È in edicola dalla scorsa settimana il nuovo numero di “Audio Review”. Ho contribuito con recensioni degli ultimi album di Gina Birch, Church, H.Hawkline, Kelela, Steve Mason, New Pornographers, Orbital, Reds Pinks & Purples, Sleaford Mods, Temples, Unknown Mortal Orchestra. U.S. Girls, Xiu Xiu e Young Fathers e di ristampe di John Lee Kooker e Mogwai. Nella rubrica del vinile ho scritto di Bob Marley.
Basta ritornelli tristi, No More Sad Refrains, cantava nel 1977 Sandy Denny (un blues, ovviamente) in “Rendezvous”, non sapendo che era un congedo. Sarebbe morta un anno dopo. Vivono i suoi dischi, quelli solistici appena ristampati con cospicue aggiunte.
Non era un anniversario di quelli che si prestano a celebrazioni, ventisette allo scorso 21 aprile gli anni trascorsi dacché Alexandra Elene MacLean Denny non è più di questa terra, cinque meno di quelli che passò fra noi, e non era dunque come nel 1998 quando della dipartita ricorreva il ventennale. Quella stessa Island che nel 1978 le aveva chiuso la porta in faccia, negandole un rinnovo di contratto, la ricordava con “Gold Dust”, commovente testimonianza dell’ultimo concerto, il 27 novembre ’77, pregevole a dispetto di una scaletta un po’ così. Ma da allora di colei di cui l’amico Marc Ellington disse che “poteva fare sembrare Janis Joplin, al confronto, una specie di Madre Teresa” non si è più smesso di parlare. Occasioni propizie le riedizioni allargate del catalogo dei Fairport Convention “storici”, e dunque anche dei quattro album con Sandy in squadra, e quindi, nel 2004, la pubblicazione del monumentale “A Boxful Of Treasures”, quintuplo con registrazioni live, demo e altre rarità che della ragazza offre un formidabile ritratto d’artista alternativo – o per meglio dire integrativo – rispetto a quello più noto. In un certo qual senso, si può però affermare che pure il ritorno nei negozi, con scalette significativamente allargate, di “The North Star Grassman And The Ravens”, “Sandy”, “Like An Old Fashioned Waltz” e “Rendezvous” faccia sì che della Denny si precisino meglio i contorni: non solo una rinnovatrice dell’idioma folk in terra di Albione, tant’è che negli ultimi due di folk quasi non ce n’è. E se resta indiscutibile che sia questa una Sandy Denny “minore”, se raffrontata a quella delle prove di gruppo, nondimeno così minore non fu e insomma qui ci sono le prove.
Ai Fairport enormi dei primi quattro LP e in particolare del secondo, terzo e quarto, pubblicati in un 1969 tragico e magico insieme, ho dedicato due pagine due anni e due mesi fa (n. 525, 18 marzo 2003) e a quell’articolo rimando. Qui riparto da lì, da “Liege & Lief”, “equivalente inglese di ‘Music From Big Pink’ della Band” all’indomani della cui pubblicazione Sandy lasciava, cogliendo tutti di sorpresa anche per i modi. Semplicemente, non si presentava all’imbarco del volo che avrebbe dovuto portarla a Copenhagen per un concerto. Sarebbe stata fatta salire a forza sul successivo, ubriaca, ma il divorzio era ormai consumato. Il più grande amico all’interno del gruppo, il chitarrista Richard Thompson, la prese con filosofia – “Forse è un bene. Le donne sono spesso umorali e chissà che non sia meglio avere una formazione tutta maschile.” – ma a posteriori pare evidente che i Fairport Convention unici e cruciali siano stati esclusivamente quelli con la Denny, gli altri al più un gruppo buono, anche ottimo, ma non speciale. Beffardo con loro il destino, siccome era quanto qualche mese prima aveva probabilmente salvato la vita alla cantante ad allontanarla. Ricorderà il lettore l’incidente automobilistico nel quale, il 12 maggio 1969, perivano il batterista Martin Lamble e la compagna di Thompson, Jeannie Franklyn. Sul furgone che portava il complesso a casa dopo uno spettacolo a Birmingham, Sandy avrebbe dovuto sedere dove era seduta costei, non fosse che aveva preferito viaggiare con il suo bello, Trevor Lucas, imponente australiano dalla dirompente personalità e all’epoca chitarrista degli Eclection. Ed era giusto la voglia di stare vicino a Lucas a spingere Sandy Denny – donna in apparenza forte, solare, e nell’intimo fragilissima: come Janis – a indurla ad abbandonare i Fairport. Era stata con loro diciotto mesi appena ed era bastato per inventare una via britannica al folk-rock.
