Archvi dell'anno: 2024

Sax Maniac! – Il contorto James Chance (20/4/1953-18/6/2024)

A trentadue anni dall’esordio assoluto nella storica e isterica raccolta di autori vari “No New York”, a trentuno dalla formidabile accoppiata di 33 giri che consegnò alla Ze, a ventisette dacché diede alle stampe l’ultima collezione di inediti in studio, James Chance ha finalmente pubblicato un album nuovo. Anzi, no.

“Se c’è una singola canzone che mi ha ispirato a fondare i Contortions è Superbad, per via degli assoli di sassofono che la caratterizzano. Non riuscivo a credere alle mie orecchie la prima volta che la ascoltai! Voglio dire… James Brown è sempre stato uno cazzuto, ma quando cominciò a buttare dentro i suoi brani assoli di sassofono in stile free jazz mi sconvolse. Non avrei mai immaginato che gli piacessero cose del genere, perché per la maggior parte di quelli del giro del rhythm’n’blues erano roba aliena”: così James Siegfried – alias James Chance, alias James White, alias James Black – riferiva a “The Wire” nel 1996 su quale fosse stata la scintilla (non che nessuno avesse mai avuto dubbi al riguardo) scatenante quell’incendio punk-funk-jazz al quale la sua ghenga fornì la benzina. Aveva appena pubblicato un discreto live, “Molotov Cocktail Lounge”, per i tipi della Enemy (stessa casa discografica dei Defunkt dell’amico Joe Bowie) e soprattutto aveva appena visto tornare in circolazione, dopo lunga latitanza, i suoi due storici primi LP, “Buy The Contortions” e “Off White”, ristampati con un discretamente ricco corredo di bonus da un’etichetta hip quale la Infinite Zero di Henry Rollins e Rick Rubin. Si faceva un gran parlare di no wave, giustamente individuata come uno stile antesignano della composita galassia (e soprattutto dell’attitudine) post-rock. E della no wave – frutto fondamentalmente dell’incontro in due quartieri newyorkesi, l’East Village e Soho, di quattro categorie di artisti ciascuna a suo modo iconoclasta: performer multimediali, jazzisti discepoli di Coleman e Ayler, funkster in polemica con la deriva commerciale della black, punk che del punk rifiutavano la discendenza dal rock’n’roll e dal garage – i Contortions erano stati le uniche vere stelle. Si sarebbe potuto pensare, nel 1996, che il Sigfrido avesse finalmente messo la testa a posto e si trovasse sul limitare di una seconda giovinezza. Non è andata esattamente così, anche se rispetto ai suoi anni più bui l’ultimo decennio – ma più che altro nella sua prima metà, con un apice segnato nel 2005 dalla partecipazione all’“All Tomorrow’s Parties Music Festival” – lo ha decisamente rimesso sotto i riflettori. Però soprattutto indirettamente, per via dell’influenza che la no wave seguita a esercitare sebbene in maniera meno interessante rispetto a quei tardi ’90 nei quali la sua attualità era data dall’avere immaginato un futuro in cui i confini di rock, funky, free jazz, noise, etnica e avanguardia sarebbero sfumati uno nell’altro e il rock avrebbe smarrito la sua centralità, a favore di musiche ibride dagli elementi costitutivi in perenne ricombinazione. Laddove oggi, dai Liars più a-melodici in giù, è più un riprenderne moderatamente la lettera tradendone così due volte lo spirito. E poi se del Sax Maniac si è scritto con discreta frequenza in questi anni 2000 è stato per via della continua rimessa in circolo (per la Munster, su  Roir, per la rediviva Ze) di un catalogo invece assolutamente negletto prima di quelle prime riedizioni Infinite Zero.

