microfoni, prima che la rappresentazione della malavita da parte di chi non aveva mai troncato i legami con le cattive compagnie tornasse a farsi malavita e basta. Resta la rabbia per uno spreco insensato di talento, assai più vistoso nel caso di Notorious B.I.G. L’unico artista ad avere mai avuto da defunto quattro numeri uno. Più del monumentale ma ineguale “Life After Death”, è il debutto “Ready To Die” a consegnarlo agli annali dell’hip hop come uno dei suoi narratori più profondi, dei dicitori più fini.
Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.26, estate 2007.
Life After Death (Bad Boy, 1997)
L’uno minuto e nervoso, l’altro enorme, un Pantagruele di colore, e iroso: li separava una fiera rivalità (al punto che si parlò, probabilmente a vanvera, del secondo come possibile mandante dell’omicidio del primo) e nulla avevano in comune, fino al 9 marzo di quest’anno, se non un grande talento. Condividono ora, Tupac Shakur e Christopher Wallace (questo il vero nome di Notorius B.I.G.), una morte violenta e prematura. Non più solamente sceneggiatura fra pulp e blaxploitation, il gangsta rap ha per la seconda volta in pochi mesi lasciato le pagine musicali per approdare a quelle di cronaca nera.
È terribilmente difficile scrivere di “Life After Death” e, comprenderete, non solo perché è un album “più grande della vita”, come fu colui che l’ha consegnato alle stampe: due CD, ventiquattro titoli in scaletta, centodieci minuti da metabolizzare. Ci si perde in questo profluvio di basi fra p-funk, hardcore e moderno rhythm’n’blues e di rime taglienti, a volte vanagloriose, non di rado amare. Si arriva alla fine con l’impressione che non valga l’esordio “Ready To Die”, uno dei migliori dischi hip hop del ‘94, ma che nondimeno molto vi sia in esso di buono, a partire dai singoli Hypnotize e Sky’s The Limit. Ma è impossibile ascoltarlo senza farsi sopraffare dall’emozione e si finisce dunque per dubitare del proprio stesso giudizio. Un mezzo passo falso o una nuova pietra miliare? Di certo un lavoro inquietante perché fin dal titolo trasmette la sensazione che Notorius B.I.G. sapesse cosa stava per accadere, e fosse rassegnato al suo destino.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.170, maggio 1997.
Archiviato in anniversari, archivi
Alcune cose che ho scritto sugli Sparklehorse, a quattordici anni dalla morte di Mark Linkous
E così adesso Mark Linkous, l’uomo meglio noto come Sparklehorse, ha qualcos’altro in comune con Vic Chesnutt. A parte la collaborazione in “Dark Night Of The Soul”. A parte la malinconia che permea un catalogo decisamente meno cospicuo (quattro album “veri” in tutto). A parte una carrozzella, cui il nostro uomo era costretto per qualche tempo a metà ’90 essendo rimasto svenuto per quattordici ore in una posizione improbabile in una stanza d’albergo londinese, dopo avere mischiato valium con altre schifezze chimiche che pretenderebbero di curare i mali dell’anima. Ma dalla quale, diversamente dal povero Vic, riusciva dopo una serie di operazioni chirurgiche e tanta fisioterapia ad alzarsi. Adesso Vic Chesnutt e Mark Linkous condividono anche di avere posto fine volontariamente a delle vite gloriose e disperate. Il secondo ha giusto scelto un modo più spettacolare, sparandosi in pieno petto. Ci lascia un gruzzoletto di canzoni fragili e ispide come lui, qualcuna splendida a un crocevia sul quale convergevano Neil Young e Tom Waits, Johnny Cash e Skip Spence. Ci lascia un senso di inquietudine per l’incapacità di una generazione, che è poi quella di chi scrive e di non pochi fra i lettori, di diventare adulta – nel bene oltre che nel male – fino in fondo. Il terzo album degli Sparklehorse veniva intitolato nel 2001 “It’s A Wonderful Life”, come un classico di Frank Capra del ’46: quello in cui un angelo di serie B viene spedito sulla terra a guadagnarsi una promozione salvando un uomo dal suicidio. Nessun angelo girava purtroppo dalla parti di Knoxville il pomeriggio dello scorso 6 marzo.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.669, aprile 2010.
