Archivi del mese: giugno 2024

Sax Maniac! – Il contorto James Chance (20/4/1953-18/6/2024)

A trentadue anni dall’esordio assoluto nella storica e isterica raccolta di autori vari “No New York”, a trentuno dalla formidabile accoppiata di 33 giri che consegnò alla Ze, a ventisette dacché diede alle stampe l’ultima collezione di inediti in studio, James Chance ha finalmente pubblicato un album nuovo. Anzi, no.

“Se c’è una singola canzone che mi ha ispirato a fondare i Contortions è Superbad, per via degli assoli di sassofono che la caratterizzano. Non riuscivo a credere alle mie orecchie la prima volta che la ascoltai! Voglio dire… James Brown è sempre stato uno cazzuto, ma quando cominciò a buttare dentro i suoi brani assoli di sassofono in stile free jazz mi sconvolse. Non avrei mai immaginato che gli piacessero cose del genere, perché per la maggior parte di quelli del giro del rhythm’n’blues erano roba aliena”: così James Siegfried – alias James Chance, alias James White, alias James Black – riferiva a “The Wire” nel 1996 su quale fosse stata la scintilla (non che nessuno avesse mai avuto dubbi al riguardo) scatenante quell’incendio punk-funk-jazz al quale la sua ghenga fornì la benzina. Aveva appena pubblicato un discreto live, “Molotov Cocktail Lounge”, per i tipi della Enemy (stessa casa discografica dei Defunkt dell’amico Joe Bowie) e soprattutto aveva appena visto tornare in circolazione, dopo lunga latitanza, i suoi due storici primi LP, “Buy The Contortions” e “Off White”, ristampati con un discretamente ricco corredo di bonus da un’etichetta hip quale la Infinite Zero di Henry Rollins e Rick Rubin. Si faceva un gran parlare di no wave, giustamente individuata come uno stile antesignano della composita galassia (e soprattutto dell’attitudine) post-rock. E della no wave – frutto fondamentalmente dell’incontro in due quartieri newyorkesi, l’East Village e Soho, di quattro categorie di artisti ciascuna a suo modo iconoclasta: performer multimediali, jazzisti discepoli di Coleman e Ayler, funkster in polemica con la deriva commerciale della black, punk che del punk rifiutavano la discendenza dal rock’n’roll e dal garage – i Contortions erano stati le uniche vere stelle. Si sarebbe potuto pensare, nel 1996, che il Sigfrido avesse finalmente messo la testa a posto e si trovasse sul limitare di una seconda giovinezza. Non è andata esattamente così, anche se rispetto ai suoi anni più bui l’ultimo decennio – ma più che altro nella sua prima metà, con un apice segnato nel 2005 dalla partecipazione all’“All Tomorrow’s Parties Music Festival” – lo ha decisamente rimesso sotto i riflettori. Però soprattutto indirettamente, per via dell’influenza che la no wave seguita a esercitare sebbene in maniera meno interessante rispetto a quei tardi ’90 nei quali la sua attualità era data dall’avere immaginato un futuro in cui i confini di rock, funky, free jazz, noise, etnica e avanguardia sarebbero sfumati uno nell’altro e il rock avrebbe smarrito la sua centralità, a favore di musiche ibride dagli elementi costitutivi in perenne ricombinazione. Laddove oggi, dai Liars più a-melodici in giù, è più un riprenderne moderatamente la lettera tradendone così due volte lo spirito. E poi se del Sax Maniac si è scritto con discreta frequenza in questi anni 2000 è stato per via della continua rimessa in circolo (per la Munster, su  Roir, per la rediviva Ze) di un catalogo invece assolutamente negletto prima di quelle prime riedizioni Infinite Zero.