Insomma: non nasconderò che ritrovarmi fra le mani “The Fix Is In”, griffato James Chance and Terminal City e fresco di pubblicazione per la francese Le Son du Maquis, ha suscitato in me timore più che eccitazione, dopo che un’occhiata alla scaletta chiariva che sì, era roba nuova, mai sentita. Si sarebbe rivelato almeno dignitoso? Che sollievo – che gioia persino – scoprirsene assolutamente soddisfatto al termine del primo ascolto e sempre di più durante i successivi. Beninteso: tutto un altro sound – più Henry Mancini che Lounge Lizards nell’iniziale Down And Dirty e poi swingante, notturno, cinematografico, con qualche incursione in un festoso jumping che avrebbe fatto invidia a un Louis Jordan – rispetto a quello d’antan. Come del resto chiarito/annunciato da note a corredo nelle quali l’artefice afferma orgogliosamente di avere per la prima volta lavorato sugli schemi tradizionali delle dodici e trentadue battute, deplorando poi che in pochi dimostrino oggi la minima raffinatezza armonica e/o melodica. Da che pulpito! Che razza di delusione allora, almeno sul subito, scoprire casualmente (e come in nessun modo si può evincere da una confezione peggio che ambigua al riguardo) che il “nuovo” disco è in realtà la ristampa di un CD uscito solo in Giappone nel 2005 e contenente registrazioni del ’99-2000. Il “nuovo” James Chance ha minimo dieci anni e non nego di essermi sentito preso in giro. Ma poi l’ho rimesso su, ne sono rimasto incantato da capo, ho riflettuto su quale delitto sarebbe stato lasciare questi 68’05” di fatto inediti e l’arrabbiatura mi è passata. Salvo tornarmi un po’ alla visione del DVD, Almost Black, allegato a “The Fix Is In”: venticinque minuti scarsi con una qualità tecnica talmente indecente per i mezzi odierni (il documentario in questione è datato 2005) da fare pensare che si sia trattato di una discutibilissima scelta “artistica”. Però… dai… consigliato, avrete inteso.

Anche se naturalmente sono i primi, leggendari due gli album da puntare per i pochi – giusto la giovane età può essere una valida scusante – che ancora non dovessero esserne forniti. Per certo ne resteranno colpiti, ma probabilmente meno sconvolti (curioso come lo scorrere del tempo renda accettabili dapprima, quindi merce corrente, spartiti che al loro apparire avevano offeso i più) degli acquirenti d’epoca. Ci siamo imbattuti in cose ben più estreme dopo, ma questa manciata di canzoni al tempo fu rivoluzionaria, funk tutto spigoli che faceva male alle orecchie e lasciava le gambe incerte riguardo al che fare. In ogni caso: risulta ancora freschissima, “concepita per uccidere”, come ammonisce il primo titolo in scaletta. “Buy The Contortions” è un vortice di chitarre elettriche distorte e sax ululanti, pattern ritmici funkissimi, esilarante energia punk, sperimentazione free. Brano-manifesto: Contort Yourself. Unico momento di requie pressoché a fondo corsa: Twice Removed, già allora manciniana e un simile classicismo in tale contesto spiazzava davvero. “Off White”, uscito praticamente in contemporanea ma a nome James White & The Blacks, sciorinava musica meno spiritata, elegante persino, e comunque con un senso del groove micidiale (esemplare la versione sistemata a incipit, e assai diversa da quella citata dianzi, dell’inno Contort Yourself). Un paio di capolavori o poco meno: una Stained Sheets punteggiata da una voce orgasmica; una Tropical Heatwave che anticipa i Tom Tom Club ma prefigurandoli schizoidi. Una sorpresa alla fine: Bleached Black è di fatto un blues.

Indiscutibile che il James Siegfried essenziale stia tutto lì, a scavare lo sparuto resto della produzione storica gemme se ne rinvengono ancora. Più che nei numerosi live, esplosivi ma dalle incisioni purtroppo mediamente deficitarie, in “Sax Maniac” (1982, secondo lavoro attribuito a James White & The Blacks) e in “James White’s Flaming Demonics” (1983): in questo un eccellente medley di Duke Ellington, niente di meno; in quello una Disco Jaded striata di tango e di jazz e una Sax Machine che suona come dei Kid Creole & The Coconuts fumati di crack. Fatevene ossessionare.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.671, giugno 2010. Ristampato in Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015.