Vivadixiesubmarinetransmissionplot (Capitol, 1995)
Dal sottobosco del rock americano, fertile anche in momenti di oggettiva stanca quale è quello che stiamo vivendo, emerge un talento di cui potremmo sentir parlare a lungo. Si chiama Mark Linkous e da alcuni mesi è confinato su una sedia a rotelle a causa di un singolare incidente che non raccontiamo per ragioni di spazio (tanto ne avrete già letto, o ne leggerete in futuro, altrove). Ma se il suo corpo è storpio (tornerà a camminare ma resterà zoppo) lo spirito di Mark è forte e vola alto. L’esordio dei suoi Sparklehorse è un disco di quelli che magari non ti colpiscono di primo acchito ma che finisci poi per riascoltare ossessivamente. Lavoro di maturità stupefacente per un autore giovane quale è il Nostro che, nel mentre richiama alla memoria tanti altri artisti, conserva sempre una sua peculiarità.
Qualche riferimento, allora, tanto per chiarire di cosa parliamo quando parliamo del nostro amore per questo figlio di minatori della Virginia. Pensate a dei Pavement più lineari e ai R.E.M. più suadenti, ai Big Star del terzo LP, a un nuovo Johnny Cash salito alla ribalta dopo il punk. Immaginate Neil Young accompagnato non dai Crazy Horse ma ora dai Pixies, ora dalle Throwing Muses. Scarnificate il tutto e immergetelo in una malinconia quasi morbosa. Heart Of Darkness sembra uscire da “Berlin”, capolavoro di Lou Reed datato 1973. Someday I Will Treat You Good da “Everybody Know This Is Nowhere”, Neil Young, 1968. Sono invece due delle più belle canzoni in cui possiate imbattervi in questo 1996, due delle tante memorabili offerteci da “Vivadixiesubmarinetransmissionplot”.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.164, ottobre 1996.
It’s A Wonderful Life (Capitol, 2001)
Stesso titolo di un classico di Frank Capra del 1946, quello in cui un angelo di seconda categoria viene spedito sulla terra a cercare di guadagnarsi una promozione salvando un uomo dal suicidio, per il nuovo album della creatura di Mark Linkous. Scrivo queste righe basandomi su un’edizione provvisoria priva di note e senza un’anche minima cartella stampa e ignoro dunque se si tratti di una citazione, o se sia al contrario casuale. Quel che è certo è che pare evidente una certa affinità fra quella pellicola, una delle più problematiche e indubbiamente delle meno ottimistiche del grande regista americano, e l’amarognola visione della vita espressa dal nostro uomo in precedenza in piccoli capolavori chiamati “Vivadixiesubmarinetransmissionplot” e “Good Morning Spider”. Dischi che lo hanno collocato nella serie A e nelle zone alte di classifica di quel nuovo cantautorato a stelle e strisce che ha fra i suoi massimi alfieri Will Oldham e Bill Callahan.
Rispetto a quelli “It’s A Wonderful Life” paga il venir meno della gradita sorpresa indotta dalla scoperta prima e dalla conferma poi di un talento fuori dal comune. Linkous non cambia registro e la sua scrittura, devota a Neil Young come a Johnny Cash e a Tom Waits, fluisce in un alveo di quieta classicità facendo slalom, per la maggior parte del tempo e almeno per ora, fra le sabbie mobili degli stereotipi. Due scarti avvincenti: una Dog Door che trasloca Captain Beefheart nell’era del downtempo; il cigolante congedo Babies On The Sun. Vette di un lavoro che vanta ancora un discreto gruzzolo di canzoni coi fiocchi: l’incantato carillon che lo inaugura e intitola, l’incontro fra Dinosaur Jr. e Byrds di Piano Fire, il romanticismo in punta di dita di Apple Bed. Sarebbero pure belle, e parecchio Experiences, Little Fat Baby e Comfort Me, non fosse la devozione che esibiscono per il Neil Young di “After The Gold Rush” invero troppo marcata.
Ecco: a suscitare perplessità è che Linkous sembri accontentarsi di essere fra i prosecutori di una tradizione, quando inizialmente era parso intenzionato piuttosto a rinnovarla.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.447, giugno 2001.
Archiviato in anniversari, archivi
Un incontro di boxe nell’arena dell’amore – Il primo singolo di James Brown
“Please, Please, Please è in sostanza una specie di film che potrebbe ambientarsi nel santuario di ogni cuore spezzato.”
