Quando i discorsi si rincorrono e si intrecciano e a tal riguardo si legga o si rilegga, prima di questo, il post messo su appena ieri sull’album d’esordio degli Alabama Shakes e i relativi commenti… Che nel suo porsi fuori dal tempo questo londinese di origini ugandesi sia totalmente, insuperabilmente in sintonia con il nostro di tempo e che a ragione di ciò, e al di là della qualità di quanto propone, sia destinato alla più vasta fama è già una constatazione e non un pronostico: a meno di un mese dall’uscita, “Home Again” è nel momento in cui scrivo quarto in classifica nel Regno Unito e in prepotente ascesa in mezzo continente europeo e per cominciare in Canada, nell’attesa che pure gli Stati Uniti prendano nota. Ci sarebbe stato da meravigliarsi del contrario, visto che il più astuto dei discografici non sarebbe riuscito a inventarsi (e difatti i discografici del fenomeno stanno solo approfittando) un classe 1988 che, come dal nulla, si affaccia alla ribalta di quella scena folk superpremiata da critica e pubblico che ha generato Mumford And Sons e Laura Marling, si inserisce stilisticamente a meraviglia pure in quella voglia di soul vintage quasi inevitabile nel post-Amy Winehouse e come primo tour importante fa da spalla ad Adele, niente di meno. Forte come costei di una voce tanto eccezionale da influenzare ogni giudizio sul repertorio. Quanti milioni di copie totalizzerà questo disco anche soltanto da qui a fine 2012? Pure meritandoselo, eh? Io però con “Home Again” ho un problemino che con “Boys & Girls” non ho.
Perché, vedete, un conto è puntare a inserirsi in un determinato contesto, che nel caso degli Alabama Shakes è quello del Southern rock, e altro è ricalcare i propri modelli al punto di evocarne questo o quel cavallo di battaglia. Qui accade un tot di volte e da subito, con una Tell Me A Tale che appena parte ti aspetti Moondance, sebbene magari fatta da Terry Callier (in tutta evidenza un dio per Kiwanuka, che ci metterà forse un paio di settimane ancora a superare le vendite di una carriera quasi cinquantennale) invece che da Van Morrison. Parte Rest e passo e melodia sono quelli di Happy Xmas di John Lennon almeno nella misura in cui Always Waiting è una (sapiente, lo ammetto) variazione sul tema di Bridge Over Troubled Water di Simon & Garfunkel. La title-track non è quintessenza di Otis Redding dalle parti di Dock Of The Bay? I Won’t Lie non è James Taylor sputato? E quanto a Any Day Will Be Fine è da stamani che mi gira nella testa una sua sequenza di sei note di archi che è assolutamente identica a qualcosa di strafamoso ma – maledizione! – non riesco a identificare a cosa e ne sto uscendo matto. Trovo assai gradevole nel complesso “Home Again”, ma sul suo artefice per ora e fintanto che questo debutto non avrà un seguito preferisco sospendere il verdetto.
Per una volta, Maestro, te lo concediamo, ma non prendere il vizio di sospendere il giudizio, altrimenti noi cretini che compriamo i Cd a 18 euro nei negozi indipendenti come facciamo?
Be’, il giudizio è sospeso sull’artista, non su un’opera certamente piacevole ancorché in certi momenti troppo studiata, troppo appiattita sui modelli di riferimento.
Il guaio è che è tutto troppo al punto giusto, non scappa nemmeno un dettaglio. D’accordissimo, gradevole ma eccessivamente studiato.
Un saluto al mio guru Cilìa 😉
Vero? Non fosse che quanto si conosce della biografia di questo artista va in direzione opposta verrebbe proprio da pensare a un qualcosa di costruito in laboratorio, di totalmente artefatto. Poi va da sé che uno che punti scientemente a vendite milionarie si sceglierebbe modelli un po’ meno esoterici di Terry Callier. Ecco, almeno nella cernita degli archetipi cui rifarsi Kiwanuka ha un gran gusto.
Maestro, poi sei mica riuscito a capire la sequenza di sei note d’archi da dove veniva? 🙂
No. 😦