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New wave 1977-1980: le basi

Più che uno specifico stile musicale era (per dirla con Simon Reynolds) “uno spazio aperto a un gran numero di possibilità”. Ho provato a raccontarne l’epopea attraverso dieci album più fondamentali di altri che pure restano fondamentali, oggi più che mai. Qui.

https://hvsr.net/post/2024/new-wave-for-dummies-copia

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Personalità, stile, impatto, canzoni favolose – Il primo Franz Ferdinand

Nessuna data è prevista per il 2024 per i Franz Ferdinand, il cui più recente concerto risale allo scorso 2 settembre quando si esibivano a Empoli a suggello di un tour promozionale per la raccolta “Hits To The Head”, pubblicata nel marzo ’22. L’ultima collezione di inediti? “Always Ascending”, quinto lavoro in studio per gli Scozzesi e nettamente il meno riuscito e il meno venduto. Vedeva la luce nel febbraio 2018 e la latitanza comincia a essere lunghetta anche per una band che aveva fatto attendere il disco prima quattro anni e mezzo e il predecessore di quello idem. Da allora è cambiato il batterista, Paul Thompson il secondo dei fondatori a dimettersi dopo che nel 2016 a prendere la porta era stato il chitarrista ritmico, tastierista e occasionale voce solista Nick McCarthy. Defezione ben più grave, siccome costui aveva fino a quel punto co-firmato la quasi totalità del repertorio, e c’è chi dice che da tal dì i Franz Ferdinand sono un gruppo che fa cover dei Franz Ferdinand. Sia come sia, a parte che a googlarli rischi che prima di loro esca il personaggio storico da cui presero il nome, e ai tempi d’oro non accadeva, sotto “le persone hanno chiesto anche:” salta subito fuori un inquietante ma giustificato “Is Franz Ferdinand still making music?”. Boh… Sul sito ufficiale, non aggiornato da dicembre, la prima notizia è l’annuncio di una ristampa solo in vinile dell’omonimo primo album. La scusa per l’ennesima riedizione di un titolo già rimesso in circolazione sul supporto fonografico per antonomasia nel 2009, ’14, ’20 e ’21? Che in prima stampa raggiungeva i negozi il 9 febbraio 2004, due decenni esatti al giorno prima di questa. OK. Il Vostro affezionato ha impiegato un attimino a metabolizzare quanto appena constatato e scritto. E tu, amico lettore? Tu quoque sobbalzasti? Prendiamo la faccenda per il verso giusto. È un’ottima scusa per riascoltare uno dei migliori esordi, o dischi tout court, in ambito rock di questo secolo. Un classico, a patto di non pretendere da esso una qualità che del rock non è da parecchio addentro nello scorso di secolo, ossia un’originalità che non sia relativa, e contentarsi godendo di personalità, stile, impatto e canzoni favolose.

