Happy birthday, Neil. And may you stay forever Young.

Oggi Neil Young spegne la sua sessantottesima candelina. Nel suo piccolo, VMO lo celebra ripubblicando le recensioni dei suoi tre album migliori dello scorso decennio.

Neil Young - Prairie Wind

Prairie Wind (Reprise, 2005)

Sopravvissuto a uno dei dischi più noiosi mai incisi da chiunque (abbiamo avuto semmai noi dei problemi ad arrivare alla fine di “Greendale” senza compiere gesti inconsulti), alla morte dell’amato padre e a un aneurisma che avrebbe potuto facilmente far schiattare lui, Neil Young festeggia i sessant’anni con l’album che solo il fan più ottimista poteva ormai attendersi. Perché – diciamocelo – il Canadese veniva da un tondo decennio in cui non ne ha azzeccata una, non disastroso come quegli ’80 in cui ci propinò dall’elettronica al rockabilly al country nashvilliano (riuscendo nella notevole impresa di farsi citare dalla sua casa discografica con l’accusa di… non essere se stesso) ma insomma: fra colonne sonore, live pletorici, errebì d’accatto e robine fatte con il pilota automatico, da dopo quel “Mirror Ball” congiurato con i Pearl Jam che suggellava un settennato viceversa impeccabile si stenta a tirar fuori brani bastanti ad allestirci un decente mini. Pur non abbagliante come “Freedom”, che usciva a dieci orridi anni dal classico “Rust Never Sleeps”, “Prairie Wind” cancella i dieci da “Mirror Ball” e fa sperare nell’ennesima rinascita.

Da sempre Young offre il meglio di sé in due forme, raramente mischiate in dischi che quando non sono mattane ricadono di norma in questa categoria o in quella: la cavalcata elettrica alla Down By The River, la ballata bucolica (o finto bucolica) alla Harvest. “Prairie Wind” è della seconda genìa, presentato addirittura come terzo pannello di un trittico i cui primi due furono “Harvest” (1972) e “Harvest Moon” (1992) e chissà perché sembra dimenticarsi di “Comes A Time” (1978), un po’ mieloso ma con il senno di poi sottovalutato, e di “Silver & Gold” (2000), la sua sola prova quasi salvabile dacché sapete voi. Comunque sia: è meglio di tutti gli antenati eccetto il primo, anche se sul subito non lo diresti. All’impatto colpisce favorevolmente soprattutto un suono fra i più consolidati ed eleganti (senza mai essere stucchevole) in materia di country-rock, ma ti pare che le canzoni siano comunque di altra e inferiore lega  rispetto al passato, perlomeno a quello più remoto e glorioso. È il prolungarsi della frequentazione, è il sorprendersi a canticchiarle queste canzoni a far cambiare idea. Si finisce per persuadersi che in future antologie diverse potrebbero trovare spazio, la soffusa No Wonder su tutte e poi una Far From Home dal retrogusto soul, una It’s A Dream sognante come da titolo, l’omaggio a Elvis di He Was The King, il gospel pianistico When God Made Me. Che fa una buona metà di programma ove l’altra è in ogni caso come minimo godibile e non è proprio male per uno in pista da un quarantennio.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.21, primavera 2006.

Neil Young - Living With War

Living With War (Reprise, 2006)

Nella recensione di quest’album pubblicata sul “Mucchio” John Vignola rievocava quando un tre lustri fa, in una celebre intervista, Neil Young si mise a tessere le lodi dell’America e di Topolino e, allo spiazzato giornalista che cercava di buttarla in scherzo, chiese ruvido: “Pensa che voterei sempre e comunque democratico?”. Non ho presente la risposta che diede l’intervistatore. So che al suo posto gli avrei detto che ero sicuro che no. Ben rammentando, per quanti sforzi abbia fatto per dimenticarmelo, che a un certo punto dei suoi demenziali anni ’80, fra una cagata di disco e l’altro, il Canadese si lanciò in uno sperticato elogio di Ronald Reagan. D’accordo che George Bush Jr. è riuscito a farlo rimpiangere quell’attore di mezza tacca, ma oltre che dimenticare mi è sempre riuscito difficile perdonare. Sono meglio disposto al riguardo da quando “Living With War” si è impossessato del mio stereo. Molto più del tempo necessario a poterne scrivere con cognizione di causa. Molto più di quanto non meriti un LP che è sì bello ma non un capolavoro e, dovendo scegliere i cinque o i dieci capisaldi di una discografia imponente, non ce la farebbe mai. È insomma una roba tipo “il quattordicesimo miglior album di Neil Young” e dunque perché mi eccito tanto? Forse perché dopo quell’apice di pretenziosità e noia di “Greendale”, che oltretutto veniva dopo un tot di dischi al più carini e spesso bruttarelli (l’ultimo buono sul serio “Mirrorball”, che ha dodici anni), avevo dato di nuovo per perduto e stavolta per sempre il nostro eroe e sono lieto di essere stato smentito. “Living With War” ha tallonato dappresso il pregevole “Prairie Wind” dando continuità a quella che ha l’aria di essere l’ennesima rinascita. Forse perché mi pare che viva di tali e tante tensioni ideali, di tale e tanta indignazione morale da potere sfuggire al destino di molta canzone “di protesta” che vive del “qui e ora”, che è quello di invecchiare male. Credo che, così come il tempo è stato gentile con quella Ohio che il Canadese buttò giù in pochi minuti nel 1970, sarà gentile con questo disco, scritto e registrato di getto, in una settimana, e subito reso disponibile sul Web.

