Fra demonio e santità (femminista): i cinquantun’anni di Courtney Love

Compie oggi gli anni colei che riduttivamente viene ricordata da troppi solo come “la vedova Cobain”, quando invece ha regalato agli annali del rock una manciata di canzoni memorabili e almeno un album capolavoro. Ottima scusa per recuperare quanto scrissi di lei e delle Hole nel mio volumetto sul grunge, una vita fa. Ritiro fuori quelle pagine, a dire il vero, anche perché di recente mi è capitato di imbattermi in un articolo nel quale mi si attribuiscono pensieri che non ho mai pensato, parole che non ho mai scritto (e a seguire c’è la prova). La cosa mi ha molto, molto infastidito.

Courtney Love

La Yoko Ono del grunge: a furia di sentirselo dire Courtney Michelle MacNeilly Morelan Rodriguez Love in Cobain un po’ deve essersi immedesimata nella parte, quanto bastava per dedicare alla vedova Lennon, con un misto di affetto e ironia, una canzone esplicita sin dal titolo come 20 Years In The Dakota. È stata, una tantum nella vita, saggia a non prendersela, le sarebbe potuto capitare ben di peggio. Chissà cosa non si sarebbe scritto se a suo tempo Alex Cox l’avesse prescelta per la parte di protagonista, e non per una di contorno, in Sid & Nancy!

Come nel caso dello sfortunato consorte, un’analisi della sua musica non influenzata dalle fin troppo note vicende personali è impossibile. Groupie, tossica irresponsabile o madre amorevole, sfrenata arrivista disposta a tutto per restare al centro dell’attenzione dei media oppure vittima di un gioco sfuggitole di mano e che forse non ha mai davvero voluto giocare: chi può dire chi sia la vera Courtney Love? Ma importa sul serio stabilire se è santa o puttana, o paladina del femminismo? Se ci si lascia alle spalle il fenomeno di costume e ci si concentra sull’artista, appare innegabile che la ragazza (fa fede anche la brillante carriera cinematografica) ha talento. A meno che non si faccia parte di quella pattuglia di detrattori che si è spinta a speculare che il magnifico secondo album delle Hole, che si eleva dalla cintola in su sul resto della scarna discografia, sia in buona parte non accreditata farina del sacco di Kurt Cobain. Il che (ma chi sarà mai in grado di provarlo?) potrebbe indurre a rivedere il giudizio sulla vedova ma naturalmente non muterebbe di una virgola quello sul disco: uno dei dieci migliori fra le centinaia che sfilano in questo volume.

Hole - Pretty On The Inside

Pretty On The Inside (Caroline, 1991) ***

Discretamente atteso, in forza di un paio di singoli promettenti e di un’immagine pubblica della non ancora signora Cobain già di alta visibilità, “Pretty On The Inside” subisce il paradossale destino, essendo uscito insieme a “Nevermind”, di venire eclissato da quest’ultimo, come invece non tocca in sorte al primo Pearl Jam, arrivato anch’esso nei negozi in quei giorni. Il fatto è che ove quello è astutamente epidermico l’esordio delle Hole è pieno di spigoli e della passione dichiarata di Courtney e del suo braccio destro Eric Erlandson per il pop (dai Fleetwood Mac ai Duran Duran) non reca traccia. La produzione è di Kim Gordon e Don Fleming e l’impressione è che abbia calcato la mano di più la prima. I Sonic Youth stazionano difatti dietro l’angolo per l’intero svolgersi del programma, che comprende undici brani devoti anche agli Stooges (l’omaggio sconfina nel plagio in Teenage Whore e in Star Belly) e che non disdegnano scariche punk e qualche scansione di pesantezza sabbathiana. La bruta forza d’impatto prevale su una scrittura con qualche buono spunto ma ancora acerba.