“È la peggiore cagata che io abbia mai ascoltato.” (Syd Nathan, a proposito di Please, Please, Please)
Se il suo autore e interprete non fosse stato tanto ostinato, invece che lanciarne la carriera Please, Please, Please altro non sarebbe rimasta che una noterella a pie’ di pagina nel libro (cui peraltro così di pagine ne sarebbero mancate diverse) della black music a cavallo fra anni ’50 e ’60. Una simpatica testimonianza d’epoca non più significativa di innumerevoli altre. Diverrà invece pian piano il culmine delle esibizioni live, in letture che come niente ne moltiplicheranno per dieci la durata – 2’43” la versione in studio. Per un verso dando modo ai musicisti di formazioni sempre più compatte di mostrare di cosa fossero capaci, per un altro permettendo al cantante di inscenare la più famosa delle sue pantomime.
“Si può leggere come la storia di un uomo che implora la sua donna di riprenderlo con sé perché lui la ama troppo. Cade in ginocchio e implora pietà. Non ricevendone, si rialza lentamente, volta le spalle al mondo intero e si allontana singhiozzante nell’oscurità. Compare un amico che viene a confortarlo e gli copre le spalle con un mantello per proteggerlo, riscaldarlo, consolarlo. Ma proprio quando sembra che le speranze siano perdute per sempre l’uomo si sbarazza del mantello, guarda di nuovo in faccia il pubblico e la vita, guadagna il centro del palco e ancora una volta torna dal suo grande amore per supplicarla. Quell’uomo ero io e il mio Maestro di Cerimonie Danny Ray l’amico che mi sosteneva. E ogni volta che mi levavo il mantello il pubblico si scatenava. Quel rituale divenne un dramma teatrale che era in parte espiazione religiosa, in parte crisi romantica, in parte incontro finale di boxe nell’arena dell’amore.”
Se vi è venuto in mente il wrestling, avete pensato bene: per la sceneggiata di cui sopra oltre che al solito Little Richard (che di suo aveva preso spunto dalla predicazione gospel più sfrenata) il nostro eroe si ispirava a un professionista di quel non-sport, la più sgargiante delle stelle dell’epoca, Gorgeous George. Se vi stupisce che un pezzo in origine molto passatista – dice Brown (Geoff) che persino Brown (James) inizialmente aveva dubbi sul suo valore – sia divenuto uno dei momenti chiave degli spettacoli di un rivoluzionario della musica, per intuire perché non dovete che dare un’occhiata ai titoli di coda di Blues Brothers 2000. O recuperare un DVD del “T.A.M.I. Show”. O se no fidarvi di chi c’era e lavorare di immaginazione, visto che figura sì in quasi tutti gli innumerevoli album live di un uomo la cui leggenda è fondata in gran parte proprio sulle performance dal vivo, ma in versioni sfortunatamente appena più lunghe (o talvolta persino più brevi) di quella in studio. Un delitto. In ogni caso: non subito, ma nell’arco di quattro anni, quelli durante i quali James Brown pubblicò un singolo via l’altro replicando un’unica volta il successo del primo, il pezzo veniva promosso da esecuzione obbligata, per concedere alla platea una di quelle sole due o tre canzoni che non si potevano non suonare, a sensazionale maratona che quella hit trascendeva. Trascendendo così pure la valutazione spietatamente negativa che Syd Nathan ne aveva dato. Con più di qualche buona ragione.
