In “Exodus”, che esce nel giugno 1977 ed è considerato l’apice della parabola artistica marleyana da quasi tutti quelli che non ritengono che quell’apice sia “Natty Dread”, il tema dell’esilio è presente sin dal titolo, argomento che fa capolino qui e là ed è centrale a una traccia omonima che chiude la prima facciata con toni spiazzantemente esultanti in luogo che dolenti, funkeggiando a rotta di collo e sarà il primo brano del Nostro a venire massicciamente programmato dalle radio nere americane. Il lato A opta per l’impegno, dipanandosi prima della giubilante chiusura di cui sopra fra il lento skankeggiare di Natural Mystic e la melodia lieve ma ficcante di So Much Things To Say, la collisione di chitarre riverberate e fiati schizzati di Guiltiness e l’ondeggiante ipnosi di The Heathen, appesa al muro e al cielo da un assolo da manuale del nuovo chitarrista Junior Marvin: un piccolo Hendrix. Cambi facciata e il combattente, il polemista cede il passo al seduttore. Che si scatena nel ballo durante la festa di Jamming, si fa suadentissimo con Waiting In Vain e presumibilmente cattura la preda con la ballatona da Marvin Gaye datosi al country-blues Turn Your Lights Down Low. Per poi festeggiare tenerissimo (sono già arrivati i bambini?) con la filastrocca favolistica di Three Little Birds e fare universale quel sentimento privatissimo che è l’amore con una impossibilmente gioiosa One Love, che dopo dodici anni di ininterrotta permanenza in repertorio riconosce infine e ufficialmente il debito nei confronti della People Get Ready di Curtis Mayfield.
All’epoca, di “Kaya” (pubblicato nel marzo 1978 e numero 4 in Gran Bretagna migliorando di quattro posizioni il piazzamento del predecessore) si parlò come di un lavoro deludente e compromissorio, ricercatamente commerciale, una sensibile involuzione rispetto a “Exodus”. Capita ancora di leggerne in questi termini e ogni volta rido agro. Ma di quale involuzione si ciancia quando il disco è figlio di quelle stesse sedute (la scelta più logica sarebbe stata approntare un doppio) che avevano fruttato l’album prima? Giustamente acclamato come un capolavoro, ove altrettanto routinariamente “Kaya” viene detto un mezzo passo falso irredento dalla presenza del micidiale funky reggae party di Is This Love. È tempo di rivalutarlo e tanto. In particolare per una prima facciata ideale estensione, tolta la drammatica parentesi di Sun Is Shining, della seconda di “Exodus”, solo che qui prima di celebrare l’amore per la donna si celebra ─ Easy Skanking, la traccia omonima ─ quello per la ganja. Varrà la pena ricordarlo: per i rasta non una droga ma un sacramento. E del secondo lato vorrei citare almeno una gigiona e aromatizzata errebì Running Away e una Time Will Tell in cui torna il gusto dello spiritual. È ora di farla finita di scrivere scempiaggini su “Kaya” e visto che ci siamo pure sul doppio dal vivo (dicembre sempre ’78) “Babylon By Bus”: elefantiaco e troppo patinato e troppo rock, troppo questo e quello e blah blah blah. Ove per ogni chitarra in assolo sopra le righe c’è uno slargo dub (si ascolti la seconda metà di Exodus), per ogni successo un arrangiamento inedito e non di soli successi è fatto il cartellone.
Il seppure obbligato soggiorno londinese sarebbe in fondo felice per Marley, che lontano dalle tensioni giamaicane può rilassarsi, scrivere alcune delle sue canzoni più memorabili, dedicarsi più che mai al calcio nel tempo libero e in quello che avanza ancora alla più importante delle tante tresche extraconiugali, un torrido affaire con Cindy Breakspeare, Miss Mondo 1976 e non aggiungo altro. Sarebbe felice, non fosse per il dettaglio di una ferita a un piede che il Nostro si è procurato proprio giocando a pallone e non vuole saperne di guarire. Il 7/7/1977, data infausta che nella cosmologia rastafari è fortemente indiziata come quella del principio della fine del mondo, si fa visitare a Londra e il verdetto è preoccupante. C’è il serio rischio che si sviluppi un tumore e per scongiurarlo i medici consigliano l’amputazione dell’alluce. Marley è riluttante, anche per via dei precetti religiosi che osserva, a sottoporsi all’operazione. Non senza un secondo consulto. Il chirurgo che lo esamina a Miami sentenzia che basterà un trapianto di cute. Il suo destino è segnato.
Sono due ultimi LP le pietre miliari sulla strada che lo condurrà alla morte l’11 maggio dell’81. “Survival” (ottobre 1979) è il disco in cui si recupera l’impegno politico, in una chiave di panafricanismo spinto esplicitata sin da una copertina in cui sono riprodotte le bandiere degli stati del Continente Nero, tutti eccettuati quelli sotto il tallone di regimi coloniali o razzisti. Vi sfilano principalmente canzoni di lotta, da un’esuberante Zimbabwe a una corale Africa Unite, da una marziale Babylon System a una perentoria Wake Up And Live, ed è una parentesi la giocosamente autoreferenziale (un’ode al reggae stesso) One Drop. Se “Uprising” (giugno 1980) è un altro mezzo capolavoro, e non il congedo dimesso che rischiò di essere, lo dobbiamo a Chris Blackwell e pure di questo non potremo mai ringraziarlo abbastanza. Quando ne ascolta i nastri il capoccia della Island apprezza la malinconica ma pure scherzosa Pimper’s Paradise e la zuccherosamente innodica Forever Loving Jah, e ovviamente la disco in levare di Could You Be Loved che ha sopra tatuata in caratteri cubitali la parola “hit”, ma osserva che all’album manca qualcosa. Marley non replica, sorride e basta. Il giorno dopo torna in studio con Coming In From The Cold e Redemption Song. Ma sono anche tre concerti a farsi tappe verso l’ineluttabile.
Il 22 aprile 1978 i Wailers sono a Kingston, di nuovo, per “One Love Peace”, festival stavolta bi-partisan che auspica che nel dibattito politico nell’isola si torni a usare la forza del ragionamento e si metta da parte quella delle armi. Il colpo di scena si ha sulle note di Jamming, quando un Marley come in trance convoca sul palco gli acerrimi rivali Edward Seaga e Michael Manley e fa sì che si stringano la mano, prodigio fino a quel giorno pronosticato come appena più probabile della pace fra israeliani e palestinesi. Il 18 aprile 1980 è un’esibizione di Bob Marley & The Wailers a celebrare di fronte a una folla oceanica, nella capitale Harare, la caduta del regime razzista rhodesiano e con essa la nascita dello Zimbabwe. Il sipario cala nella già più volte menzionata Pittsburgh il successivo 23 settembre. Due giorni prima Marley ha avuto un malore a New York, mentre faceva jogging in Central Park. Il giorno prima gli hanno detto che ha un tumore al cervello e gli restano tre settimane di vita. Resisterà invece otto mesi, benché metastasi gli vengano poi trovate pure nel fegato e nei polmoni.
L’ultima foto lo coglie in una clinica bavarese il 31 marzo 1981 e, a vederlo magro come un internato in un lager e spaurito come un bambino, ti sale un groppo in gola. Ma poi ne scruti meglio lo sguardo e lo scopri così sereno che ti pare impossibile che quest’uomo sia morto. Non può morire uno come Bob Marley e difatti ventisei anni dopo è ancora fra noi: Jah live.
Tratto da Le canzoni di libertà e redenzione di Bob Marley. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.25, primavera 2007. Ristampato in Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune.