Ty Segall – Three Bells (Drag City)

Batte la fiacca, Ty Segall. L’uomo che nel 2018 pubblicò sei album ─ primo il monumentale “Freedom’s Goblin”, capolavoro personale che lo ha consegnato alla storia del rock ─ nel 2023 ha lasciato a bocca asciutta i cultori. O quasi visto che, se in proprio ha latitato, a nome C.I.A. ci ha inflitto la macelleria sonica di “Surgery Channel”: collaborazione con l’amatissima moglie Denée e scorgendo la firma di costei sotto cinque dei quindici brani (sessantacinque minuti: il blocco dello scrittore è un’altra cosa) di “Three Bells” qualche timore viene. Non bastasse, la penultima traccia si chiama Denée e chissà che film si saranno fatti i maligni che sostengono che costei stia a Ty come Yoko Ono a John Lennon. Errando.

Se fino a un certo punto di una fino a un certo punto prolificissima carriera iniziata quando aveva ventun anni (ne compirà a giugno trentasette) Segall si era caratterizzato come alfiere di un lo-fi che centrifugava ogni cosa Sixties o dei primi ’70 possa venirvi in mente, mischiando e accatastando materiali spesso pure compositivamente grezzi, dopo lo zibaldone definitivo di “Freedom’s Goblin” aveva fatto ulteriormente ordine concentrandosi in ogni album su uno stile. E allora nel 2019 “First Taste” era la sua opera più psichedelica, nel 2021 “Harmonizer” ammanniva hard sabbathiano infiltrato di synth e nel 2022 “Hello, Hi” era folk più che folk-rock. Con ulteriore capriola, e ribadendo che a furia di sovraincidersi il Nostro ha imparato a confezionare dischi che suonano anche bene, “Three Bells” senza abbandonare il folk ne fa giusto uno degli elementi di un sound di nuovo enciclopedico. Al punto che in qualche frangente si può azzardare un’etichetta che mai si sarebbe pensato di accostare all’artefice: progressive.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.462, marzo 2024.

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Talkin’ All That Jazzmatazz (un omaggio a Guru)

“Quando ideai il progetto avevo già notato da tempo come un sacco di dj andassero alla ricerca sia di frasi melodiche che di break ritmici da riprendere in vecchi dischi jazz. Magnifico, veramente cool, e però io intendevo portare a un livello superiore il connubio fra i due generi musicali. Convocai allora alcuni di quegli stessi strumentisti per farli suonare di persona in un contesto hip hop. Invitai anche dei rapper e delle cantanti soul. Voleva essere solo un esperimento, ma in studio mi resi presto conto che ciò che stava venendo fuori sarebbe passato alla storia”: così l’artista nato Keith Edward Elam il 17 luglio 1961 raccontava la genesi di “Jazzmatazz Volume 1”, edito su Chrysalis il 18 maggio 1993 e si noti come il titolo annunciasse, e così sarà, che quella che il sottotitolo dichiarava essere “an experimental fusion of hip-hop and jazz” era solamente all’inizio. Un seguito arriverà nel ’95, un terzo capitolo vedrà la luce nel 2000, un quarto nel 2007, coinvolgeranno altri nomi altisonanti e pur senza eguagliarne né le vette né naturalmente l’impatto saranno tutto sommato all’altezza del prodigioso capostipite. Era il 2009 quando Guru rilasciava l’intervista da cui viene la citazione. Se ne andava il 19 aprile dell’anno dopo e tanto più addolorava la prematura dipartita perché accompagnata da una lettera testamentaria (apocrifa? la famiglia la ritiene tale) in cui lo scomparso attaccava con una vis polemica da togliere il fiato colui che per quasi due decenni era stato il suo sodale nei Gang Starr, Christopher Edward Martin, leggenda per fortuna ancora vivente con l’alias DJ Premier. Che non replicava. Dettagliare ulteriormente non è il caso e non solo perché, dato il contesto, risulterebbe inappropriato. Laddove con più ampi spazi sarebbe stato viceversa bello e utile illustrare adeguatamente come i 44’06” di un disco epocale rappresentassero sia un approdo che un punto di partenza. Esaltato dalla critica, l’album faceva numeri più che discreti ma lontani da quelli che a cavallo fra quello stesso anno e il successivo totalizzeranno i britannici US3 citando estesamente Herbie Hancock in Cantaloop, brano di apertura di “Hand On The Torch”. Su Blue Note, ossia per l’etichetta che “Jazzmatazz” omaggia sin dalla copertina. Tocca far di necessità virtù riducendo all’essenzialissimo il riassunto delle puntate precedenti di un incontro con i crismi dell’inevitabilità i cui prodromi più lontani possono essere fatti risalire addirittura ai tardi anni ’40: a Joseph Deighton Gibson Jr., conduttore radiofonico afroamericano di vasta popolarità noto come ─ udite udite ─ Jack the Rapper. O se no agli anni ’70 era aurea di Gil Scott-Heron: inarrivabile poeta che porgeva le sue rime su spartiti cui il jazz concorreva almeno nella stessa misura di soul e funk. O, come minimo, al 1989.