Venuto al mondo da una famiglia ebrea a Cincinnati nel 1904, Nathan in gioventù era stato batterista, ma non sufficientemente bravo da potere fare di quella passione un lavoro. Dopo essere stato agente immobiliare, impiegato in non ben specificate mansioni in un luna park, commesso in un banco di pegni e in una gioielleria, dopo avere messo su a metà anni ’30 un negozio di radio e fonografi in società con una sorella e il cognato, raggiungeva un fratello in Florida per dare vita con lui a un laboratorio fotografico. All’inizio del decennio seguente tornava però a Cincinnati e apriva il Syd’s Record Shop, entrando così dalla porta di servizio nel mondo della discografia. Passo seguente, nel 1943, era inaugurare la King Records. Scampata a un fallimento in culla grazie al soccorso economico parentale, e seguendo una traiettoria che la Stax replicherà, un’etichetta nata con l’idea di puntare il mercato country si allargava allora a quello dei cosiddetti race records. Insoddisfatto della qualità di stampa dei primi dischi, ordinati a una fabbrica del Kentucky, il nostro uomo già nel 1944 ne apriva una sua e cominciava a pressarli in proprio, con una velocizzazione dei tempi e un’ottimizzazione dei costi che naturalmente avranno un peso nel successo crescente dell’impresa. Più di tutto contava però l’eccezionale intuito da talent scout. Impressionante un’anche parziale lista dei nomi che scopriva o cui dava una seconda o terza possibilità: Wynonie Harris, Roy Brown, Lonnie Johnson, John Lee Hooker, Freddie King, Champion Jack Dupree, Little Esther Phillips, i Dominoes, Big Maybelle, i Five Kings, i Five Royales, Hank Ballard e Little Willie John in un ambito di musica nera, mentre per quanto riguarda un mercato hillbilly tutt’altro che abbandonato si possono segnalare almeno i Delmore e gli Stanley Brothers, Moon Mullican e Grandpa Jones. Imprenditore astuto, Syd Nathan prendeva inoltre a far registrare brani di repertorio country agli artisti neri e di blues e rhyhtm’n’blues ai bianchi, pure in questo straordinariamente in anticipo sui tempi. Per quanto vada sottolineato che non di preveggente visione utopica si trattava, bensì di un mero e riuscito calcolo commerciale volto a massimizzare gli introiti per le sue società di edizioni musicali. E che gli vuoi dire a uno così?
Sul momento restava a bocca aperta e non riusciva a dirgli nulla Ralph Bass, quando, dopo essersi tanto impegnato per fare firmare i Famous Flames per la Federal, una succursale della casa madre, si vedeva liquidato tanto brutalmente un brano in cui riponeva cieca fiducia. Avendolo fra l’altro sottoposto a un test che nella storia della popular music risulterà da lì in poi infallibile: l’ascolto proposto a un tot di ragazze, tutte invariabilmente e subito sedotte. Recuperato l’uso della parola, supplicava il boss di fare uscire il singolo almeno ad Atlanta, giusto per testare le acque. Al che, ineffabile Nathan ribatteva che no, lo avrebbe distribuito su base nazionale soltanto per il gusto di dimostrare a Bass quanto avesse torto. Mal gliene verrà. Cioè bene.
Sul retro Why Do You Do Me, graziosa quanto innocua (e volta ancora di più al passato in un anno che vedrà Elvis Presley collezionare i primi cinque di undici numeri uno consecutivi e due artisti di Nathan, Little Willie John e Bill Doggett, capeggiare la graduatoria R&B), Please, Please, Please vede la luce il 3 marzo 1956 e parrebbe, per la percezione che ne hanno gli artefici, che non se ne accorga nessuno. In Georgia, per le radio che ne avevano trasmesso l’acetato è roba vecchia e alle altre pare interessare poco. Delusi, e oltretutto furiosi perché il disco è uscito a nome James Brown & The Famous Flames riducendoli a gregari quando pensavano che sarebbe stato attribuito al gruppo, i ragazzi della band abbandonano in massa. Lo stesso leader va (torna?) a lavorare in una fabbrica di materiali plastici. Ma è questione di settimane. Le vendite prendono a levitare, cominciando da Atlanta, poi in Virginia, poi nella Bay Area. Il 21 aprile 1956 il singolo fa per la prima volta capolino nella classifica R&B di “Billboard”. La scalerà fino al numero 6 e complessivamente resterà nei Top 20 per diciannove settimane. Sarà ancora lì in luglio e a quell’altezza i Flames, naturalmente subito rimessisi insieme, avranno già registrato tracce bastanti a confezionare altri sei 45 giri, lati A e B. Nessuno dei quali avrà il benché minimo impatto. Ugualmente, raccoglieranno solo indifferenza tre ulteriori singoli. Nella primavera del 1957, a meno di un anno da quando Please, Please, Please li aveva apparentemente proiettati verso la fama, i Famous Flames non esistevano più se non come sigla. James Brown spendeva l’estate esibendosi in Florida in date di nessun prestigio, con poco pubblico. Quando il 18 settembre 1958 entrava in uno studio newyorkese per incidere, con un abbozzo di nuovo gruppo (Johnny Terry unico superstite della formazione precedente) e alcuni turnisti (fra i quali un chitarrista che già aveva cominciato a fare la storia del jazz: Kenny Burrell), ancora quattro facciate basteranno i titoli a dar conto del suo stato d’animo: Tell Me What I Did Wrong (dimmi cosa ho sbagliato); There Must Be a Reason (deve esserci una ragione); I’ve Got To Change (devo cambiare). Ma soprattutto: Try Me. Provami. E vedrai che non ti deluderò più.