Dei ragazzi che nel 2002 danno vita a Glasgow ai Franz Ferdinand i più non sono ragazzi. Il cantante e chitarrista solista Alex Kapranos si sta inoltrando nei trenta, Nick McCarthy li scorge all’orizzonte, Paul Thompson va per i ventisei. Il bocia della compagnia è il bassista Bob Hardy, che di anni ne ha ventidue. A regalargli il primo strumento è stato Mick Cooke dei Belle And Sebastian, a insegnargliene i rudimenti Kapranos, uno a suo agio oltre che con chitarra e ogni tipo di tastiera con banjolele (un incrocio fra banjo e ukulele) e (onorando i natali greci del padre) il bouzouki. In precedenza (ma facendosi chiamare con il cognome della madre inglese, Huntley) ha capeggiato tali Karelia, artefici di un curioso mix di jazz elettrico, progressive e techno e titolari di un lavoro prodotto da Bid dei Monochrome Set passato del tutto inosservato. Personaggio curioso il nostro uomo: ha frequentato corsi di teologia salvo laurearsi in lettere, è stato chef, barman, autista, saldatore, ha organizzato concerti e serate in discoteca. Oltre che con il complesso summenzionato ha suonato noise con gli Urusei Yatsura e art-punk influenzato dai Fall negli Yummy Fur, piccole celebrità locali dall’organico sempiternamente cangiante dalle cui fila è passato pure Thompson ed è stato così che i due si sono conosciuti. Chi manca? McCarthy, che ha studiato piano classico e contrabbasso jazz ma si adatta a fare il chitarrista. Manca anche un nome. A Franz Ferdinand, erede al trono di Austria-Ungheria il cui assassinio a Sarajevo nel 1914 era stato la scintilla che appiccava l’incendio della Prima Guerra Mondiale, si arriva per tramite di un cavallo, Archduke Ferdinand, che nel 2001 vince il Northumberland Plate, e perché piacciono: 1) l’allitterazione; 2) l’idea che la neonata band possa pure essa, ma in positivo, accendere un bel falò. Da lungi, mica da oggi, scappano sbadiglioni all’affacciarsi al proscenio dell’ennesimo gruppo ingruppabile nel revival post-punk. Ci si è scordati quanto risultasse paradossalmente fresca, all’alba del XXI secolo, l’ondata di band dagli Strokes in giù che si facevano ispirare dalla new wave. Casualmente quanto fortunatamente sintonizzati sullo zeitgeist i nostri eroi non impiegavano che mesi a rimediare un contratto con la londinese Domino, talmente convinta del loro potenziale da investire subito un discreto gruzzolo spedendoli, nel giugno 2003, a registrare il primo album a Malmö con un produttore dal cv chilometrico (fra i tanti Cardigans, New Order, Saint Etienne e Suede) quale Tore Johansson. Un primo assaggio del disco, Darts Of Pleasure, giungeva nei negozi in settembre ed entusiasmava John Peel così tanto da fargliene proclamare gli autori “saviours of rock’n’roll”. Vendeva ciò nonostante modestamente e a lanciare i Franz Ferdinand in orbita in gennaio era Take Me Out, riff micidiale, cambi di passo, una melodia vocale scippata a Howlin’ Wolf, la capacità di lanciare ponti fra generi distantissimi quali blues e disco. E sì, c’è sempre stato un elemento dance nella musica di Alex Kapranos e soci. Numero 3 nella classifica UK e doppio platino, mentre i singoli successivi, la scanzonata quanto energica The Dark Of The Matinée e una Michael da Bowie periodo Ziggy andavano al 7 e al 15.

L’ultima riedizione di “Franz Ferdinand” non è stata rimasterizzata, né (perché aggiustare qualcosa che non è rotto?) lo erano state le precedenti. Non è un’incisione per un audiofili e nondimeno risulta ideale per esaltare un sound estremamente dinamico e ficcante, dalla deflagrazione di basso discendente e batteria pestona in mezzo a una Jacqueline che parte voce e chitarra acustica a una Come On Home dal romantico allo stentoreo, passando per il funk 100% Talking Heads di Tell Her Tonight e This Fire e una Cheating On You sintesi mozzafiato di Wire e Merseybeat. Però capace pure di porgersi delicatissimo, come nella conclusiva 40. Non invecchiato di un giorno invece che di 7.305. Fosse fresco di stampa e non di ristampa avremmo già il migliore album rock del 2024.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.463, aprile 2024.

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Dainamitardi – Quando i Casino Royale cambiarono sport

Ma che davvero? “E di sorpresa abbiamo già trent’anni!”, constatavano stupiti i Casino Royale in Cielo, la formidabile traccia che, aperta dallo scrocchiare di un 78 giri datato 1939 (Pino Liggeri, Passeggiando per Milano), suggellava giocando fra rap e blaxploitation questo disco formidabile in toto ed epocale per loro come per un certo modo ─ allora inaudito ─ di fare musica nel Bel Paese. E di sorpresa “Dainamaita” ha già trent’anni ed è tempo di celebrazioni, fra concerti con sul palco una formazione mista di veterani e nuove leve e una riedizione con artwork ritoccato e che al 33 giri originale unisce un secondo 12” con quattro versioni per facciata rispettivamente della supersoul e contemporaneamente in levare Re senza trono e della più schiettamente reggae Treno per Babilon. Trent’anni e non sentirli, per quanto suona ancora eccezionalmente fresco l’album con il quale il gruppo meneghino inscenava una duplice rivoluzione, passando dall’inglese all’italiano e da uno ska revival (la seconda ondata, dopo quella dei tardi ’70 di Specials e Selecter) del quale facilmente avrebbe potuto consolidare la leadership mondiale sancita nell’89 dall’uscita della raccolta britannica “Ten Golden Guns” a un sound ibrido e dinamitardo come da titolo. Tracce di passato giusto nel vaudeville di Pardo dietro lo specchio e per il resto, dopo l’omaggio a Renato Carosone di Skaravan Petrol, scratching a palla e riffoni hard, slarghi dub, raga bollywoodiani e una ruggente, iperfunk Purple Haze che rimane una delle migliori riletture hendrixiane di sempre e di chiunque.