Nel debutto dei Gang Starr “No More Mr. Nice Guy” la seconda traccia è intitolata Jazz Music. L’ottava è un remix di Words I Manifest, pezzo già uscito in precedenza su un 12” e basato su Night In Tunisia di Dizzy Gillespie. Lì Guru e DJ Premier passano dalle parole ─ l’anno prima Talkin’ All That Jazz, brano incluso nel secondo album degli Stetsasonic “In Full Gear”, ha esplicitato una tendenza evidentemente in atto ─ ai fatti. Saranno in molti a seguirli ma non subito, anche perché il disco vende modestamente. Capita però che fra gli acquirenti ci sia Spike Lee, che gradisce al punto da ingaggiarli per la colonna sonora di Mo’ Better Blues. Jazz Thing, una collaborazione con Branford Marsalis, è il brano che la illumina e segnerà una svolta decisiva nella carriera di Guru e Premier, da qui in poi un mito che miracolosamente non deluderà mai, confezionando un capolavoro via l’altro, a partire dal ’91 e da “Step In The Arena”, quasi un secondo esordio. Anno cruciale quello: i canadesi Dream Warriors segnano una clamorosa doppietta con My Definition Of A Boombastic Jazz Style e Wash Your Face In My Sink, in cui riprendono rispettivamente Quincy Jones (Soul Bossa Nova) e Count Basie. Tristemente al passo di addio, Miles Davis nel a dire il vero non granché riuscito “Doo-Bop” affida la produzione a Easy Mo Bee. Ron Carter si fa complice del favoloso “The Low End Theory” degli A Tribe Called Quest ed è ulteriore eloquente certificazione di come, mentre il pubblico del jazz schifa la nuova black, i musicisti ne siano al contrario intrigati. Nel ’92 i veterani Eric B & Rakim ricorrono ai servigi di un contrabbassista non accreditato nel colossale “Don’t Sweat The Technique”, con il quale sfiorano i Top 20 USA. Nel ’93 gli invece debuttanti Digable Planets vanno al numero 15 con “Reachin’ (A New Refutation Of Time And Space)”, in cui campionano Don Cherry, Sonny Rollins, Art Blakey, Herbie Mann, Herbie Hancock, Grant Green e Rahsaan Roland Kirk. Quanto ai De La Soul, in “Bulhoone Mindstate” riciclano Eddie Harrison, Lou Donaldson, Duke Pearson e Milt Jackson e ospitano Maceo Parker.

Insomma: dichiarando “Jazzmatazz” un esperimento Guru un pochino barava, ma giusto un po’. Ormai maturi i tempi, fu grazie a quest’album che una pur minoritaria parte della platea di cui sopra se non si convertiva tout court all’hip hop quantomeno maturava per esso del rispetto. Prima fidandosi di un parterre de rois comprendente il trombettista Donald Byrd, i sassofonisti Courtney Pine e Gary Barnacle, il vibrafonista Roy Ayers, il pianista Lonnie Liston Smith, i chitarristi Ronny Jordan e Zachary Breaux (oltre alle cantanti Carleen Anderson, N’Dea Davenport e DC Lee). Poi arrendendosi a dieci tracce dallo swing e soprattutto dal groove irresistibili e tracimanti classe da ogni solco. A propositi di solchi: non più disponibile il meraviglioso box Capitol/Universal del 2018 che al programma originale aggiungeva un LP di strumentali e uno di bonus, chi non provvisto volesse avere “Jazzmatazz Volume 1” sul più nobile dei supporti può da qualche mese rivolgersi a un’ottima stampa dell’olandese Music On Vinyl. Chi scrive raramente ha riscontrato una differenza così marcata fra un’edizione in CD e una in vinile di un disco. Il secondo offre una scena sensibilmente più aperta, con molta più aria fra strumenti e voci.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.448, dicembre 2022. Ricorre oggi il quattordicesimo anniversario della prematura scomparsa di Guru.