Insomma: non nasconderò che ritrovarmi fra le mani “The Fix Is In”, griffato James Chance and Terminal City e fresco di pubblicazione per la francese Le Son du Maquis, ha suscitato in me timore più che eccitazione, dopo che un’occhiata alla scaletta chiariva che sì, era roba nuova, mai sentita. Si sarebbe rivelato almeno dignitoso? Che sollievo – che gioia persino – scoprirsene assolutamente soddisfatto al termine del primo ascolto e sempre di più durante i successivi. Beninteso: tutto un altro sound – più Henry Mancini che Lounge Lizards nell’iniziale Down And Dirty e poi swingante, notturno, cinematografico, con qualche incursione in un festoso jumping che avrebbe fatto invidia a un Louis Jordan – rispetto a quello d’antan. Come del resto chiarito/annunciato da note a corredo nelle quali l’artefice afferma orgogliosamente di avere per la prima volta lavorato sugli schemi tradizionali delle dodici e trentadue battute, deplorando poi che in pochi dimostrino oggi la minima raffinatezza armonica e/o melodica. Da che pulpito! Che razza di delusione allora, almeno sul subito, scoprire casualmente (e come in nessun modo si può evincere da una confezione peggio che ambigua al riguardo) che il “nuovo” disco è in realtà la ristampa di un CD uscito solo in Giappone nel 2005 e contenente registrazioni del ’99-2000. Il “nuovo” James Chance ha minimo dieci anni e non nego di essermi sentito preso in giro. Ma poi l’ho rimesso su, ne sono rimasto incantato da capo, ho riflettuto su quale delitto sarebbe stato lasciare questi 68’05” di fatto inediti e l’arrabbiatura mi è passata. Salvo tornarmi un po’ alla visione del DVD, Almost Black, allegato a “The Fix Is In”: venticinque minuti scarsi con una qualità tecnica talmente indecente per i mezzi odierni (il documentario in questione è datato 2005) da fare pensare che si sia trattato di una discutibilissima scelta “artistica”. Però… dai… consigliato, avrete inteso.

Anche se naturalmente sono i primi, leggendari due gli album da puntare per i pochi – giusto la giovane età può essere una valida scusante – che ancora non dovessero esserne forniti. Per certo ne resteranno colpiti, ma probabilmente meno sconvolti (curioso come lo scorrere del tempo renda accettabili dapprima, quindi merce corrente, spartiti che al loro apparire avevano offeso i più) degli acquirenti d’epoca. Ci siamo imbattuti in cose ben più estreme dopo, ma questa manciata di canzoni al tempo fu rivoluzionaria, funk tutto spigoli che faceva male alle orecchie e lasciava le gambe incerte riguardo al che fare. In ogni caso: risulta ancora freschissima, “concepita per uccidere”, come ammonisce il primo titolo in scaletta. “Buy The Contortions” è un vortice di chitarre elettriche distorte e sax ululanti, pattern ritmici funkissimi, esilarante energia punk, sperimentazione free. Brano-manifesto: Contort Yourself. Unico momento di requie pressoché a fondo corsa: Twice Removed, già allora manciniana e un simile classicismo in tale contesto spiazzava davvero. “Off White”, uscito praticamente in contemporanea ma a nome James White & The Blacks, sciorinava musica meno spiritata, elegante persino, e comunque con un senso del groove micidiale (esemplare la versione sistemata a incipit, e assai diversa da quella citata dianzi, dell’inno Contort Yourself). Un paio di capolavori o poco meno: una Stained Sheets punteggiata da una voce orgasmica; una Tropical Heatwave che anticipa i Tom Tom Club ma prefigurandoli schizoidi. Una sorpresa alla fine: Bleached Black è di fatto un blues.

Indiscutibile che il James Siegfried essenziale stia tutto lì, a scavare lo sparuto resto della produzione storica gemme se ne rinvengono ancora. Più che nei numerosi live, esplosivi ma dalle incisioni purtroppo mediamente deficitarie, in “Sax Maniac” (1982, secondo lavoro attribuito a James White & The Blacks) e in “James White’s Flaming Demonics” (1983): in questo un eccellente medley di Duke Ellington, niente di meno; in quello una Disco Jaded striata di tango e di jazz e una Sax Machine che suona come dei Kid Creole & The Coconuts fumati di crack. Fatevene ossessionare.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.671, giugno 2010. Ristampato in Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015.