Di lì a due anni con “Sempre più vicini” i Casino Royale ammorbidiranno qualche spigolo virando downtempo e addirittura si supereranno. Il loro capolavoro, se bisogna indicarne solo uno, è quello. Però era con “Dainamaita” che iniziavano a giocare a un nuovo sport.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.462, marzo 2024.

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Il chitarrista dei chitarristi – Un ricordo di Robert Quine a vent’anni dalla morte

Ho avuto soltanto una volta la fortuna (e non potrò mai sottolineare abbastanza “fortuna”) di vedere suonare Robert Quine e vent’anni dopo non l’ho ancora dimenticato, nonostante non fossero le più propizie le circostanze che mi portarono a incrociarne per un’ora e mezza la vita, da lontano. Il luogo: Torino, il polveroso campo sportivo del Parco Ruffini. L’evento: un concerto di Lou Reed e no, non esattamente la stoffa di cui sono intessute le leggende, benché fosse giusto “Legendary Hearts” l’album che portava in tour Lulù. Ma a parte che il posto era indegno per ospitare un concerto, e l’amplificazione inadeguata, era un Reed in condizioni di salute pessime (credetemi: è molto più in forma oggi che ha passato i sessanta) e mentalmente svagato, assente. Il leader, paradossalmente, la palla al piede di un gruppo formidabile, il più coeso che lo abbia mai accompagnato a parte i Velvet: sezione ritmica con Fernando Saunders al basso e Fred Maher alla batteria e alla solista lui, Quine. E fu Quine a salvare la serata, con quel suo suono inconfondibile tutto stacchi e spigoli, scale da vertigine mutuate dal jazz ma rese con l’economia del punk, spastico e cristallino insieme.

Mi è tornato in mente tutto come se fosse faccenda di ieri il giorno in cui, sfogliando la mia copia di “Mojo” appena prelevata nel solito negozio, mi sono imbattuto nella notizia della morte del migliore chitarrista, a parte forse Tom Verlaine (forse), della generazione del punk, benché Quine appartenesse anagraficamente alla generazione prima. Da sempre uno spostato, già un punk quando il rock era dei figli dei fiori e sartorialmente impeccabile, manco si fosse trattato di frequentare Wall Street piuttosto che il CBGB’s, nell’epoca delle magliette strappate, degli spilloni e delle creste tenute su a gel (lui già calvo), Robert Quine nella sua trentennale carriera ha avuto un solo gruppo vero e furono i Voidoids di Richard Hell, con i quali fu dal ’76 all’82: suo lo strumento che marchia a fuoco uno degli inni di quella tumultuosa era, Blank Generation. Per poi fare il gregario ma che gregario e in che dischi: con Lou Reed, con il Tom Waits di “Rain Dogs” e i Material, a lungo con Lloyd Cole come con Matthew Sweet, con i They Might Be Giants e Brian Eno e in troppi album di John Zorn, a partire dal favoloso “Spillane”, perché sia possibile qui darne conto. Era il chitarrista dei chitarristi (in proprio pubblicò appena due LP e non trascendentali) e della solitudine (colpa anche sua però, di un carattere scorbutico) in cui se n’è andato è tragica testimonianza che il corpo sia stato scoperto il 7 giugno, ma l’esame autoptico abbia indicato nel 31 maggio la data della morte. La causa? Una overdose di eroina. Non è stato però il vizio a portarsi via Robert Quine, tant’è che accanto al cadavere c’era un biglietto di addio, bensì la depressione indotta dalla scomparsa nell’agosto 2003 dell’amatissima compagna, Alice Sherman. Non ce l’ha fatta a lungo a sopravviverle. Lou Reed lo ha ricordato come il gigante che è stato e chissà se ha provato rimorso per il malo modo in cui si lasciarono, pochissimo dopo quella notte in cui li vidi dividere un palco. Ma del chitarrista l’ex-Velvet ha in ogni caso negli anni sempre parlato con reverenza. Recuperate il sottovalutato “The Blue Mask”, del 1982, immergetevi nel maelstrom di corde di Waves Of Fear e intenderete le ragioni di tanta ammirazione.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.592, 21 settembre 2004.