Prosegue per altre 4.154 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.610, maggio 2005. Ricorre oggi il quarantacinquesimo anniversario della scomparsa dell’artista.
Secondo la definizione che ne dà il Cambridge Dictionary dicasi one-hit wonder “un esecutore di musica popolare con un’incisione di successo che resta isolata”. Non per forza un numero uno e in una lista da lungi sfortunatamente non aggiornata (arriva al 2008) rintracciabile in Rete dei “100 Greatest One Hit Wonders” figurano ad esempio i Devo, la cui Whip It arrestò la sua ascesa nella classifica dei singoli di “Billboard” al quattordicesimo posto. È un elenco tanto spassoso da scorrere ─ a nomi che durarono tre minuti se ne alternano altri di livello e con cataloghi corposi, a brani tremendi che solo nostalgia o gusto per il kitsch possono far salvare canzoni strepitose (il divertimento sta naturalmente nel contare quanti di questi pezzi si ricordano e di quanti non si serba memoria) ─ quanto lacunosa. Una ragione per l’assenza di Runaway Train, l’unica canzone dei Soul Asylum che chiunque riconosce al volo, tecnicamente potrebbe però esserci. Se nemmeno quella andò al numero uno USA, visto che si fermò al 5, raggiunto in piena estate del 1993 e dunque a quasi un anno dalla pubblicazione dell’album che la contiene, nel ’95 il gruppo capitanato da Dave Pirner vedeva Misery, primo singolo tratto dal disco seguente, entrare occupando l’ultima posizione utile nei Top 20. Meraviglia da due hit allora la terza band di Minneapolis (la città che ci ha regalato Prince) conosciuta da quelli che sanno citarne subito due: Hüsker Dü e Replacements. Fatto è che, nonostante siano ancora in attività (il più recente lavoro in studio è del 2020), i Soul Asylum sono i grandi rimossi della storia di quello che negli ’80 veniva chiamato college rock e dal boom del grunge in poi viene detto “alternative”. Mica giusto.
È il 1981 quando Dan Murphy, Karl Mueller e Dave Pirner si trovano per la prima volta a provare insieme. Se la padronanza degli strumenti, rispettivamente chitarra, basso e batteria con Dan e Dave ad alternarsi alla voce, è ancora parecchio approssimativa hanno in compenso riguardo a cosa e come suonare idee chiarissime, esplicitate sin dalla ragione sociale adottata: Loud Fast Rules. A portata di mano e orecchio i modelli cui rifarsi, che sono i summenzionati Hüsker Du, che da un paio di anni animano la scena locale più sotterranea e hanno da poco dato alle stampe un 7”, e Replacements, che bruciando le tappe già hanno debuttato a 33 giri. È Bob Mould, chitarrista dei primi, a fare esordire discograficamente il giovanissimo trio l’anno dopo, con due brani inseriti nella raccolta di artisti vari (su Reflex, sua etichetta personale, e solamente in cassetta) “Barefoot & Pregnant”, ospitando l’anno ancora dopo su una seconda antologia ma dal vivo, “Kitten”, altri materiali loro ma a nome Proud Class Fools. A proposito di nome: diventano Soul Asylum quando diventano quattro, con Pirner che si sposta alla chitarra ritmica e contemporaneamente diventa la voce solista e tal Pat Morley (presto lo rileverà Grant Young) che ne prende il posto dietro piatti e tamburi. È la Twin/Tone, nata nel 1977 e una delle più solide realtà indie nordamericane, a metterli sotto contratto, Mould a firmare la produzione nell’84 del debutto “Say What You Will…” e da lì a due anni di “Made To Be Broken”, mentre a curare la regia di “While You Were Out”, che esce anch’esso nell’86, è Chris Osgood. Sono prove ancora acerbe ma una più persuasiva dell’altra, tappe di apprendistato nel percorso da un punk troppo sgangherato per potere essere hardcore più che nell’attitudine a un heavy rock che non viene mai da dire metal, senza una sbrodolatura né un filo di retorica e generoso di riff e ganci melodici parimenti memorabili. Che ci sia del potenziale commerciale è sempre più evidente. Si fa avanti la A&M, che non avrà abbastanza pazienza e molto avrà a rimpiangerlo. Prodotto congiuntamente da Lenny Kaye e Ed Stasium e datato 1988, “Hang Time” è l’album della maturità per il quartetto, forza