Se ne parla da chissà quanto tempo – decenni – e a questo punto, visto che l’uomo è ancora del tutto vivo e ben più che vegeto (imminente l’uscita di un nuovo album) ma gli anni cominciano a essere davvero tanti (settantatré), sarebbe il caso che si sbrigassero a darglielo, a Bob Dylan, ’sto benedetto Nobel per la letteratura. Quando sarà, chissà se con la pazienza e la saggezza portategli in dote dalla vecchiaia lo riceverà con gratitudine o viceversa, essendo pur sempre Dylan, lo accoglierà con scetticismo, sarcasmo, quasi fastidio. Se farà storie per mettersi in ghingheri per la cerimonia come quando nel 1970 la Princeton University gli conferiva una laurea honoris causa e lui, recatosi di malavoglia a ritirarla, rifiutava stizzito di indossare i paramenti accademici. E a chi gli faceva notare che se non si vestiva adeguatamente il prestigioso riconoscimento sarebbe stato cancellato replicava beffardo che non aveva chiesto niente, lui. Da lì a breve l’episodio gli avrebbe fornito l’ispirazione per il testo di Day Of The Locusts, una delle dodici canzoni incluse (in capo a una lavorazione problematicissima che fece giurare ad Al Kooper, produttore delle prime sedute d’incisione, poi accantonate, che mai più avrebbe avuto a che fare con un datore di lavoro tanto lunatico) in “New Morning”.
Ecco, dipendesse da me io a Zimmie il Nobel per la letteratura più che per un sacco di altri titoli strafamosi contenuti in dischi ben più celebrati lo darei per Day Of The Locusts, per Time Passes Slowly, per If Dogs Run Free, per Three Angels, tutte canzoni incluse in “New Morning” delle quali mi innamoravo, in un giorno lontanissimo della mia adolescenza, leggendone i testi tradotti in una bella antologia (introduzione di Fernanda Pivano) edita da Newton Compton. Mi piaceva quella lingua singolarmente asciutta, quell’economia se vogliamo così poco dylaniana, ed è forse a ragione di ciò che da sempre colloco “New Morning” (che non avrò occasione di ascoltare per la prima volta che diversi anni dopo) in una posizione più alta, nella produzione del Nostro, di quella dove dovrebbe stare giudicandone solo i meriti musicali. Non sono insommma gli spartiti, che svagatamente passeggiano fra blues (Time Passes Slowly, One More Weekend) e Stax (Went To See The Gypsy), valzer (Winterlude) e carabattole jazz (If Dogs Run Free), talking-gospel (Three Angels) e litanie lunari (Father Of The Night), e quasi mai sul serio conquistano, al più incuriosiscono, a farne uno degli album maggiori fra i minori di Dylan. Per quanto pure quelli dovessero parere al tempo oro colato se raffrontati al campionario di sciatterie insensate esposto pochi mesi prima nell’orripillante, e per colmo di tragedia pure doppio, “Self Portrait”.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.359, gennaio 2015.
L’ha ribloggato su sergiofalcone.
Quella antologia della Newton Company l’ho ancora anch’io, letteralmente frusta…se non erro però ho anche un altro libro sempre NC del periodo, forse era il volume due..
ciao
PS No, New Morning non è mai entrato nel mio radar più di tanto, continuo a considerarlo minore minore nell’opus del maesto
Francesco, i libri con i testi in italiano di Dyylan sono tre in realtà: “Blues, ballate e canzoni”; “Canzoni d’amore e di protesta” e “Folk canzoni e poesia”, li ho tutti e tre….ho anche altri tre libri, pubblicati da Arcana, dove i testi erano tradotti da Tito Schipa junior, che aveva tentato di mantenere la metrica e le rime, quindi traduzioni in certi casi infedeli. Su “new Morning” non condivido, a me piace e ci sono due canzoni che hanno, diciamo così, “ispirato” De Gregori
La copertina di Freewheelin è una delle cose più emozionanti che esistano. Anche solo per quella il Nobel se lo meriterebbe.
Ma non per la letteratura. 🙂