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Jane Weaver – Love In Constant Spectacle (Fire)

Sempre riconoscibile e tuttavia diversa, capace a ogni uscita di integrare un canone policromo o quantomeno di riformularlo in modi inediti, Jane Weaver. Caratteristica di per sé degna di apprezzamento per un’artista in giro dai primi ’90 e però non la più notevole, che è che nel suo folto catalogo si rinviene sì qualche articolo meno convincente ma nessuno che sia davvero sottotono e trascurabile e questo a partire dalla manciata di singoli che pubblicava con i Kill Laura fra il ’92 e il ’97, epoca aurea del Britpop nel cui filone costoro si inserivano. Laddove con il gruppo successivo, Misty Dixon, che capeggiava nel mentre in parallelo già avviava la sua carriera da solista, la allora ragazza si muoveva in tutt’altro ambito, svoltando in direzione folktronica. E insomma sin da inizio secolo della Weaver era chiaro il suo essere nel contempo quintessenzialmente inglese e aperta a influenze continentali, dal krautrock alla canzone francese, alle colonne sonore italiane e questo senza trascurare influssi di Americana né interdirsi esperimenti con la ambient né deviazioni ai limiti dell’hardelico.

Da dove potrebbe iniziare il lettore che non la conosce? In forza della canzone che lo battezza ed è un capolavoro totale di psichedelia pop il suo album più consigliabile resta forse “Modern Kosmology”, del 2017. Ma se non vanta un brano di paragonabile impatto “Love In Constant Spectacle” risulta un al pari valido compendio di un mondo nel quale convivono felicemente le chitarre jangle e la ritmica motoristica dell’iniziale Perfect Storm e il downtempo sfregiato dal fuzz di Emotional Components, il folk favolistico di Motif, il synth-pop Romantic Worlds o una Univers in bilico fra il liturgico e il seducente.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.463, aprile 2024.

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Sean Ono Lennon – Asterisms (Tzadik)

Diciassette anni e otto mesi separavano il primo LP dei Beatles, “Please Please Me”, da quel “Double Fantasy” con cui senza saperlo John Lennon si congedava dal mondo, dalla moglie Yoko Ono, dal loro bimbo fresco di quinto compleanno Sean. E sapete quanto ha posto costui fra il secondo lavoro da solista e questo che può esserne considerato il successore vero, essendo gli altri dischi usciti nel frattempo a suo nome delle colonne sonore? Diciassette anni e cinque mesi! Messa in tal modo parrebbe che il Nostro sia uno che, potendoselo permettere, fa il musicista per hobby. Non è così. Anzi. Se non si può dirlo uno stakanovista vanta un cv discretamente cospicuo, in linea con i quarantotto anni che ha (il papà gli veniva strappato quarantenne) e fitto di produzioni e collaborazioni, fra le quali spiccano due progetti a due chiamati The Ghost Of A Saber Tooth Tiger (in coppia con la compagna Charlotte Kemp Muhl) e Claypool Lennon Delirium (con Les Claypool, bassista dei Primus). Per non parlare di quegli IMA con i quali accompagnava mamma in studio e dal vivo ma non hanno di loro pubblicato alcunché.

A chiarire quanto sia eclettico e curioso bastano in ogni caso i tre album con la sua identità anagrafica: se nel 1998 “Into The Sun” si disimpegnava fra indie rock e bossanova e nel 2006 “Friendly Fire” optava per un chamber pop eminentemente pianistico, ed erano entrambi raccolte di canzoni, “Asterisms” è solo strumentale e parte (prime due delle cinque tracce che sfilano in trentasette minuti) come il disco che avrebbero potuto realizzare dei Radiohead in fissa con “Bitches Brew” e disposti a rinunciare alla voce. Per poi evolversi fusion nel senso nobile del termine e infine approdare a una Heliopause devota sin dal titolo a Sun Ra.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.463, aprile 2024.

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Audio Review n.464

È in edicola da metà settimana il numero di maggio di “Audio Review”. Ho contribuito con una mezza dozzina di recensioni e una pagina e un terzo delle consuete due che la rivista dedica alla ristampe solo in vinile.