d’urto pari ai predecessori ma ben più sofisticato. Più o meno d’accordo tutti oggi nel considerarlo il capolavoro del gruppo, non soltanto i cultori della prim’ora che, da bravi snob, se ne sentiranno espropriati dal successo di “Grave Dancers Union”. Tutti d’accordo pure nel ritenere “And The Horse They Rode In On”, del ’90, danneggiato da una registrazione (Steve Jordan e Joe Blaney i responsabili) incapace di riprodurre (e dire che è fondamentalmente un live in studio) l’impatto travolgente di concerti a quel punto ammantati di leggenda. Sia come sia: a fronte di vendite modestissime (nemmeno si entra nei Top 200) e non facendo le buone recensioni fatturato, i Soul Asylum vengono, per così dire, lasciati liberi di accasarsi altrove. Dev’essere giusto un’intuizione felice, la percezione che i tempi stanno cambiando e l’underground è pronto a prendersi il mainstream, come accadrà a cavallo fra il ’91 e il ’92 principalmente grazie a “Nevermind”, a indurre un’altra multinazionale, la Columbia, nientemeno, a offrire un’ultima possibilità ai Soul Asylum. Preceduto di cinque mesi dal riffarama Hüskers di Something To Shove, “Grave Dancers Union” arriva nei negozi nell’ottobre 1992 e non fa chissà quali numeri fintanto che come terzo singolo (a uscire come secondo è la ballata con elementi di jingle jangle e psichedelia Black Gold) non ne viene estratta Runaway Train. Scintillante e struggente con un retrogusto country, accompagnata da un video più che da Grammy, che pure vincerà, da Nobel o Pulitzer (vi appaiono nomi e foto di una quantità di ragazzini scomparsi; tanti verranno così rintracciati, di diversi tragicamente i corpi) viene trasmessa a spron battuto da MTV e moltiplica esponenzialmente le vendite dell’album.
Un torto ha, Runaway Train. Che mette in ombra il resto di un programma variegato e brillante, con vertici rimarchevoli nella power ballad Homesick, nel valzer New World, nella sabbathiana April Fool, nel popcore Growing Into You. L’album, le cui copie d’epoca in vinile costicchiano, è stato oggetto negli scorsi mesi di due riedizioni per il trentennale. Quella europea su Music On Vinyl è fedele alla scaletta originale, quella americana su Columbia la raddoppia aggiungendo un LP di outtake, cover e incisioni live.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.449, gennaio 2023.
Ovvero: come fu che un dopolavoro – che poi in realtà era un “prima del lavoro” – si trasformò in una cosa più seria del lavoro stesso.
Dapprincipio non c’era nessun motivo per scrivere un articolo sugli Hot Tuna, se non che Stefano Isidoro aveva delle pagine da riempire in questo “Juke Box all’idrogeno”, mi ha chiesto se avevo voglia e qualche idea al riguardo e io gli ho risposto “mah… sì… boh…”. E lui: perché non fare una cosa sugli Hot Tuna, che erano una gran bella formazione oggi sconosciuta a tutti, eccetto a qualche reduce? Mi è sembrata un’ottima ragione, benché non mi senta ancora reduce e per certo Stefano Isidoro meno di me. Allora ho tirato fuori i dischi dagli scaffali e, mentre tornavano a girare sullo stereo a forse tre lustri dall’ultima volta a parte “Quah”, che è un album per il quale ho sempre avuto un affetto speciale ma non appartiene al gruppo bensì è l’esordio in proprio di Jorma, ho cercato il nome “Hot Tuna” nell’archivio in cui ho catalogato le riviste straniere comprate dal ’78 a oggi. Sconcertato, ho scoperto di non avere in casa nemmeno un articolo sulla seconda più nota, in realtà terza ma prima, avventura in comune di Jorma Kaukonen e Jack Casady. Persino un’indagine su Internet, dove un delirio apologetico non si nega né a un cane né a un porco, ha sortito risultati deludenti. Mi sono sembrate altre due ottime ragioni per scrivere qualcosa su di loro, vendicando nel mio piccolo lo scandalo di un progetto così poco considerato. E poi ho improvvisamente realizzato che sono esattamente trentacinque anni che questa storia è cominciata, bel numero che può essere detto tondo, come gli Hot Tuna quando suonavano acustici, o spigoloso, come quando accendevano gli amplificatori. Ed eccoci qua.
