La maturità ecumenica dei Los Lobos

Los Lobos - Kiko

Smarrimento fra i cultori, ivi compresi tanti della prim’ora, quando sul finire dello scorso anno i Los Lobos hanno celebrato con uno stupendo doppio live acustico (“Disconnected In New York City”; al posto vostro cercherei l’edizione comprensiva di DVD) il loro quarantennale. “Ma come?”, ammetto di avere pensato per circa cinque secondi anch’io, ben ricordando il momento in cui entrarono per la prima volta nella mia vita con le sette canzoni del mini “…And A Time To Dance”, “ma non è il trentennale invece?”. Salvo subito ricordare che, come pian piano si venne a sapere in quella giurassica era pre-Internet, quando l’informazione per noi italiani circolava tutta sulla carta stampata anglo-americana, quel mini griffato Slash che apparve nell’83 come fulmine a ciel sereno lungi dall’essere l’esordio dell’allora quartetto formato da David Hidalgo, Louie Pérez, Cesar Rosas e Conrad Lozano era l’approdo di un percorso già decennale. Sconcerto e insieme eccitazione quando si apprendeva che in precedenza il gruppo aveva pubblicato non uno ma ben due album. Sconforto quando ci si rendeva conto che “Si se puede!” e “Los Lobos del Este de Los Angeles” erano impossibili a trovarsi, un po’ lenito dal sapere che trattavasi di lavori rigorosamente folk e dunque di un interesse relativo per chi dei Los Lobos trovava entusiasmante principalmente l’attitudine al meticciato. Quella loro capacità di mischiare tex-mex, blues, country, errebì, rock (più avanti arriveranno soul e jazz). Sempre irreperibile e avvolto da un alone mitologico il primo, quando molti anni dopo (nel 2000 addirittura) si avrà infine l’occasione di ascoltare integralmente il secondo (tre brani a quel punto li si conosceva perché inclusi nel ’93 nella raccolta doppia “Just Another Band From L.A.”) molti dei pochi che si scomoderanno a farlo scuoteranno la testa. “Tutto qui?”. Che poi è pure un buon disco, ma davvero di un qualche interesse giusto per gli etnomusicologi. A meno che non siate un ispano-californiano discretamente attempato e nostalgico della gioventù. In tal caso, quegli altri Los Lobos – quelli che cambiavano stile dopo avere preso a bazzicare gli ambienti punk losangeleni; fors’anche quelli che inopinatamente andavano al numero uno in mezzo mondo, USA inclusi, con una cover di un classico del primo rock’n’roll – non vi interessano. O solo un po’. Ci sta: sono due gruppi che all’ascolto hanno in comune non molto più del nome. O sono tre?

Probabile che rievocando oggi quell’attimo fuggente in cui furono popolarissimi ovunque grazie a una canzone non loro tratta dalla colonna sonora di un fortunato biopic – la canzone era La Bamba e il film quello omonimo che raccontava la storia dello sfortunato Ritchie Valens, prima rockstar chicana, scomparso giovanissimo nello stesso incidente aereo che ci rubò Buddy Holly – ai Los Lobos un po’ scappi da ridere. Si scoprivano incredibilmente famosi, loro che le zone alte delle classifiche non le avevano mai frequentate prima (né mai le frequenteranno dopo), godendo invece di un tipo di fama infinitamente meno diffusa ma tanto meno effimera, e di una platea sconfinata che ben sapevano non li avrebbe seguiti si liberavano con una mossa apparentemente suicida e invece salvifica. Dato alle stampe nel 1988, “La pistola y el corazón” è significativamente l’unico album per così dire “world” dei lupi seconda maniera. Faceva una selezione alla porta talmente radicale che persino il pubblico abituale (io stesso lo ascoltai e decisi di non comprarlo, tuttora non ce l’ho) preferì in larga parte ignorarlo, salvo poi precipitarsi due anni più tardi ad acquistare “The Neighborhood”, che erano/sono i “soliti” Los Lobos. Fra i cui esegeti ferve dal ’92 il dibattito (non che la produzione successiva non meriti, eh? è che certi apici non verranno più toccati) su quale sia “il” capolavoro del combo. La maggioranza assoluta vota per uno fra “How Will The Wolf Survive?” e “By The Light Of The Moon”, ’84 e ’87, e in particolare una cospicua maggioranza relativa per il primo dei due. Fatto è che ci senti dentro l’entusiasmo della gioventù, che sono dei Los Lobos musicisti già immensi e nondimeno ancora… ruspanti quelli che incontri nei loro solchi. C’è nondimeno pure una robusta minoranza che sceglie invece “Kiko”, A.D. – per l’appunto – 1992. Io? Dipende. Voto usualmente e con convinzione, non soltanto per affetto, per “How Will…”, e però qualche dubbio ogni tanto mi coglie. Ogni volta che riascolto “Kiko” e nell’ultima settimana l’ho riascoltato spesso.

È il classico di una maturità nel contempo ecumenica all’estremo e raffinatissima. Ed è anche il disco che racchiude tutti o quasi i Los Lobos che ci è stato dato finora di ascoltare in trenta… scusate… quarant’anni. A quelli degli esordi, ma con un gusto appena più fusion, è delegato il congedo con finalino da marcetta di Rio de Tenampa. Prima ne sfilano più o meno quanti sono i brani, ossia altri quindici. Si attacca con la batteria sincopata, il basso funky, il sassofono errebì e la chitarra rock di Dream In Blue e andando avanti si incontra di tutto e di più: da una tagliente e mesmerica Wake Up Dolores al blues che swinga indiavolato di That Train Don’t Stop Here, da una cartoonesca Kiko And The Lavender Moon a una folkeggiante Reva’s House, da una When The Circus Come da The Band in vena onirica a una Two Janes sull’orlo della psichedelia, passando per il dolcissimo quadretto da border di Arizona Skies e per una ballata quale Short Side Of Nothing che la rifacesse Rod Stewart forse ci dimenticheremmo di tutti questi anni da macchietta. Per non dire di Whiskey Trail, che è la più grande canzone dei Creedence Clearwater Revival che John Fogerty si è dimenticato di scrivere. Insomma un grandissimo album, prodotto meravigliosamente da Mitchell Froom e non vi è dettaglio che l’edizione Original Master Recording che gira in questo momento per la quarta volta sul mio Thorens non ponga nel giusto risalto. Vinile esemplarmente silenzioso, così come risultano esemplari la timbrica di ogni strumento e l’equilibrio della ripresa d’assieme. A parte che bisogna alzare un po’ il volume, riesce a non nuocere una durata che gira intorno ai ventisei minuti per facciata e avrebbe potuto consigliare di optare per il doppio vinile, a costo però di un esborso notevolmente più alto per l’appassionato.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.356, ottobre 2014.

3 commenti

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3 risposte a “La maturità ecumenica dei Los Lobos

  1. Demis

    Grande gruppo, voto “Kiko” tutta la vita, per me capolavoro assoluto

    • marktherock

      Parlando dei Lobos nel terzo millennio, per me Goog Morning Atzlan fu un disco straordinario, in grado di competere con i loro capolavori più celebrati. Rock’n’roll a rotta di collo, ballate strappacuore e latinismi assortiti, la solita ricetta, al solito invincibile

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