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Jah Live – Bob Marley a quarantatré anni dalla morte

In “Exodus”, che esce nel giugno 1977 ed è considerato l’apice della parabola artistica marleyana da quasi tutti quelli che non ritengono che quell’apice sia “Natty Dread”, il tema dell’esilio è presente sin dal titolo, argomento che fa capolino qui e là ed è centrale a una traccia omonima che chiude la prima facciata con toni spiazzantemente esultanti in luogo che dolenti, funkeggiando a rotta di collo e  sarà il primo brano del Nostro a venire massicciamente programmato dalle radio nere americane. Il lato A opta per l’impegno, dipanandosi prima della giubilante chiusura di cui sopra fra il lento skankeggiare di Natural Mystic e la melodia lieve ma ficcante di So Much Things To Say, la collisione di chitarre riverberate e fiati schizzati di Guiltiness e l’ondeggiante ipnosi di The Heathen, appesa al muro e al cielo da un assolo da manuale del nuovo chitarrista Junior Marvin: un piccolo Hendrix. Cambi facciata e il combattente, il polemista cede il passo al seduttore. Che si scatena nel ballo durante la festa di Jamming, si fa suadentissimo con Waiting In Vain e presumibilmente cattura la preda con la ballatona da Marvin Gaye datosi al country-blues Turn Your Lights Down Low. Per poi festeggiare tenerissimo (sono già arrivati i bambini?) con la filastrocca favolistica di Three Little Birds e fare universale quel sentimento privatissimo che è l’amore con una impossibilmente gioiosa One Love, che dopo dodici anni di ininterrotta permanenza in repertorio riconosce infine e ufficialmente il debito nei confronti della People Get Ready di Curtis Mayfield.

All’epoca, di “Kaya” (pubblicato nel marzo 1978 e numero 4 in Gran Bretagna migliorando di quattro posizioni il piazzamento del predecessore) si parlò come di un lavoro deludente e compromissorio, ricercatamente commerciale, una sensibile involuzione rispetto a “Exodus”. Capita ancora di leggerne in questi termini e ogni volta rido agro. Ma di quale involuzione si ciancia quando il disco è figlio di quelle stesse sedute (la scelta più logica sarebbe stata approntare un doppio) che avevano fruttato l’album prima? Giustamente acclamato come un capolavoro, ove altrettanto routinariamente “Kaya” viene detto un mezzo passo falso irredento dalla presenza del micidiale funky reggae party di Is This Love. È tempo di rivalutarlo e tanto. In particolare per una prima facciata ideale estensione, tolta la drammatica parentesi di Sun Is Shining, della seconda di “Exodus”, solo che qui prima di celebrare l’amore per la donna si celebra ─ Easy Skanking, la traccia omonima ─ quello per la ganja. Varrà la pena ricordarlo: per i rasta non una droga ma un sacramento. E del secondo lato vorrei citare almeno una gigiona e aromatizzata errebì Running Away e una Time Will Tell in cui torna il gusto dello spiritual. È ora di farla finita di scrivere scempiaggini su “Kaya” e visto che ci siamo pure sul doppio dal vivo (dicembre sempre ’78) “Babylon By Bus”: elefantiaco e troppo patinato e troppo rock, troppo questo e quello e blah blah blah. Ove per ogni chitarra in assolo sopra le righe c’è uno slargo dub (si ascolti la seconda metà di Exodus), per ogni successo un arrangiamento inedito e non di soli successi è fatto il cartellone.

Il seppure obbligato soggiorno londinese sarebbe in fondo felice per Marley, che lontano dalle tensioni giamaicane può rilassarsi, scrivere alcune delle sue canzoni più memorabili, dedicarsi più che mai al calcio nel tempo libero e in quello che avanza ancora alla più importante delle tante tresche extraconiugali, un torrido affaire con Cindy Breakspeare, Miss Mondo 1976 e non aggiungo altro. Sarebbe felice, non fosse per il dettaglio di una ferita a un piede che il Nostro si è procurato proprio giocando a pallone e non vuole saperne di guarire. Il 7/7/1977, data infausta che nella cosmologia rastafari è fortemente indiziata come quella del principio della fine del mondo, si fa visitare a Londra e il verdetto è preoccupante. C’è il serio rischio che si sviluppi un tumore e per scongiurarlo i medici consigliano l’amputazione dell’alluce. Marley è riluttante, anche per via dei precetti religiosi che osserva, a sottoporsi all’operazione. Non senza un secondo consulto. Il chirurgo che lo esamina a Miami sentenzia che basterà un trapianto di cute. Il suo destino è segnato.