Hole - Live Through This

Live Through This (Geffen, 1994) ****1/2

Per una ancora più sfortunata coincidenza, “Live Through This” vede la luce a una settimana dal suicidio di Kurt Cobain. Mentre la sua immagine già iconica campeggia sulle prime pagine dei quotidiani e sulle copertine dei settimanali, quella della fresca vedova è improvvidamente su quelle di molti mensili, chiusi in tipografia prima del fatale evento. È inevitabile che le analisi dei recensori partano da un titolo a posteriori profetico e si concentrino su testi che, frutto dello psicodramma dei mesi precedenti, anticipano con disturbante preveggenza la tragedia a venire (“with a bullet, number one/kill the family, save the son”, i due versi più sconvolgenti). Non viene così sottolineato abbastanza lo scarto qualitativo rispetto all’album precedente, la forbitezza delle melodie, l’immediatezza dei ritornelli, il convincente inserimento nel tessuto sonoro, assai più variegato che in passato, di chitarre acustiche. Né che la voce non sa più soltanto urlare ma anche blandire, sedurre, commuovere. Figlio di un momento particolare nella storia del rock degli ultimi anni e in quella personale di Courtney Love, come tutti i grandi dischi “Live Through This” sa riscattarsi dalla congiuntura in cui fu concepito e brillare della luce dei classici, dentro il suo tempo ma fuori.

Hole - My Body, The Hand Grenade

My Body, The Hand Grenade (City Slang, 1997) ***1/2

Tragedia segue tragedia e alla morte di Cobain va dietro quella, per overdose, della bassista Kristen Pfaff. Il terzo album delle Hole si fa aspettare. L’attesa è ingannata con una raccolta che copre l’intera carriera del gruppo, dai primi stordenti 45 giri a un concerto acustico per MTV, e ha il grande merito di recuperare Beautiful Son, memorabile raccordo fra la selvatichezza del primo LP e la vigorosa poesia del secondo.

Hole - Celebrity Skin

Celebrity Skin (Geffen, 1998) ***

Sospirato per quattro anni e mezzo, chiacchieratissimo per la presenza in studio di Billy Corgan degli Smashing Pumpkins e per le tensioni che, si sa, questa ha determinato (tant’è che Corgan, che cofirma alcuni titoli, non è responsabile della produzione come annunciato in principio), “Celebrity Skin” chiude i conti con il grunge propinando folk-pop alla Bangles e qui e là alla Fleetwood Mac. Superato lo sconcerto iniziale, si fa ascoltare.

Pubblicato per la prima volta in Grunge, Giunti, 1999.

2 commenti

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2 risposte a “Fra demonio e santità (femminista): i cinquantun’anni di Courtney Love

  1. Premetto che ricordavo a memoria il contenuto di questo post, tante sono le volte che ho letto il tuo volume. Ma a questo punto è l’introduzione che mi interessa: ho letto l’articolo “incriminato” e mi chiedo che cosa di esso possa averti infastidito. L’autrice parla di proprie percezioni riguardo la tua opera e, mi sembra, non dà giudizi negativi sulla stessa (del “lavoro di pulizia” mi pare parlassi anche tu in chiusura della prefazione, quando indicavi i criteri di selezione dei gruppo trattati).
    L’unica frase contestabile potrebbe essere “Le persone e le fonti di cui mi fidavo di più non facevano altro che ripetermi che per essere artisti veri era necessario essere uomini, e che le poche donne che veneravo non erano altro che eccezioni.”, ma in questo caso si tratta ancora una volta di un caso di percezione individuale, peraltro connotata da un grossolano errore (dalla lettura del tuo volume non mi ha mai sfiorato l’idea che tu ravvisassi e suggerissi un necessario rapporto di causa-effetto tra cromosoma Y e grunge di qualità; e come me, ne sono sicuro, una simile idea non ha mai sfiorato anche molti/e altri/e lettori/lettrici), frutto, con ogni probabilità, di un preconcetto ideologicodell’autrice (degno delle peggiori lamentele delle “riot grrrls”; e visto che siamo in tema, e che si parla di Courtney, ascoltare “Kill Rock Stars” dei NOFX per avere un quadro della situazione: “I wish I could have seen Courtney/demonstrate some real mysoginy”).
    Ciao, e complimenti ancora per quel volume: una Bibbia (o quantomeno un breviario), per gente della mia generazione.

  2. a me love through this era piaciuto tantissimo, c’è tanta disperazione, melodia, furore… del personaggio non mi è mai fregato nulla, credo abbia inciso relativamente sulla deriva umana di Cobain.. lei era piuttosto “fuori” ed esibizionista anche prima di conoscerlo in fondo

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