“All’epoca non ero interessato al rock, a malapena tolleravo i Rolling Stones. Piuttosto, alle musiche etniche in generale e alla tradizione nordamericana in particolare.”
Così Jorma Ludwik Kaukonen Jr., sessantaquattro anni il prossimo 23 dicembre, in una rara intervista concessa per il venticinquennale degli Hot Tuna ricordava di come fu con qualche perplessità che, nella primavera 1965, accettò l’invito del cantante e chitarrista Paul Kantner a unirsi a un complesso ancora senza nome che il cantante Marty Balin aveva appena messo in piedi, con tre carneadi che si defileranno presto, con l’intento minimo quanto squisitamente commerciale di fornire una colonna sonora alla serata di inaugurazione di un club, il Matrix, acquistato in quel di San Francisco. Era proprio Jorma – originario di Washington DC ma proveniente dal Texas dove aveva spesso accompagnato una sconosciuta cantante, una certa Janis Joplin – a battezzare il neonato combo, accorciando il nome di un bluesman immaginario, tal Blind Thomas Jefferson Airplane, creato dalla sua fantasia. Non mi diffonderò troppo su una vicenda oltretutto universalmente nota, se non per raccontare come vi venne coinvolto il suo concittadino John William Casady, detto Jack e sessantenne lo scorso 13 aprile, e di come quattro anni più tardi insieme i due daranno vita agli Hot Tuna per poi, trascorsi altri tre anni, staccarsi definitivamente dall’Aeroplano che stava per farsi Astronave. Per Jorma e Jack, i Jefferson Airplane non furono il primo gruppo condiviso. Imberbi (il secondo appena quindicenne) erano stati nei Triumphs, complessino nemmeno troppo amatoriale se è vero come è vero che arrivò a pubblicare un singolo: rock’n’roll, che non era per l’appunto l’amore né dell’uno né dell’altro, cresciuti consumando i dischi dell’estesa collezione di blues di un fratello maggiore del secondo, avido collezionista. E il primo arrivava dal bluegrass. Archiviata una storia non esattamente trionfale, a dispetto dell’ottimistico nome con il quale la si era siglata, Jorma si perfezionava all’università del blues cominciando giusto nel fatidico 1959 a studiare la tecnica del fingerpicking. Frequentando l’Antioch College conosceva John Hammond, un altro bianco per caso irrimediabilmente traviato dalla musica del diavolo, e Ian Buchanan, incontro prezioso perché, non potendosi permettere le lezioni dell’idolatrato Reverendo Gary Davis, il giovanotto poteva almeno apprenderle di seconda mano da uno che ne era stato allievo. Era così che imparava tutti i brani che finiranno nel 1970 nello splendido debutto degli Hot Tuna e tuttora si cruccia di non avere avuto la presenza di spirito di dedicare quel 33 giri al maestro. Ancora in un’istituzione scolastica ma domiciliata sulla Costa opposta, la University Of Santa Clara, conosceva Paul Kantner e sarebbe stato incontro, come abbiamo visto, pure più decisivo. Nel frattempo, rimasto nell’area di Washington, l’amico Jack dalla chitarra passava al basso, diventando presto bravo a sufficienza da accompagnare Ray Charles. Suonerà sempre il basso un po’ come una solista (abilità non granché gradita dal batterista dei Jefferson, Spencer Dryden, non contento di doversi caricare sulle spalle per intero il peso della ritmica) e per questo sarà strumentista apprezzato quanto il chitarrista Jorma, fors’anche più peculiare. Ai Jefferson Airplane serviva un bassista, Kaukonen consigliava Casady, il resto è Storia.