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Una breve trattazione della produzione anni ’90 di Nick Cave

Si sa: la notte è più buia subito prima dell’alba. Da “The Good Son” emana un lucore che avvince e commuove. Il faulkneriano And The Ass Saw The Angel è stato finalmente pubblicato e accolto da ovazioni. In Brasile con i Bad Seeds per tre date trionfali, Cave ha conosciuto la stilista Viviane Carneiro e si è innamorato. E non solo di lei ma anche della tentacolare e cosmopolita Sao Paulo, in cui si trasferisce. L’album vede la luce il 17 aprile 1990, ventitré giorni prima del primogenito di Nick e Viviane, Luke, e che sia stato registrato in Brasile si sente. Non soltanto perché gli fa da incipit un adattamento dell’inno protestante locale Foi na cruz, che squisitamente riassume il costante intrecciarsi in esso di gioia e malinconia, ma per un gusto per la melodia assolutamente inedito. Il rock è racchiuso nella deliziosa chitarra surfeggiante di The Hammer Song e nella frenesia di una The Witness Song inondata pure di gospel. Il resto sono pianoforti romantici e profluvi di archi, pop che aspira alla perfezione e la raggiunge in una The Ship Song dopo la quale l’autore avrebbe potuto ritirarsi: è la canzone immortale che crede di non avere ancora scritto.

So di andare controcorrente, ché “The Good Son” già all’uscita fu disco che non metteva d’accordo e in ogni caso raramente viene citato fra i migliori di Cave: a me pare sia ─ per densità emotiva, sapienza degli arrangiamenti, qualità delle singole tracce e articolazione d’assieme ─ la sua raccolta autografa nettamente più memorabile.

Narrativamente gli anni ’90 di Nick Cave offrono materiale infinitamente meno interessante degli ’80, essendo la vita domestica faccenda non eccitante da raccontare quanto la vita spericolata. È un Cave sempre più rispettabile e rispettato che li traversa raccogliendo riconoscimenti da ogni dove, chiudendo con rimpianti e dolcezza la relazione con Viviane e avviandone una fugace con Polly Jean Harvey, lasciandosi alle spalle il Brasile e cominciando a chiamare “casa” Londra. Incontra un nuovo grande e possibilmente definitivo amore nella modella Susie Bick, che gli darà due gemelli, e infine si riconcilia con la memoria del padre, colui che l’ha iniziato alla letteratura, morto giovane in un incidente automobilistico (poco più che adolescente, il figlio apprese la notizia in una stazione di polizia in cui era in stato di fermo). Musicalmente, regalano al contrario dischi ancora capaci di generare controversie. Magari non “Henry’s Dream”, del ’92, che riprende le atmosfere di “The Good Son” scurendole appena e vanta canzoni superbe ─ una Papa Won’t Leave You, Henry dal ritornello saporoso di Irlanda, la lugubre Loom Of The Land (i Walkabouts ne offriranno una versione stellare in “Satisfied Mind”) e la tesa e minacciosa Jack The Ripper ─ ma è danneggiato dalla produzione inusualmente piatta di David Briggs (Neil Young; alcuni brani faranno ben migliore figura nel bellissimo “Live Seeds”). Magari non “Let Love In”, del ’94, che un tantino in effetti si adagia in una routine di classe ma è divertente nella vorticosa Jangling Jack e nella garagista Thirsty Dog e, alle prese con il delicato tema della pedofilia, appiccica al muro e fa il cuore a brandelli con Do You Love Me?. Di sicuro “Murder Ballads”, del ’96, album a tema che finirà per essere di gran lunga l’articolo più venduto del catalogo (oltre un milione di copie), grazie a un duetto con PJ Harvey e soprattutto a uno con Kylie Minogue, nell’incantata e crudele Where The Wild Roses Grow. È un disco che non ho mai amato particolarmente, pur apprezzandone l’umorismo che non molti hanno colto, una Henry Lee che evoca congiuntamente Leonard Cohen e Jennifer Warnes, l’orroroso vaudeville di The Curse Of Millhaven, la tenerezza blues di The Kindness Of Strangers e, più che altro, la liturgica Death Is Not The End, in cui al nostro uomo riesce di nuovo il trucco di migliorare Bob Dylan, sebbene un Dylan di seconda o terza categoria. Fatto è però che in “Murder Ballads” fatico a individuare la consueta messa a nudo dell’anima e quello che scorgo è un bravo attore. In tanti lo hanno detto capolavoro, ma mi permetto di dissentire.