Sono due ultimi LP le pietre miliari sulla strada che lo condurrà alla morte l’11 maggio dell’81. “Survival” (ottobre 1979) è il disco in cui si recupera l’impegno politico, in una chiave di panafricanismo spinto esplicitata sin da una copertina in cui sono riprodotte le bandiere degli stati del Continente Nero, tutti eccettuati quelli sotto il tallone di regimi coloniali o razzisti. Vi sfilano principalmente canzoni di lotta, da un’esuberante Zimbabwe a una corale Africa Unite, da una marziale Babylon System a una perentoria Wake Up And Live, ed è una parentesi la giocosamente autoreferenziale (un’ode al reggae stesso) One Drop. Se “Uprising” (giugno 1980) è un altro mezzo capolavoro, e non il congedo dimesso che rischiò di essere, lo dobbiamo a Chris Blackwell e pure di questo non potremo mai ringraziarlo abbastanza. Quando ne ascolta i nastri il capoccia della Island apprezza la malinconica ma pure scherzosa Pimper’s Paradise e la zuccherosamente innodica Forever Loving Jah, e ovviamente la disco in levare di Could You Be Loved che ha sopra tatuata in caratteri cubitali la parola “hit”, ma osserva che all’album manca qualcosa. Marley non replica, sorride e basta. Il giorno dopo torna in studio con Coming In From The Cold e Redemption Song. Ma sono anche tre concerti a farsi tappe verso l’ineluttabile.

Il 22 aprile 1978 i Wailers sono a Kingston, di nuovo, per “One Love Peace”, festival stavolta bi-partisan che auspica che nel dibattito politico nell’isola si torni a usare la forza del ragionamento e si metta da parte quella delle armi. Il colpo di scena si ha sulle note di Jamming, quando un Marley come in trance convoca sul palco gli acerrimi rivali Edward Seaga e Michael Manley e fa sì che si stringano la mano, prodigio fino a quel giorno pronosticato come appena più probabile della pace fra israeliani e palestinesi. Il 18 aprile 1980 è un’esibizione di Bob Marley & The Wailers a celebrare di fronte a una folla oceanica, nella capitale Harare, la caduta del regime razzista rhodesiano e con essa la nascita dello Zimbabwe. Il sipario cala nella già più volte menzionata Pittsburgh il successivo 23 settembre. Due giorni prima Marley ha avuto un malore a New York, mentre faceva jogging in Central Park. Il giorno prima gli hanno detto che ha un tumore al cervello e gli restano tre settimane di vita. Resisterà invece otto mesi, benché metastasi gli vengano poi trovate pure nel fegato e nei polmoni.

L’ultima foto lo coglie in una clinica bavarese il 31 marzo 1981 e, a vederlo magro come un internato in un lager e spaurito come un bambino, ti sale un groppo in gola. Ma poi ne scruti meglio lo sguardo e lo scopri così sereno che ti pare impossibile che quest’uomo sia morto. Non può morire uno come Bob Marley e difatti ventisei anni dopo è ancora fra noi: Jah live.

Tratto da Le canzoni di libertà e redenzione di Bob Marley. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.25, primavera 2007. Ristampato in Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune.

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Una guida a Prince in dieci album

Oltre che prematura straordinariamente intempestiva (il che aggiungeva tragedia a tragedia) l’uscita di scena di Prince il 21 aprile 2016. Se ne andava al punto più basso di una parabola artistica a quel punto già quasi quarantennale e non sapremo dunque mai se sarebbe stato capace o meno di invertire una curva discendente da quasi dieci anni. Ci resta a consolazione un lascito imponente per quantità e con eccezionali apici qualitativi. Ne ho scelti dieci. Qui.

https://hvsr.net/post/2024/prince-for-dummies

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