Tratto da James Brown – Nero e fiero!, Vololibero, 2017. A seconda della fonte cui si dà credito, James Brown pubblicava il suo primo singolo il 3 o il 4 marzo di sessantotto anni fa.
Archiviato in anniversari, archivi
New York a Londra – Una notte perfetta con Lou Reed
È passato a momenti un quarto di secolo da “Rock’n’Roll Animal” e il gruzzoletto di LP dal vivo di Lou Reed ha assunto una consistenza quasi deadiana, con oscillazioni dal francamente superfluo (“Live In Italy”) all’oltraggiosamente indispensabile (“Take No Prisoners”: di rado titolo fu tanto programmatico). “Perfect Night Live In London” non ricade né in una categoria né nell’altra. Niente affatto inutile, esibisce come massima provocazione un arrangiamento molto scarno (senza gli archi che la fecero kitsch e meravigliosa) di Perfect Day nel momento in cui, a venticinque anni dall’uscita, diventava inopinatamente una hit.
È un Lou Reed inedito quello che emerge da “Perfect Night” e converrete che per un artista in circolazione dalla metà degli anni ’60 l’impresa è di per sé non da poco: raffinato e tendente all’acustico senza che ciò lo renda, vivaddio, un altro Eric Clapton. Ascoltate come Vicious, spogliata dall’elettricità glam dell’originale, suoni un bel po’ più perversa e minacciosa. È la punta di un album che spazia su tutta la carriera solistica del Nostro, regala tre inediti di buona grana e ha il merito di ricordarci che Coney Island Baby è la sua migliore ballata di sempre.
Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.6, luglio/agosto 1998. Lewis Allan Reed compirebbe oggi ottantadue anni non fosse che…
Archiviato in anniversari, archivi
Eminem – Piaccia o non piaccia, un classico
Il personaggio è di una rara antipatia e fa specie che la pelle bianca ne faccia spesso, se non perdonare, giustificare gli eccessi verbali, con commentatori di norma bianchi anch’essi sempre pronti a sottilizzare su dove finisca l’uomo Marshall Mathers e dove inizi l’artista Eminem. Su quanto sia creazione letteraria e interpretazione attoriale – umoristica! – e quanto genuina omofobia e una misoginia tale da fare sembrare femminista un talebano. I vari Ice Cube, Ice-T, Scarface, Snoop Doggy Dogg non se la sono mai cavata così a buon mercato. Ciò premesso, bisogna dare a Eminem quel che è di Eminem e riconoscergli un’abilità fuori dal comune nello sgranare rime e nel delineare ambienti e storie. Bisogna prendere nota del rispetto con cui lo guardano i protagonisti neri dell’hip hop. Da non dimenticare: una scoperta di Dr. Dre, supervisore di questo secondo album, epocale checché se ne pensi.
Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.26, estate 2007. A oggi sono trascorsi venticinque anni dall’arrivo nei negozi di “The Slim Shady LP”.
