Son soddisfazioni. Piccole, per carità, ma quando uno passa una vita a guadagnarsela, la vita, scrivendo di musica sapersi accontentare diventa una via di mezzo fra un’arte e uno sport estremo. Rileggo il mazzetto di recensioni di Sharon Van Etten disseminate in vari luoghi nell’ultimo quadriennio e, a parte che mi trovo tuttora d’accordo con me stesso (ma ci mancherebbe, visto che si sta parlando di una carriera ancora così giovane), noto di non avere per una volta sbagliato pronostici. Quando già all’altezza di “Epic”, nel 2010, scommettevo che una capace di scrivere una Love More da qualche parte fra Nico e Jeff Buckley e una One Day da “Joni Mitchell in un giorno di gioventù dorata, con il sole splendente sopra il Laurel Canyon” non sarebbe stata una meteora. Poi, va da sé, tutto merito di questa Jersey girl, capace nel non proprio esaltante panorama odierno di svelarsi come quella rarità ahinoi semiassoluta: un’artista che cresce uscita dopo uscita, tenendo dritta la barra ma variando ogni volta di un tot la rotta. Ma soprattutto: nel suo declinare con accenti indie rock la più classica canzone d’autore una fornita di una voce sempre, e in ogni senso, riconoscibile. Se vi pare poco…
Maturazione costante, dicevo, cui si accompagna un’inarrestabile ascesa anche in popolarità per quanto a oggi i numeri restino in assoluto modesti. In pochi ascoltavano nel 2009 “Because I Was In Love”, debutto intimista e scarno, per la più parte di sola voce e chitarra con ogni tanto una coloritura d’organo. Complici la distribuzione da parte di un marchio importante dell’indie rock quale Drag City, una buona recensione sul solito “Pitchfork” e tanti concerti il nome cominciava però a girare e un anno dopo il raccolto e conciso (poco più di mezz’ora) “Epic” attirava parecchie attenzioni. Tanto di più dopo che in diversi – Bon Iver, Dave Alvin, i National – prendevano a reinterpretare dal vivo la settima e ultima delle tracce in esso contenute, Love More. Operina apparentemente di transizione, nel senso che – divisa fra episodi in solitario e altri a piena banda – poteva fare presagire una svolta elettrica, veniva seguita due ulteriori anni dopo da “Tramp” e non era il disco schiettamente rock che ci si attendeva. Più un riassunto delle puntate precedenti, con però una qualità della scrittura notevolmente incrementata. Abbastanza da suscitare grandi aspettative per “Are We There”. Che se non è il capolavoro che taluni si attendevano dalla ragazza ci va soddisfacentemente vicino e facendosi oltretutto forte di una canzone – Our Love: pulsante e languida, irresistibile un po’ alla maniera della Regina Spektor di Fidelity, della Cate LeBon di Are You With Me Now? – che potrebbe catapultare la sua interprete nella serie A del cantautorato USA. Le dieci che le fanno corona giocano con stile e sentimento fra folk-rock, country (Afraid Of Nothing) e blues (Everytime), fra un accenno di valzer (la squisita Tarifa), un organo liturgico (Taking Chances, Your Love Is Killing Me), uno sbuffo di fiati, un ostinato di archi. È il suo disco musicalmente più ricco, ma a parte Our Love i due episodi che più appassionatamente si avvinghiano alla memoria sono la strascicata I Love You But I’m Lost – voce raddoppiata, piano e batteria – e una I Know che sanguina male d’amore su solitari tasti bianchi e neri. Sharon c’è e batte un colpo: al cuore.
“una I Know che sanguina male d’amore su solitari tasti bianchi e neri” è una descrizione che solo il migliore può partorire. Il Venerato, ladies and gentlemen.