Alle prese proprio in questi giorni con un lungo articolo sui Little Feat (andrà su sei pagine o più) commissionatomi da “Blow Up”, colgo l’occasione per ripescarne uno assai più breve, la puntata numero 53 di una rubrica dedicata al vinile di cui sono co-titolare, su “Audio Review”, da buoni dieci anni. Il pezzo cui sto lavorando più che sui Little Feat verte in realtà sull’uomo che nei loro anni artisticamente aurei ne fu il leader assoluto: uno sfortunato genio di nome Lowell George.
Circolano tre versioni o per meglio dire leggende riguardo alla genesi dei Little Feat. Secondo la prima, tutto cominciò quando Frank Zappa cacciò Lowell George dalle Mothers Of Invention per lesa maestà e insomma perché colpevole di esagerare con gli assoli. Mi sembra antipatica e improbabile, però non quanto la seconda, a sentire la quale l’uomo di Cucamonga gradì la musica ma non il testo, con riferimenti a marijuana e cocaina, di un brano sottopostogli dal comprimario. Ascoltò Willin’ e mise alla porta George. Ma vi pare un comportamento plausibile da parte di uno che contro la censura si batté sempre e fino all’ultimo? Mi piace invece pensare che sì, Zappa indicò la porta al buon Lowell George dopo avere ascoltato quella ballata mossa e struggente, ma che mai licenziamento fu deciso con un fine altrettanto nobile, dettato da generosità piuttosto che da grettezza d’animo. Sei sprecato per fare il gregario, amico mio. Vai e fai la tua cosa. E il nostro eroe andò e fece. Confesserò di non avere mai nutrito soverchia simpatia per il Zappa personaggio, né un particolare amore per l’artista, e tuttavia se davvero andò così non lo ringrazierò mai abbastanza per avere ispirato la nascita di una band che ho adorato, che adoro. Chiamato a compilare un elenco delle mie cinquanta canzoni preferite di ogni tempo Willin’ la includerei sicuramente. Anche fossero trenta, o venti. Dieci? Possibile. Sia come sia: il chitarrista andava, convocava il bassista Roy Estrada, che era stato pure lui una Madre, e il tastierista Bill Payne, che invano aveva provato a esserlo, e completava il primo organico con il batterista Richard Hayward. A battezzare involontariamente la neonata formazione era un altro batterista e proprio quello delle Mothers, Jimmy Carl Black, con un’osservazione casuale riguardo a come i piedi singolarmente piccoli di Lowell George fossero sproporzionati rispetto alla figura massiccia. Il plurale di “piede”, “foot”, in inglese è irregolare, “feet”. Che, in omaggio ai Beatles, vedeva la seconda “e” trasformarsi in “a”.
Il Lowell George che nel 1969 si lancia nell’avventura che da lì al ’79 lo farà morire e immortale ha ventiquattro anni e già un curriculum lungo tanto. Ancora bambino, si è prodotto in un popolare programma televisivo in un duetto all’armonica con il fratello Hampton. Adolescente, ha imparato a suonare flauto, sassofono e oboe e si è ritrovato turnista in diverse incisioni di un cantante italo-americano, tal Frank Sinatra. Ancora, prima di approdare alla corte di quell’altro Frank là è stato comandante in capo di un complesso di folk-rock gradualmente corretto all’acido lisergico, i Factory, che la Uni Records ha messo sotto contratto senza però poi pubblicare un gruzzoletto di registrazioni. A lungo tesoro dei collezionisti di bootleg, non vedranno la luce ufficialmente che nel 1990. È stato anche in una delle incarnazioni tarde dei garagisti Standells e ne avrete a questo punto colto il rimarchevole eclettismo. Alla chitarra è un asso come d’altro canto lo sono, con i rispettivi strumenti, i compagni che si è scelto per la nuova impresa. Provetti ai limiti del virtuosismo, i Little Feat nella loro età artisticamente aurea guadagneranno regolarmente di più suonando per altri invece che insieme, il che mi è sempre parso alquanto triste. Un’offesa al dio della musica le undicimila miserrime copie vendute nel ’71 dal debutto a 33 giri, omonimo, dei Nostri, da considerarsi minore solamente con il senno dei tre capolavori venuti poi. Comunque un po’ storia a sé, con il suo blues rustico che lo situa da qualche parte fra il primo Taj Mahal (in comune i due album hanno la presenza del giovane Ry Cooder) e il primo Captain Beefheart (mi correggo: in comune i tre album hanno la presenza eccetera). In un certo qual senso si può affermare che i Little Feat “veri” nascano con il successivo di un anno “Sailin’ Shoes”, più orecchiabile ma soprattutto fantasticamente variegato, caleidoscopio in cui si rifrangono – imprendibili – ballate e rock’n’roll, pop e folk e country e, certo, ancora del blues, ma contemporaneamente più tondo e affilato se è permesso l’ossimoro. Vendite? Meglio, ma ancora sconfortanti e tanto di più considerando come gli spettacoli dal vivo dei quattro godano già di una gran fama. Estrada se ne va e che si unisca a Beefheart è surreale. Lo sostituisce Kenny Gradney, ma ciò che più conta è che il gruppo si allarghi a sestetto con gli arrivi del chitarrista (e anche ottimo e prolifico compositore) Paul Barrere e del percussionista Sam Clayton. “Dixie Chicken” è, nel 1973, il primo frutto della nuova stagione e il momento più negro e alto della parabola Little Feat per tutti quanti non pensano che l’apice sia il seguente “Feats Don’t Fail Me Now”.