Archiviato in anniversari, archivi
About A Boy – Il testamento di Kurt Cobain
Al produttore dello show che, richiesto di addobbare il palco con gigli, candele nere e un candeliere di cristallo, gli domandava perplesso “come se fosse un funerale?”, Kurt Cobain rispondeva con quattro parole soltanto: “Esattamente. Come un funerale”. Il che fa pensare che già sei mesi prima di porre fine alla sua vita tormentata il leader dei Nirvana avesse preso una decisione in tal senso. E come non ricordare che, in una session fotografica per un giornale francese durante il tour dell’appena uscito “In Utero”, mimò il suicidio con un’arma giocattolo? Successe poco prima o dopo lo spettacolo che MTV registrava il 18 novembre 1993, mandava in onda per la prima volta in dicembre e replicava un numero infinito di volte dopo quel tragico 8 aprile ’94 in cui un elettricista con un appuntamento per installare un sistema di allarme nella villa del musicista lo trovava cadavere. Mixato in 5.1 surround, con due brani espunti in origine dalla trasmissione televisiva e aggiunte alcune interviste e cinque canzoni tratte dal soundcheck, “MTV Unplugged In New York” vedrà la luce in DVD solo nel 2007. A trasformarlo in un album la Geffen ci aveva messo molto meno: lo pubblicava in CD e vinile (singolo, nonostante una durata sopra i venticinque minuti a facciata) il 1° novembre 1994. E chissà come fece a non venire in mente a nessuno quanto sarebbe sembrata di cattivo gusto un’uscita alla vigilia del giorno dei morti. Una settimana prima o dopo, no? Tant’è. Se Cobain voleva che quello che è rimasto il più inconvenzionale degli “Unplugged” risultasse testamentario (e non poteva non immaginare che sarebbe stata la prima delle pubblicazioni postume), ebbene, in nessun modo il suo congedo dal mondo sarebbe potuto risultare più pregnante. Se intendeva accrescere a dismisura il rimpianto per ciò che sarebbe potuto essere e non è stato – una sua carriera da solista in veste di cantautore folk-rock, un’evoluzione dei Nirvana un po’ alla R.E.M.; più in là non è possibile andare – gli è riuscito anche meglio. E significherà qualcosa se, ancora più che immaginarselo vivo e con ormai quasi il doppio degli anni che aveva quando ci lasciò, risulta arduo pensare che invecchiando avrebbe perso – come un Bill Corgan qualunque – il tocco magico. Più facile proiettarsi ancora più avanti nel tempo, ipotizzare che sarebbe stato invece un altro Neil Young. Un cavallo pazzo sempre e comunque, anche a settant’anni, fuori dagli schemi nel bene e nel male. Se, se, se…
Quel che è certo è che quando venne loro proposto a nessuno dei Nirvana, non soltanto al leader, piaceva l’idea di aggiungere il proprio nome al già lungo elenco di solisti e gruppi che, dal novembre 1989, si erano prestati a suonare in acustico nello show ideato dai produttori Robert Small e Jim Burns: il più popolare dei (oggi si direbbe) format della televisione al tempo in grado di decidere, trasmettendo o no un video e a seconda di quanti passaggi gli concedeva, il decollo di un disco o una carriera. Assai più della stampa e delle radio, commerciali o dei college che fossero. Piccolo dettaglio: molto più interessata MTV a fare comparire nel programma la band che con “Nevermind”, aveva cambiato per sempre l’approccio dell’industria discografica maggiore a quello che veniva chiamato underground, e da allora viene etichettato “alternative”, che viceversa. “Avevamo visto altre puntate e per la maggior parte non ci erano piaciute, perché quasi tutti quelli coinvolti si presentavano come se si trattasse di un normale concerto rock, però al Madison Square Garden, però in acustico”, ricorda il batterista Dave Grohl. E allora quando, dopo lunga trattativa, si decideva di accettare l’invito conditio sine qua non era che tutto si sarebbe dovuto fare secondo i desiderata di Cobain. Non del tutto convinto, a torto, che il fragoroso repertorio del gruppo potesse rendere ad amplificatori spenti (uno per sé in realtà lo terrà acceso, pur rinunciando alla chitarra elettrica). E determinato a non proporre, come quasi tutti quelli passati da quelle parti, la solita banale scaletta a base di successi, pezzi già ben noti al pubblico semplicemente riproposti in una veste più spoglia. Per quanto sia MTV che la Geffen potessero esserne scontente. Alla casa discografica in realtà andrà di lusso, perché si troverà così fra le mani un album pieno di brani altrimenti inediti (tutte le cover: ben sei) e con un resto di programma peculiare perché non soltanto in acustico ma con una scelta di canzoni fra le meno frequentate del repertorio, sole hit presenti Come As You Are e All Apologies. Di fatto, il quarto capitolo di una vicenda esauritasi troppo rapidamente e senza lasciare grandi margini a speculazioni postume, visto che i cassetti già erano stati svuotati con “Incesticide”. Con l’ulteriore punto a favore di rispolverare, e proprio in apertura, quell’unica canzone dell’esordio “Bleach”, About A Girl, in cui i Nirvana già erano i NIRVANA. Non a caso sarà il singolo.
