
Sul davanti di copertina del settimo album del collettivo di Montreal ─ quarto episodio della seconda parte di una saga principiata nel 1997 per interrompersi nel 2002 e riprendere dopo un decennale silenzio; solo che costoro ripartivano rielaborando materiali di dieci anni prima e allora questo si potrebbe contare come terzo ─ campeggia un’illustrazione floreale del concetto di yin e yang. Sul retro, tre bombolette di gas lacrimogeno. Acquistarlo in CD è l’opzione più comoda oltre che economica giacché, composto come i tre lavori precedenti da due suite intorno ai venti minuti con a completare due brani sui sei, per ascoltarlo in vinile nella sequenza corretta non dovrete soltanto cambiare tre volte facciata ma alternare il 12” al 10”. Come dire che questi anarco-punk che suonano, potendoselo permettere giacché musicisti formidabili, un inafferrabile miscuglio di progressive (a volte pochi gradi di separazione distanziano l’Imperatore Nero dal Re Cremisi) e post-rock, coprendo nel farlo molto se non tutto di quanto sta in mezzo, da certo folk “apocalittico” ai Pink Floyd e al math-rock, via Morricone, non ti rendono mai la vita facile.
A scrivere per esteso gli astrusi e chilometrici titoli delle due tracce più lunghe, la prima e la terza, si finirebbe lo spazio. Basti dire che una dopo un attacco letteralmente innodico riparte sommessa per svilupparsi con un crescendo deflagrantemente wagneriano e l’altra, rarefatta e sequestrata dagli archi, ha invece passo lento. Laddove Fire At Static Valley si muove in territori dark-folk fra il solenne e il mesto e Our Side Has To Win (For D.H.) evoca altri evidenti numi tutelari, i Popol Vuh al servizio di Herzog. Sono i “soliti” GYBE: come al solito unici.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.431, maggio 2021.