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New wave 1977-1980: le basi

Più che uno specifico stile musicale era (per dirla con Simon Reynolds) “uno spazio aperto a un gran numero di possibilità”. Ho provato a raccontarne l’epopea attraverso dieci album più fondamentali di altri che pure restano fondamentali, oggi più che mai. Qui.

https://hvsr.net/post/2024/new-wave-for-dummies-copia

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Personalità, stile, impatto, canzoni favolose – Il primo Franz Ferdinand

Nessuna data è prevista per il 2024 per i Franz Ferdinand, il cui più recente concerto risale allo scorso 2 settembre quando si esibivano a Empoli a suggello di un tour promozionale per la raccolta “Hits To The Head”, pubblicata nel marzo ’22. L’ultima collezione di inediti? “Always Ascending”, quinto lavoro in studio per gli Scozzesi e nettamente il meno riuscito e il meno venduto. Vedeva la luce nel febbraio 2018 e la latitanza comincia a essere lunghetta anche per una band che aveva fatto attendere il disco prima quattro anni e mezzo e il predecessore di quello idem. Da allora è cambiato il batterista, Paul Thompson il secondo dei fondatori a dimettersi dopo che nel 2016 a prendere la porta era stato il chitarrista ritmico, tastierista e occasionale voce solista Nick McCarthy. Defezione ben più grave, siccome costui aveva fino a quel punto co-firmato la quasi totalità del repertorio, e c’è chi dice che da tal dì i Franz Ferdinand sono un gruppo che fa cover dei Franz Ferdinand. Sia come sia, a parte che a googlarli rischi che prima di loro esca il personaggio storico da cui presero il nome, e ai tempi d’oro non accadeva, sotto “le persone hanno chiesto anche:” salta subito fuori un inquietante ma giustificato “Is Franz Ferdinand still making music?”. Boh… Sul sito ufficiale, non aggiornato da dicembre, la prima notizia è l’annuncio di una ristampa solo in vinile dell’omonimo primo album. La scusa per l’ennesima riedizione di un titolo già rimesso in circolazione sul supporto fonografico per antonomasia nel 2009, ’14, ’20 e ’21? Che in prima stampa raggiungeva i negozi il 9 febbraio 2004, due decenni esatti al giorno prima di questa. OK. Il Vostro affezionato ha impiegato un attimino a metabolizzare quanto appena constatato e scritto. E tu, amico lettore? Tu quoque sobbalzasti? Prendiamo la faccenda per il verso giusto. È un’ottima scusa per riascoltare uno dei migliori esordi, o dischi tout court, in ambito rock di questo secolo. Un classico, a patto di non pretendere da esso una qualità che del rock non è da parecchio addentro nello scorso di secolo, ossia un’originalità che non sia relativa, e contentarsi godendo di personalità, stile, impatto e canzoni favolose.

Dei ragazzi che nel 2002 danno vita a Glasgow ai Franz Ferdinand i più non sono ragazzi. Il cantante e chitarrista solista Alex Kapranos si sta inoltrando nei trenta, Nick McCarthy li scorge all’orizzonte, Paul Thompson va per i ventisei. Il bocia della compagnia è il bassista Bob Hardy, che di anni ne ha ventidue. A regalargli il primo strumento è stato Mick Cooke dei Belle And Sebastian, a insegnargliene i rudimenti Kapranos, uno a suo agio oltre che con chitarra e ogni tipo di tastiera con banjolele (un incrocio fra banjo e ukulele) e (onorando i natali greci del padre) il bouzouki. In precedenza (ma facendosi chiamare con il cognome della madre inglese, Huntley) ha capeggiato tali Karelia, artefici di un curioso mix di jazz elettrico, progressive e techno e titolari di un lavoro prodotto da Bid dei Monochrome Set passato del tutto inosservato. Personaggio curioso il nostro uomo: ha frequentato corsi di teologia salvo laurearsi in lettere, è stato chef, barman, autista, saldatore, ha organizzato concerti e serate in discoteca. Oltre che con il complesso summenzionato ha suonato noise con gli Urusei Yatsura e art-punk influenzato dai Fall negli Yummy Fur, piccole celebrità locali dall’organico sempiternamente cangiante dalle cui fila è passato pure Thompson ed è stato così che i due si sono conosciuti. Chi manca? McCarthy, che ha studiato piano classico e contrabbasso jazz ma si adatta a fare il chitarrista. Manca anche un nome. A Franz Ferdinand, erede al trono di Austria-Ungheria il cui assassinio a Sarajevo nel 1914 era stato la scintilla che appiccava l’incendio della Prima Guerra Mondiale, si arriva per tramite di un cavallo, Archduke Ferdinand, che nel 2001 vince il Northumberland Plate, e perché piacciono: 1) l’allitterazione; 2) l’idea che la neonata band possa pure essa, ma in positivo, accendere un bel falò. Da lungi, mica da oggi, scappano sbadiglioni all’affacciarsi al proscenio dell’ennesimo gruppo ingruppabile nel revival post-punk. Ci si è scordati quanto risultasse paradossalmente fresca, all’alba del XXI secolo, l’ondata di band dagli Strokes in giù che si facevano ispirare dalla new wave. Casualmente quanto fortunatamente sintonizzati sullo zeitgeist i nostri eroi non impiegavano che mesi a rimediare un contratto con la londinese Domino, talmente convinta del loro potenziale da investire subito un discreto gruzzolo spedendoli, nel giugno 2003, a registrare il primo album a Malmö con un produttore dal cv chilometrico (fra i tanti Cardigans, New Order, Saint Etienne e Suede) quale Tore Johansson. Un primo assaggio del disco, Darts Of Pleasure, giungeva nei negozi in settembre ed entusiasmava John Peel così tanto da fargliene proclamare gli autori “saviours of rock’n’roll”. Vendeva ciò nonostante modestamente e a lanciare i Franz Ferdinand in orbita in gennaio era Take Me Out, riff micidiale, cambi di passo, una melodia vocale scippata a Howlin’ Wolf, la capacità di lanciare ponti fra generi distantissimi quali blues e disco. E sì, c’è sempre stato un elemento dance nella musica di Alex Kapranos e soci. Numero 3 nella classifica UK e doppio platino, mentre i singoli successivi, la scanzonata quanto energica The Dark Of The Matinée e una Michael da Bowie periodo Ziggy andavano al 7 e al 15.