È mai esistita una band più “di culto” dei Magma? Questione non solo di numeri, per quanto siano sempre stati modesti tolto il quinquennio inaugurato dalla pubblicazione dell’album, che era il terzo in studio e vedeva la luce nel 1973, riguardo al quale fra gli esegeti si registra una quasi unanimità di consensi: il loro capolavoro. È che il gruppo fondato nel 1969 dal batterista Christian Vander e tuttora attivo (conta poco con quale formazione incida o suoni dal vivo, essendo passati da quelle parti nei decenni e sin dall’inizio della sua storia musicisti a decine; se ci sono Christian e la ex-moglie Stella sono i Magma: punto) non soltanto si inventò un mondo alternativo, in questo simile a illustri alieni afroamericani quali Sun Ra e George Clinton, ma addirittura creò una lingua sua propria (da cui l’unicità) per raccontare le vicende là ambientate. Ed è immaginabile culto più devoto di quello i cui adepti studiandone i testi ─ impenetrabili e nondimeno puntualmente riportati nelle confezioni dei dischi ─ sono riusciti a ricostruire una grammatica, un vocabolario? E questo benché Vander, che dice il linguaggio kobaïano “puramente fonetico, con assonanze con vari idiomi slavi e germanici” ammonisca che, sebbene sia costruzione dotata di senso e regole, risulta non traducibile “parola per parola”. Tant’è.
Dal lontano 2003 sono fra i responsabili di questa rubrica e forse mai lo spazio pur ampio di un’intera pagina mi era parso così insufficiente allo scopo che si prefigge, che è quello di tracciare per tramite di uno o più LP da poco riediti un ritratto bastantemente preciso dell’opera di un solista o una band, idealmente istigando il lettore a non fermarsi a quello o a quegli. Devo correre. Ci provo. Nato a Parigi il 21 febbraio 1948, Christian Vander è figlio d’arte ma adottivo e ad adottarlo è stato Maurice Vanderschueren, pianista jazz di gran livello e fama. È un padre giovanissimo (è del 1929), radici ben salde nella tradizione del genere (ha suonato con Djiango Reinhardt) ma svelto ad abbracciare il bebop e le sue evoluzioni (si ritrovava così a fiancheggiare Kenny Clarke e Johnny Griffin) a trasmettere al ragazzo la passione per la musica. Christian come strumento non sceglie però né quello paterno né il sax dell’idolo John Coltrane e non è jazz bensì rhythm’n’blues lo stile che pratica con i primi complessini amatoriali. Lo affascinano poi sia la musica classica che un rock che si va facendo adulto proprio nel mentre pure lui entra nella maggiore età. A giudicare dalla ragione sociale del primo gruppo serio cui dà vita ─ Uniweria Zekt Magma Composedra Arguezdra: per fortuna quasi subito abbreviata come sapete ─ probabile abbia già in testa l’idea meravigliosa di una musica che superi in audacia la psichedelia dominante e il progressive incombente, fondendoli e nel contempo infondendovi elementi sia di jazz che della tradizione colta (né gli è estranea una certa temperie avanguardistica) europea. I tempi sono quelli che sono: aperti. La Philips ingaggia Vander e sodali per due album e quando a fronte di vendite insoddisfacenti non rinnoverà il contratto il dipartimento francese della Vertigo provvederà prontamente a rilevarlo. In “Magma” (1970) e “1001° centigrades” (’71), il nostro uomo comincia a narrare la saga che ha portato ai giorni nostri di un gruppo di terrestri che, in fuga da un pianeta reso invivibile da una catastrofe ecologica, ne scopre e raggiunge uno abitabile ma disabitato in una lontana galassia. Il novello eden non sarà più tale quando, generazioni dopo, altri coloni atterreranno su Kobaïa e fatalmente fra loro e i discendenti dei primi incomprensioni e contrasti sfoceranno presto in guerra aperta, siccome il sostantivo “paradiso” e l’aggettivo “terrestre” giusto nella Bibbia possono stare insieme e per qualche pagina appena prima che finisca male. Sono dischi di freschezza e spessore apprezzabili ma non originalissimi, in particolare un debutto di derivazione zappiana laddove il seguito se nella seconda facciata si limita a echeggiare i coevi Soft Machine jazz-rock nella prima adombra invece la rivoluzione che incombe con bruschi cambi di tempo e una densità strumentale inaudita. È qui che inizia a prendere forma un canone di cui qualcuno darà molto dopo una definizione geniale quanto, al suo meglio, il peculiarissimo sound della band: brutal prog. In negativo: c’è già l’enfasi tipica dei Magma, non ancora la fluidità. In positivo: in spartiti notevolmente complicati, nemmeno un sospetto di virtuosismo fine a se stesso. Da lì a due anni “Mekanïk Destruktïẁ Kommandöh” rappresenterà salto quantico, con le sue sette tracce che sfumano una nell’altra con afflato nel contempo liturgico in forza di un onnipresente coro chiaramente devozionale ─ il modello non potrebbe essere più lontano dal gospel: il Carl Orff dei Carmina Burana ─ e wagneriano. Si può provare a descriverlo con un ossimoro: un muro di suono in moto perpetuo, sospinto da un motore i cui ingranaggi sono costituiti da fanfare di ottoni e una ritmica implacabile, voci dal solenne al guizzante e chitarre scintillanti, pianoforti in loop e punteggiature e lamate d’organo, fra saliscendi vertiginosi, intrecci foschi di bordoni e brevi (r)accordi estatici. Da simili apici olimpicamente ultramondani non si potrà che scendere ma lo si farà con intelligenza, avendo inteso come replicare tale e quale sarebbe non soltanto impossibile ma insensato. Nemmeno nel successivo (1974; a separare i due dischi la colonna sonora “Ẁurdah Ïtah”, formalmente debutto da solista del leader) “Köhntarkösz” si proverà a offrire copia conforme, conservando l’effetto da trance ma smussando gli spigoli e alleggerendo le atmosfere.