Raccolta di canzoni ruggenti sospinte da chitarre elettriche stentoree, ritmi tambureggianti, cori possenti. Variegata sotto l’impressione di uniformità che dà di primo acchito. Colma di raffinatezze che non tutti coglieranno, perché se è lampante la discendenza di Flags Of Freedom dalla dylaniana Chimes Of Freedom lo è molto meno la contiguità di Families con lo Springsteen di Brothers Under The Bridges. È un tocco da maestro che Let’s Impeach The President ricalchi melodicamente The City Of New Orleans: a rimarcare che, più che Katrina, a distruggerla è stata una politica rapace prona di fronte al Capitale.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.24, inverno 2007.

Neil Young - Chrome Dreams II

Chrome Dreams II (Reprise, 2007)

Per favore, clonatelo. Perché per quanto, visto in Italia a giugno, il Canadese sia apparso anche fisicamente in forma smagliante un simile miracolo non potrà durare ancora molto, giacché gli anni a novembre saranno sessantatré. E il buon vecchio Neil già nel 2005 rischiò di lasciarci, fottuto da un aneurisma. Che tragedia sarebbe stata anche artisticamente, l’estenuante “Greendale” sciagurato congedo e prima di quello mezza dozzina di titoli dallo scadente al pletorico. L’ultimo album grande davvero “Mirror Ball” del ’95 e a quel punto radicata la convinzione che il rinascimento, dopo gli sciagurati anni ’80, inaugurato nell’89 da “Freedom” fosse stato l’ultimo, miracoloso sopprassalto creativo di una carriera lunghissima, altissimi gli alti, bassissimi i bassi. E invece Neil è ripartito, il memento mori sporto dalla malattia seme per l’ennesima rifioritura. Prima il bucolico affresco di “Prairie Wind”, novello “Harvest” senza un’ombra di stucchevolezza. Poi la furiosa invettiva cotta e mangiata di “Living With War”. Non essendoci notoriamente due senza tre, “Chrome Dreams II” alza ancora il livello del confronto con la discografia precedente e non basta più risalire a “Mirror Ball” per trovare qualcosa di parimenti persuasivo ed eccitante: tocca arrivare a “Ragged Glory”, del 1990 e l’ultimo conclamato capolavoro.

Chi conosce bene Neil Young sarà rimasto sorpreso dal “II” nel titolo, mancando in catalogo un volume uno. Per non sorprendersi, bisogna conoscerlo benissimo il nostro eroe e sapere allora che dell’infinito elenco delle sue mattane fa parte l’avere cestinato nel ’77 il 33 giri – “Chrome Dreams”, appunto – che avrebbe dovuto essere il successore di “Zuma”. In suo luogo usciva “American Stars ’N Bars”, recuperandone alcune canzoni e altre sarebbero finite nel tempo in questo o quell’album, elevando a leggenda – sorta di piccolo “Smile” – quel disco fantasma. L’ideale seguito ne replica come da manuale dell’arte del Canadese equilibri e squilibri: e c’è allora una logica nell’incastonare i fumiganti, urlanti, tellurici 18’13” della peraltro già da lungi nota Ordinary People (il singolo: è o non è costui l’ultimo dei punk?) fra gli scorci campagnoli di Beautiful Bluebird e Boxcar e una Shining Light mezza valzer e mezza ninnananna. Cui va dietro una The Believer profumata di Motown! Qualità stellare delle canzoni a parte, “Chrome Dreams II” è un altro “Freedom” a diciotto anni da “Freedoom” che era un altro “After The Gold Rush” a diciannove anni da “After The Gold Rush”. In questo senso: che è uno dei non molti dischi, a ben contare, di Neil Young in cui l’anima acustica e quella elettrica convivono. Così pure in una seconda metà di programma che risoppesa il tutto sistemando il languido country di Ever After fra il martellante dittico Spirit Road/Dirty Old Man e un’altra epopea chiamata No Hidden Path. Affidando il congedo all’incantata The Way. Per favore, clonatelo.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.29, estate 2008.

2 commenti

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2 risposte a “Happy birthday, Neil. And may you stay forever Young.

  1. Rusty

    Vita e arte si sovrappongono, dal futile al sublime. Mi associo all’augurio del titolo.

  2. Francesco

    Mi sembra di aver capito, ma forse mi sbaglio, che Greendale non rientri propriamente nella top ten del VMO.
    Auguri caro Nello, giovane lo sei ancora sul serio.

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