A venticinque anni dall’uscita originale DGC e Universal hanno riportato nei negozi “MTV Unplugged In New York” in una speciale edizione in vinile con un enorme pregio e un brutto difetto. Partiamo dal primo: già il semplice fatto che i 53’50” che nel ’94 vennero compressi in due facciate si trovino ora distribuiti su tre fa suonare meglio il tutto, ma bisogna toccare con orecchio, alzando il volume il giusto, per rendersi conto quanto, e senza nemmeno bisogno di un remastering. La collocazione sul palco dei musicisti è di precisione impressionante e ogni minima sfumatura – dai saliscendi emotivi della voce al discreto armeggiare del violoncello, dallo scivolare delle dita sulle corde di a volte anche tre chitarre contemporaneamente al gioco di fino di una batteria capace di esserci senza mai esserci troppo – si coglie meravigliosamente. Il difetto? È che ci sia una quarta facciata, con le stesse bonus del DVD di cui sopra, prove sgangherate e costantemente sull’orlo di una crisi di nervi. Da ascoltare una volta, con imbarazzo, e mai più. Quando tutto il resto è a suo modo perfetto pure quando la piccola imprecisione scappa. “Anche io andrò dove spira il vento freddo”, canta Cobain nella conclusiva Where Did You Sleep Last Night, da Leadbelly, e un groppo sale in gola. Scatta l’applauso. Proprio come a un funerale.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.415, dicembre 2019. Non avesse scelto di smettere di intrattenerci, Kurt Cobain compirebbe oggi cinquantasette anni.
Archiviato in anniversari, archivi
Audio Review n.461
È in edicola da alcuni giorni “Audio Review” di febbraio, numero che vede la mia riapparizione sulle sue pagine dopo una pausa per problematiche personali ben più lunga (tre mesi, quando pensavo che ne avrei saltato uno o al massimo due) di quanto non avessi preventivato. Il mio contributo a questo giro è appena un terzo di quello dato per tantissimi anni, ai prossimi tornerà un po’ a salire, ma i tempi delle quindici/sedici recensioni sono finiti. Per mia esclusiva scelta.
Archiviato in riviste
Rock The Country – Il primo Joe Ely
Altamente improbabile che vi sia qualche lettore, per quanto disinteressato al country e con una presenza minima di cantautori USA negli scaffali, per cui Joe Ely è uno sconosciuto. Almeno il nome, se non altro perché rientra fra quelli recensiti di default su queste pagine, lo avrà orecchiato. Ma è assolutamente impossibile che non lo abbia mai ascoltato cantare. Avete presente Should I Stay Or Should I Go? La più rollingstoniana delle canzoni dei Clash era il terzo singolo tratto nell’82 da “Combat Rock”, a seguire l’exploit di Rock The Casbah, che non eguagliava ma comunque avvicinava. Sarà uno spot per una marca di jeans a trasformarla, di lì a dieci anni, nel più grande successo di sempre di una band a quel punto da lungi sciolta e a renderla inamovibile nel novero di quei cento-duecento pezzi fissi nelle rotazioni di un certo tipo di radio. Nel catalogo Clash Should I Stay Or Should I Go è un’anomalia, uno dei pochissimi brani in cui è Mick Jones la voce solista, con Joe Strummer a fare i cori. Non da solo. Con Joe Ely, che così arrivava a dividere uno studio con un gruppo per il quale aveva aperto innumerevoli date nel Regno Unito come oltre Atlantico, società di mutua ammirazione che aveva toccato un duplice apice nel 1980 con l’uscita di “Live Shots”, immortalato a Londra proprio in una serata di spalla a Strummer e soci, e nell’omaggio tributatogli da costoro in If Music Could Talk, quinta traccia della terza facciata del triplo “Sandinista!”: “There ain’t no better blend than Joe Ely and his Texas Men”. Se non vi fidate del sottoscritto…