Chi ha cominciato a comprare dischi nei tardi ’70 – e dunque necessariamente vinili – non può esserselo dimenticato: se la musica ti piaceva ascoltarla bene, con il rock USA era meglio mettere da parte le fisime da collezionisti, essendo le stampe americane mediamente scadenti e talvolta spaventose. Infinitamente meglio, quando disponibili, i corrispettivi europei ed è a ragione di ciò che le mie copie degli album dei Little Feat sono quasi tutte tedesche. Non “Dixie Chicken” che, chissà come mai, è inglese e che ricordavo ben suonante. Lo è. Nondimeno il confronto con l’edizione per audiofili della Speakers Corner appena inoltratami da Sound And Music mi ha lasciato sbalordito per lo stacco qualitativo. Fin dai primi secondi – dal trillare del piano e dal jazzeggiare del basso – della traccia omonima e inaugurale è come se una tenda fosse stata tolta da davanti alle casse. È tutto incredibilmente più netto, dettagliato, caldo, dinamico, avvolgente. Miracolosamente mi sono ritrovato a gustare questo prodigio di California traslocata a New Orleans, fra funk rilassato e torpidamente sexy ed esultante gospel laico, come fosse la prima volta. Sono emozioni.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 288, marzo 2008.
parliamo di musica va, che con la querelle contabile ci si rovina il fegato. Willin è anche per me una delle canzoni della vita e inoltre penso di essre l’unico italiano che abbia mai messo piede a tonopah!
ad maiora
Esatto!
Secondo me, invece, il migliore è il primo album: ogni volta che lo ascolto sento addosso la sabbia portata dal vento del deserto. Sarà che l’ho comprato in California.
Ah VMO, non essere troppo benevolo con Zappa, perché se è vero che ha permesso a Lowell George di fare la sua cosa, purtroppo ha anche messo in circolazione un mostro come Steve Vai.
In che senso mostro, Orgio? Intendi dire che purtroppo Zappa ha dato il suo contributo al tristissimo fenomeno commercial-riccardonico del virtuosismo chitarristico Vai-Satrianesco, che ci scassa la minchia da una trentina d’anni? O eri ironico?
No, ero serio: Steve Vai, come la musica, ha rotto il cazzo.
Sta roba del Riccardone continua a sembrarmi più risibile di Steve Vai stesso: stando alla definizione di Nonciclopedia, lo sarebbe chiunque ascolti rock dal 1977 in qua suonata con know-how tecnico non solo per apprezzare, far rilevare e apprendere detto know-how, bensì per sproloquiare su come si stava meglio quando si stava peggio. Col che sarebbe riccardone praticamente chiunque abbia più di 20 anni e compri ancora dischi, che principalmente sono usciti in passato, apprezzandoli e suggerendone l’ascolto ad altri potenziali appassionati, e dunque tutti i frequentatori di questo blog; vedi tu ha senso…
Resta un dato irrefutabile: Vai & co. avrebbero fatto meglio a restare con Zappa o, al più, a seguire una carriera di concertisti classici; così hanno fatto solo danni.
Volevo scherzare, naturalmente. D’altra parte anche io ho avuto la mia fase “riccardona”, verso i 20 anni. Sia detto con il massimo rispetto verso il professionismo indubbio dei già citati musicisti.
E’ solo un modo, grossolano certamente, di dividere l’universo. Tra diverse concezioni di estetica.
…si, loro e i Dead sono i migliori rappresentanti musicali d’amerika.
Willin’ e’ ben piu’ che la canzone della vita…e inoltre penso di essere l’unico italiano che abbia mai messo piede a Tehachapi…. 🙂
essendo il mio primo commento dovrei fare le doverose premesse: ti seguo dal Mucchio ecc. ecc., piacere averti ritrovato su questo blog ecc. ecc.; avrei continuato a leggerti qua e là con piacere senza intervenire perchè mi sento quasi sempre poco preparato a commentare ma questo post e l’amore per i Feat mi obbliga a dichiararmi e quindi complimenti per tutto il tuo lavoro; anch’io terrei Willin’ anche fra le dieci (e forse ci metterei anche What do you want the girl to do dal disco solista di Lowell George).
ciao
Enrico
Ho la fortuna di andare negli States quasi una volta l’anno e di poterli girare a mio piacimento. Solo che sono trent’anni che, per ragioni varie, non riesco a fare questo benedetto viaggio Tucson-Tucumcari-Tehachapi-Tonopah!
“And if you give me: weed, whites, and wine”…
Che abbia suonato su dischi di Sinatra non è provato.