L’uomo nato Prince Rogers Nelson ci lasciava, causa un’overdose accidentale di un antidolorifico, il 21 aprile di due anni fa e la tragedia era doppia, in quanto la morte lo coglieva nel punto artisticamente più basso di una carriera a quel punto già quasi quarantennale. Diversamente da David Bowie, scomparso pochi mesi prima, sopraggiungendo improvvisa non gli consentiva di organizzare come congedo un ultimo capolavoro.
In VMO ho recuperato a più riprese miei scritti su un genio che in gioventù mi capitò di liquidare con imperdonabile superficialità. Non ho più smesso di andare a Canossa. Qui riprendevo una monografia scritta nel 2006 per “Il Mucchio”, qui la prefazione per una biografia americana, qui svariate recensioni di album usciti fra il 2004 e il 2015.
Sinceramente non sono uno di quei revisionisti estremi che rivalutano di tutto e di troppo sputando, nel frattempo, su quanto avevano amato in gioventù. Riascoltate a distanza di decenni continuano ancora a piacermi la stragrande maggioranza delle cose che amavo negli anni ottanta e a non piacermi la stragrande maggioranza delle cose che detestavo. Con Prince però prendemmo (in molti se non tutti) una cantonata colossale. Come fu possibile che non ci rendemmo conto in tempo reale di trovarci davanti ad un Genio con la “G” maiuscola resta per me un insondabile mistero.
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