L’ultima riedizione di “Franz Ferdinand” non è stata rimasterizzata, né (perché aggiustare qualcosa che non è rotto?) lo erano state le precedenti. Non è un’incisione per un audiofili e nondimeno risulta ideale per esaltare un sound estremamente dinamico e ficcante, dalla deflagrazione di basso discendente e batteria pestona in mezzo a una Jacqueline che parte voce e chitarra acustica a una Come On Home dal romantico allo stentoreo, passando per il funk 100% Talking Heads di Tell Her Tonight e This Fire e una Cheating On You sintesi mozzafiato di Wire e Merseybeat. Però capace pure di porgersi delicatissimo, come nella conclusiva 40. Non invecchiato di un giorno invece che di 7.305. Fosse fresco di stampa e non di ristampa avremmo già il migliore album rock del 2024.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.463, aprile 2024.

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Dainamitardi – Quando i Casino Royale cambiarono sport

Ma che davvero? “E di sorpresa abbiamo già trent’anni!”, constatavano stupiti i Casino Royale in Cielo, la formidabile traccia che, aperta dallo scrocchiare di un 78 giri datato 1939 (Pino Liggeri, Passeggiando per Milano), suggellava giocando fra rap e blaxploitation questo disco formidabile in toto ed epocale per loro come per un certo modo ─ allora inaudito ─ di fare musica nel Bel Paese. E di sorpresa “Dainamaita” ha già trent’anni ed è tempo di celebrazioni, fra concerti con sul palco una formazione mista di veterani e nuove leve e una riedizione con artwork ritoccato e che al 33 giri originale unisce un secondo 12” con quattro versioni per facciata rispettivamente della supersoul e contemporaneamente in levare Re senza trono e della più schiettamente reggae Treno per Babilon. Trent’anni e non sentirli, per quanto suona ancora eccezionalmente fresco l’album con il quale il gruppo meneghino inscenava una duplice rivoluzione, passando dall’inglese all’italiano e da uno ska revival (la seconda ondata, dopo quella dei tardi ’70 di Specials e Selecter) del quale facilmente avrebbe potuto consolidare la leadership mondiale sancita nell’89 dall’uscita della raccolta britannica “Ten Golden Guns” a un sound ibrido e dinamitardo come da titolo. Tracce di passato giusto nel vaudeville di Pardo dietro lo specchio e per il resto, dopo l’omaggio a Renato Carosone di Skaravan Petrol, scratching a palla e riffoni hard, slarghi dub, raga bollywoodiani e una ruggente, iperfunk Purple Haze che rimane una delle migliori riletture hendrixiane di sempre e di chiunque.

Di lì a due anni con “Sempre più vicini” i Casino Royale ammorbidiranno qualche spigolo virando downtempo e addirittura si supereranno. Il loro capolavoro, se bisogna indicarne solo uno, è quello. Però era con “Dainamaita” che iniziavano a giocare a un nuovo sport.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.462, marzo 2024.

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