Quasi in contemporanea con l’uscita di questo numero di “AR” l’olandese Music On Vinyl riporterà nei negozi proprio “Köhntarkösz”. La stessa etichetta ha già provveduto in febbraio a rimettere in circolazione il predecessore in una tiratura limitata a duemila copie numerate con copertina apribile e rifinita in lamina di rame. Buona cosa che non per questo il prezzo sia esoso, anzi. Pessima che pure il vinile sia colorato, moda deleteria cui pure i marchi più seri si stanno sciaguratamente piegando.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.442, maggio 2022.
Dagli Swans gli Young Gods prendono il nome e il batterista Roli Mosimann, svizzero come loro e che con loro si ricicla da produttore, diventando di fatto il quarto componente di quello che viene da chiamare un power trio benché strumentalmente sia un duo. È tuttavia talmente dirompente la presenza scenica del cantante Franz Treichler e creano un tale muro di suono Cesare Pizzi al campionatore e Frank Bagnoud alle percussioni che sì, ai Giovani Dei la qualifica suddetta ben si attaglia. Sembrano anzi per il frastuono che producono ben più di tre. Crescita ed evoluzione del gruppo sono rapide. Se nell’omonimo esordio dell’87 l’influenza degli Swans è ancora palpabile, nell’89 in “L’eau rouge” l’idea di coniugare la visceralità di punk e metal con il senso di grandiosità e l’incisività melodica della classica è già perfettamente a fuoco. L’anno dopo “Play Kurt Weil” esibisce il lirismo e la raffinatezza che non ti attenderesti da quelli che la stampa (in Gran Bretagna e negli USA i Nostri hanno trovato orecchie aperte e accoglienze entusiastiche) ha etichettato “electro-noise terrorists”.
Formazione a quel punto quasi completamente cambiata, con Alain Monod a tastiere e synth e Urs Hiestand alla batteria alle spalle di chi, spesso paragonato a Iggy Pop, è ora ritenuto un nuovo Jim Morrison, da lì ad ancora un anno gli Young Gods confezionano con “T.V. Sky” il loro capolavoro e un esempio senza eguali di metal moderno, capace di tenere assieme ZZ Top e Doors, Stooges e Guns N’Roses. Senza usare nemmeno una chitarra! Questa riedizione per il trentennale aggiunge al CD quattro remix e integra ulteriormente il doppio LP con quattro incisioni dal vivo di quella che nei mesi in cui portò in tour il disco fu la migliore live band al mondo.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.450, febbraio 2023.
Gruppo per quasi venti peraltro splendidi anni piuttosto prevedibile gli scozzesi Belle And Sebastian, sin dacché “Tigermilk” nel 1996 delineava un canone di istantanea riconoscibilità. Elementi fondanti i Love di “Forever Changes” e i Velvet del terzo LP, Byrds, Smiths e Go-Betweens, Nick Drake, certa Motown, la Sarah. Naturalmente quella Postcard che tre lustri prima si era scelta negli anni ’60 gli stessi numi tutelari. Era la quintessenza del pop da cameretta e a fare la differenza era la qualità della scrittura: stellare. Sempre. E importava poco allora o nulla che i dischi si somigliassero un po’ tutti. Un’unica volta, ed era il 2002, i nostri eroi erano usciti dal seminato ma non faceva testo, siccome “Storytelling” nasceva come colonna sonora. Tutto ciò fino al 2015, quando “Girls In Peacetime Want To Dance” spiazzava muovendosi in massima parte fra, appunto, dance e new wave e sistemando giusto in apertura e chiusura quei due o tre brani che si sarebbero potuti confondere negli album prima. Mossa coraggiosa, disco divertente ma non granché a fuoco, un filo irrisolto.
