I migliori album del 2021 (8): Emma-Jean Thackray – Yellow (Movementt)

I jazzofili possono pure arricciare i loro preziosi nasini, ma senza l’opera divulgativa diversamente svolta su questa e quell’altra sponda dell’Atlantico da Shabaka Hutchings e Kamasi Washington, e da una pattuglia sempre più folta di colleghi che ne sfruttano la scia, la musica che amano di un amore spesso malinteso avrebbe continuato ad abitare il nostalgico ghetto in cui era rinchiusa da decenni. E invece no. Sempre più giovani vanno (ri)scoprendola e non si spiegherebbero se no l’età media vistosamente calata ai concerti, certe platee di consistenza numerica sorprendente, la recuperata aurea di coolness intorno a un genere ultracentenario e la misura in cui sta infiltrando territori nemmeno troppo limitrofi. Non si spiegherebbe come questo esordio lungamente preparato (un poker di EP lo ha preceduto fra il 2016 e il 2020) della polistrumentista inglese Emma-Jean Thackray (“a volte mi chiedo se una ragazza bianca nativa dello Yorkshire abbia o no il diritto di esprimersi con una sintassi e un vocabolario così intimamente afroamericani”, si domanda marzullianamente dandosi poi per fortuna la risposta giusta) oltre ad andare al numero uno della classifica jazz UK sia salito fino alla seconda piazza di quella indie.

Oltre e più che commerciale, “Yellow” è in ogni caso un trionfo artistico per una figura esemplare – allieva di Keith Tippett ma a tempo (non tanto) perso pure dj – di una nuova generazione che non conosce steccati. Gioca a rimpiattino fra la tradizione bandistica di New Orleans e il soul, fra fusion e psichedelia, rievoca Alice Coltrane come il Roy Ayers o l’Herbie Hancock che si arrendevano al funk, si concede scorci cinematografici ed empiti spiritual, va in gita in Brasile e fa afrobeat Sun Ra. Magnifico.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.434, settembre 2021.

1 Commento

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Una risposta a “I migliori album del 2021 (8): Emma-Jean Thackray – Yellow (Movementt)

  1. Massimo Sarno

    Come avrai avuto modo di notare, guardando ad altri miei interventi, ascolto jazz da molto tempo ( piu`di trent’anni). Con questo non mi voglio attribuire la patente di esperto, ma solo quella di un fruitore di musica che puo`contribuire con qualche elemento in piu` alla discussione su questo argomento. Innanzitutto una premessa che ritengo indispensabile; il jazz non e` esattamente un genere, ma piuttosto un linguaggio musicale. Sembra una differenza di lana caprina, ma la storia dimostra che si tratta di una matrice molto flessibile dentro la quale diventa possibile rielaborare in modo creativo e libero una quantita`infinita di generi musicali. Si pensi a quanti elementi di musica indiana, europea e ispanica si possono trovare nel jazz. La sua natura meticcia, tra l’altro, rende molto problematico l’inserimento del jazz nell’alveo della musica nera; se si indaga a fondo si scopre, ad esempio, che nel jazz delle origini hanno avuto un ruolo determinante diversi italiani. Ho sempre apprezzato (e condiviso) la tua difesa appassionata del Miles Davis visionario degli anni settanta, cosi` come quella di artisti straordinariamente creativi come il Tony Williams del periodo Lifetime , l’Herbie Hancock che si inventa il gruppo Mwandishi e da` alle stampe lavori rivoluzionari come FUTURE SHOCK e DIS IS DA DRUM, o ancora quell’ Albert Ayler che in lavori come LIVE IN GREENWICH VILLAGE, LOVE CRY e SPIRITUAL UNITY elabora una sintassi musicale di grande pregnanza e modernità. In ognuno di questi artisti ho sempre visto ciò che rende questa musica così appassionante, ovvero la capacità di mettersi sempre in discussione, la liberta` creativa, il rifiuto dei cliché alla moda e di cadere nella maniera di se` stessi. Per tutto questo, devo rispettosamente dissentire riguardo al tuo entusiasmo per artisti come Kamasi, che non mi sembrano nemmeno lontanamente paragonabili ai giganti che ho nominato sin qui. Dove in costoro era possibile vedere il coraggio di osare l’inosabile, sfidare gli strali del pubblico e della critica per realizzare ciò in cui credevano, in questi giovanotti non vedo tanto il fuoco creativo, la capacità di rielaborare le diverse influenze, ma piuttosto l’acquiescenza verso generi molto popolari presso i giovanissimi (come l’hip hop) al fine di risultare il piu` possibile simpatici e popolari presso un pubblico totalmente a digiuno di jazz. Ho avuto anche modo di vedere spezzoni di concerti di Kamasi e la mia impressione e`che cio`che funziona in studio e` decisamente meno efficace dal vivo. Siamo lontani, secondo me, dai risultati artistici raggiunti negli anni da maestri della sintesi musicale come Bill Frisell o Henry Threadgill. Naturalmente potrei sbagliare, e magari tra qualche anno saluteremo in Kamasi l’erede piu`credibile di John Coltrane; solo il tempo potra` dirimere la questione. Mi scuso per la prolissita` e ti saluto con immutata stima e considerazione.

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