Anni cinquantanove portati più che discretamente, faccia paciosa e simpatica (nelle foto con baffetti marcata la somiglianza con Richard Pryor), pancetta esibita, Lloyd James non si fa problemi ad ammetterlo e anzi, confessandolo, scoppia in una risata: pur avendone firmato la produzione (e chi sa di reggae è conscio dell’importanza che ha il produttore in quella musica: spesso più rilevante del cantante stesso), col cavolo che si ricordava di tutte ma proprio tutte le – udite, udite – centocinquantanove canzoni che sfilano nei quattro doppi volumi di “King Jammy’s Selector’s Choice” freschi di stampa per i tipi della VP. Sovente ha dovuto rinfrescargli la memoria Johnny Wonder, vale a dire colui che, con Joel Chin, si è assunto il titanico compito di selezionare, rimasterizzare, porre in sequenza tutto questo bendiddio scegliendolo fra una messe immane di materiali, svariate centinaia di LP, forse migliaia di singoli. E questo, si badi bene, saltando a pie’ pari il periodo – la seconda metà dei ’70 – in cui Jammy era Prince e non ancora King e trafficava con il dub piuttosto che con la dancehall. Stavo per usare l’espressione “rimettere ordine” ma mi sono reso conto che, se adoperata come di solito la si usa per similari operazioni in ambito rock, sarebbe stata decisamente fuori luogo. Visti con gli occhi dello studioso di musica popolare questi otto CD (poco sotto le nove ore e mezza la durata complessiva) sono, se non un’occasione sprecata, perlomeno una possibilità che l’etichetta si è giocata male. Si sarebbe tanto per cominciare potuto radunarli in un box e l’appiglio commerciale ne sarebbe stato (Zorn insegna) incrementato esponenzialmente. Buona cosa sarebbe poi stata affiancare loro il consueto librettone, zeppo di foto e con quel paio di approfonditi saggi storico-critici a corredo. Sistemare il tutto nell’esatta sequenza cronologica. Oppure accostando l’un l’altra le varie interpretazioni degli innumerevoli nomi ricorrenti, un impressionante “who’s who” della battuta in levare degli anni ’80 e primi ’90: da Wayne Smith a Tenor Saw, da Half Pint a Shabba Ranks, da Dennis Brown a Cocoa Tea passando per Johnny Osbourne, Frankie Paul, Pinchers, Gregory Isaacs, Tiger, Sister Charmaine, Chaka Demus, Ninjaman, Sanchez… oltre a vecchi leoni e marpioni come Horace Andy e John Holt e per non citare che alcuni fra i più celebri. Anche se, intendiamoci, per gli standard giamaicani la precisione comunque esibita è più unica che rara, con le canzoni radunate a blocchi di riddim (ovverossia sono state messe in fila quelle che usano la medesima base), i crediti puntigliosamente elencati per ogni brano e qualche ulteriore notizia aggiunta. Però mancano una visione e un’interpretazione d’assieme. Però, scendendo più terra terra, non si trova a pagarla una data che sia una. Però ’sti cazzi.
Visti con gli occhi del semplice appassionato di musica popolare, ascoltati con i fianchi e le gambe almeno quanto con gli orecchi, questi otto CD sono una festa pazzesca in cui non ci si stanca mai di immergersi, roba che ti mette addosso un’allegria tale che ti sorprendi a cantare facendo le vocine più assurde come il cretino che sei, roba che ti scopri sudato senza magari avere alzato il culo dalla poltrona. È giusto quando ormai sei stremato, e pure i woofer reclamano pietà, che magari rientri per qualche attimo nei panni del posato critico e inizi a porre in relazione le informazioni sparse, che sono tante, a ricostruire vicende, a fare ragionamenti. Ce n’è eccome per lo studioso. Chi desiderasse tracciare una storia sociale della Giamaica dell’ultimo quarto di secolo non dovrebbe che tirare giù i testi di questo centinaio e mezzo di canzoni e fra un peana sessuale e un’istantanea di povertà dal ghetto, una serenata e un’invettiva politica ne avrebbe da analizzare, ne avrebbe. Fra l’altro scoprendo subito che la dottrina rasta non è affatto maggioritaria nell’isola, che gli argomenti cosiddetti “culturali” sono finiti in retroguardia. Ove il musicologo potrebbe sottilmente disquisire sullo stile più… ecologico che si ricordi, la dancehall, un ambito dove non si butta mai via nulla, dove con un’idea buona si confezionano a volte cinquanta brani, dove sono una pratica comune gli album costruiti per intero su un solo riddim. Fra l’altro scoprendo che la svolta elettronica sanzionata per il reggae nell’85 dal clamoroso successo di Under Mi Sleng Teng, canzone trovata praticamente per caso da Wayne Smith pasticciando con un pattern di batteria e una linea di basso pre-registrati in una tastierina Casio da quattro soldi, non ha assolutamente cancellato quanto c’era stato prima. Tant’è che non è raro – il contrario! – che il riciclaggio coinvolga basi che risalgono nel tempo fino all’epoca dello ska e addirittura più in giù, fino a mento e calypso.
Ma ne ho abbastanza di fare il critico. Dura mantenere l’aplomb mentre Dominic (volume 3) si lamenta di quanti gli dicono che somiglia a Boy George, negando con sdegno l’evidenza. Durissima quando (volume 4) Shabba Ranks applica la metafora biblica della cruna dell’ago non ai ricchi che non entreranno nel regno dei cieli, bensì alle ragazze che non ti faranno – ahem – entrare. Impossibile quando (traccia successiva) Admiral Bailey prende a rantolare, su una scansione irresistibilmente saltellante, “give me punaany, want punaaany… any punanny is the same”. Sapendo che la “punanny” è quella cosina che da sempre fa girare il mondo.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.632, marzo 2007.