Non contando “Days Of The Bagnold Summer” (un’altra colonna sonora), “A Bit Of Previous” gli dava un seguito soltanto nel 2022 stupendo di nuovo, stavolta con robuste iniezioni di synth-pop, e di nuovo lasciando perplessi. “Late Developers” arriva nei negozi appena otto mesi dopo. Che ne sembri il fratello gemello pare ovvio, inevitabile una volta appreso che le sue undici canzoni provengono dalle stesse sedute. Lavoro ancora più slegato, che si rifà indifferentemente a Donovan come ai Pet Shop Boys, ai Thin Lizzy o ai Miracles. Si giunge alla penultima traccia prima di riconoscere i Belle And Sebastian tanto amati. Il trucco c’è: è un pezzo scritto nel 1994.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.450, febbraio 2023.
La storia di una musica che egualmente respingeva e seduceva, vaporosa, granitica e magmatica, il cuore di panna di melodie ineffabilmente insidiose che batteva con metronomia post-kraut e proto-baggy sotto strati di chitarre che sventagliavano feedback piuttosto che riff. Raccontata attraverso dieci album. Qui.
È in edicola da alcuni giorni “Audio Review” di marzo. Contiene mie recensioni dei più recenti album di 404 Guild, Arcs, C.I.A., Laura Cox, Death And Vanilla, Robert Forster, Fucked Up, Gemma Ray, Italia 90, Shame, Andy Shauf, The Waeve, We Are Scientists e James Yorkston & Nina Persson e di una ristampa dei New Order. Nella rubrica del vinile la pagina intera è dedicata a Joni Mitchell.
Come in tanti altri grandi del blues, in Lightnin’ Hopkins – nato Sam Hopkins il 15 marzo 1912, morto il 30 gennaio ’82 – convivevano l’istintiva furbizia di chi, cresciuto in miseria, ha fatto un’arte del sapersi arrangiare e un’ingenuità disarmante. Pensate che per tutta la vita fu solito cedere per contanti le canzoni che scriveva, riuscendo così a campare sempre in maniera dignitosa ma perdendo una fortuna in diritti d’autore (i tanti brani, ad esempio, che sui suoi dischi sono firmati Bill Quinn sono in realtà autografi). Da cui, e non solo frutto di una straripante urgenza creativa, la consistenza abnorme della sua discografia: decine di LP e centinaia fra 45 e 78 giri usciti per un numero non meno esorbitante di etichette.
Il modo migliore e più economico per accostarsi all’opera di questo gigante delle dodici battute è mettersi in casa “Mojo Hand”, doppio CD Rhino in box corredato da un corposo libretto. È probabilmente la migliore raccolta possibile del Nostro in sole quaranta canzoni e l’unica che copra la sua vicenda artistica per intero e, grosso modo, in ordine cronologico, dalle prime registrazioni per la Alladin del novembre ’46 all’album per la Sonet del 1974. Arrivato a incidere già trentaquattrenne e con uno stile perfettamente formato nel quale si era consumata la transizione dal blues rurale insegnatogli da Blind Lemon Jefferson a una forma più urbana, nella sua trentennale carriera Hopkins non si discostò mai più di tanto (un peccato, ché gli accenti jazz di brani come I’ll Be Gone e Shaggy Dad fanno intravvedere esaltanti possibilità che rimasero inesplorate) dal nucleo primigenio della sua musica. Play With Your Poodle, incisa nel 1947 in trio con il pianista Thunder Smith e un batterista sconosciuto, esemplifica codesto stile come nessun altro dei più di mille titoli registrati: blues elettrico caratterizzato dal timbro acre della chitarra e da peculiari accenti boogie che lo fanno rock’n’roll molti anni prima che il termine entrasse in uso.
Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.21, primavera 2006.
“In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di bella promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro.” (Alberto Arbasino)