Earle R. Ely nasce ad Amarillo il 9 febbraio 1947 e si trasferisce dodicenne in quella Lubbock che ancora oggi chiama casa. È una performance di Jerry Lee Lewis a fargli decidere cosa farà da grande anche se, non potendosi permettere un piano, imbraccia un violino prima, poi una chitarra. Fra lui e il sogno si frappone, quando ha quattordici anni, la tragica realtà della prematura scomparsa del padre e di un conseguente crollo nervoso della madre che fa sì che lui e un fratello debbano soggiornare per diversi mesi presso dei parenti. Abbandonati prematuramente gli studi contribuisce al bilancio domestico con il più umile dei lavori, lavapiatti. Lasciato quando il primo complesso semiprofessionale, tali Twilights dei quali non ci è giunto che il nome, comincia a rimediare abbastanza ingaggi da garantirgli introiti più dignitosi. Lasciati a loro volta, i Twilights, per una vita da vagabondo beat che lo porta in California, poi a New York, quindi (al seguito di una compagnia teatrale) in Europa. Torna a Lubbock nel 1971 e fa comunella – inizio di un felicissimo ménage à trois giunto ai giorni nostri – con Butch Hancock e Jimmie Dale Gilmore. Dei tre Joe è l’anima rock’n’roll, Butch quella folk, Jimmie Dale un’enciclopedia deambulante della country music. Si battezzano Flatlanders e rimediano un contratto con un’etichetta, la Plantation, che ha vissuto giorni di gloria ma è ormai in disarmo. Che è la ragione per la quale l’album che registrano nel 1972 – “All American Music” il programmatico titolo – non vedrà la luce che nel ’73. Luce? Quale luce? Esce solo in stereo 8 (!) e insomma fino al 1980, quando lo riediterà a 33 giri la britannica Charly smentendo quanti lo ritenevano una leggenda, non lo ascolterà nessuno. L’anno dopo ancora il nostro uomo si gioca la carta della carriera solista. Passando di mano in mano un demo arriverà nel 1976 fra quelle di un componente della band di Jerry Jeff Walker, che lo girerà al principale, che lo girerà a un dirigente della sua casa discografica, la MCA.
Stentavo a crederci, giacché è di un autore e interprete stratosferico universalmente annoverato fra i precursori del cosiddetto alt-country che stiamo parlando, ma le ristampe rimasterizzate pubblicate lo scorso 17 febbraio dallo stesso marchio che le portò nei negozi illo tempore di “Joe Ely” (1977), “Honky Tonk Masquerade” (1978) e “Down On The Drag” (1979) sono, per l’esordio e il suo seguito, le prime in vinile dal 1980 e, per quanto attiene il terzo LP, addirittura la prima in analogico. Se per un verso si potrebbe paradossalmente dirle inutili, giacché le copie d’epoca si trovano ancora con facilità e a un prezzo che è una frazione di quello scandaloso (attorno ai cinquanta euro!) richiesto per queste, e suonano già piuttosto bene, per un altro quantomeno offrono il destro, nell’attesa che pure il summenzionato “Live Shots”, “Musta Gotta Notta Lotta” (1981) e “Hi-Res” (1984) subiscano in ogni senso analogo trattamento, per spendere qualche riga per un debutto brillante, un classico totale e un buon lavoro di transizione. Decida chi ne è sprovvisto se farsi rapinare o rivolgersi al mercato dell’usato. Tutti e tre gli album hanno dieci canzoni in scaletta e in tutti e tre il titolare ne firma la metà, pescando parecchio per il resto nel repertorio di Butch Hancock (ben undici brani) e offrendo inoltre sue versioni di due pezzi di Jimmie Dale Gilmore (a trenta si arriva con un’esuberante resa di Honky Tonkin’ di Hank Williams e una bluesata di B.B.Q. & Foam di Ed Vizard). In tutti e tre danno man forte al titolare, oltre a una folla di turnisti, Lloyd Manes alla steel guitar, Jesse Taylor alle chitarre sia acustiche che elettriche, Gregg Wright al basso e Steve Keaton alla batteria, con Ponty Bone che si aggiunge a piano e fisarmonica a partire dal secondo. Gruppo tosto ed eclettico, ruspante e raffinato. Apici… Di “Joe Ely”: la travolgente I Had My Hopes Up High, il cajun Mardi Gras Waltz, il western swing All My Love. Ma, soprattutto, la meravigliosa ballata da border She Never Spoke Spanish To Me. Di “Honky Tonk Masquerade” (incluso nel 2005 nel delizioso 1001 Albums You Must Hear Before You Die): l’honky tonk Cornbread Moon, l’accorata con brio Boxcars, la squisitamente sentimentale title track, una I’ll Be Your Fool che sarebbe stata perfetta per Elvis, il rock’n’roll Fingernails. Di “Down On The Drag”: la dolente Fools Fall In Love, lo swamp-rock Crawdad Train, il valzer She Leaves You Were You Are. Tempo di scoprire Joe Ely, se per voi finora era solo un nome.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.453, maggio 2023. Il cantautore americano preferito dei Clash compie oggi settantasette anni.
Archiviato in anniversari, archivi