Se un capolavoro va individuato nella produzione dei ’90 è piuttosto “The Boatman’s Call”, che usciva nel 1997 e raccontava la fine di un amore e anzi due con una sincerità bruciante fino all’imbarazzo e toccante. Raccolta di ballate prevalentemente pianistiche, è il più scarno e intimo fra gli album di Nick Cave e davvero dopo brani di intensità indicibile come Into My Arms e People Ain’t No Good ci si può chiedere, con il titolo di un’altra canzone che tuffandosi in una tempesta di sentimenti non vi pesca che dolore: Where Do We Go Now But Nowhere?.

Tratto da Nick Cave – Nel ventre della bestia. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.9, primavera 2003. Ristampato in Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. “The Good Son” arrivava nei negozi trentaquattro anni fa a oggi.

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Audio Review n.463

È uscito il numero di aprile di “Audio Review”. Ci sto dentro con le recensioni di sette album nuovi e una riedizione e occupando una pagina e un terzo delle due complessive dedicate alle ristampe esclusivamente su vinile.

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Da giovani rampanti a rockstar – L’unico live degli U2 ha quarant’anni

Fa strano annotarlo per un gruppo sulle scene da così tanto: l’unico live degli U2 è questo e si deve insomma ricordare al lettore che è sobbalzato andando con la memoria a “Rattle And Hum” che quel doppio dove Bono e soci in più frangenti risultavano macchiettistici, già a Las Vegas tre decenni e mezzo prima di andare colà a spiaggiarsi, è inciso per meno di metà dal vivo. L’unico live per un gruppo che pubblicava il primo 45 giri nel settembre 1979 e il primo LP un anno e un mese dopo è datato 1983 e con i suoi otto brani per complessivi trentacinque minuti ─ due dagli acerbi singoli pre-Island, altrettanti dallo scintillante debutto “Boy”, uno dall’ambizioso con esiti altalenanti “October” e tre da “War”, che era l’album che i Dublinesi stavano portando in tour e li stava rendendo enormi ─ è oltretutto un mini. Registrato perlopiù (la seconda facciata per intero) in una serata tedesca, due sole le canzoni tratte dallo spettacolo al Red Rocks Amphitheatre di Morrison, Colorado, che vedrà la luce l’anno dopo in VHS e, epico pure per cornice ambientale, darà un ben più consistente apporto alla trasformazione dei suoi protagonisti da giovani rampanti a rockstar di prima e mitologica grandezza.

Per celebrare il quarantennale di “Under A Blood Red Sky” il disco, che cadeva lo scorso 21 novembre, la Universal avrebbe potuto esagerare come si usa oggidì e per una volta non sarebbe stato un troppo che stroppia. Poteva trasformarlo in un doppio aggiungendo i tredici pezzi (pazienza se così due sarebbero stati doppioni) della VHS, o addirittura allestire un triplo recuperando l’integrale in DVD (diciassette le tracce) del 2008, replicando il tal modo la Deluxe digitale mandata nei negozi quell’anno. Si è limitata ad aggiungere un poster (laddove la ristampa ancora facilmente rintracciabile del venticinquennale più generosamente offriva un inserto di sedici pagine), a rendere apribile una copertina in origine chiusa, a sfoggiare un vinile coreograficamente (ovviamente) di un rosso sgargiante. Chi bada al sodo noterà in compenso un remastering che esalta la sezione ritmica. È allora un’occasione mancata ma anche e nettamente l’edizione meglio suonante di sempre. La più… live.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.461, febbraio 2024.

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Confessin’ The Jazz – Joni Mitchell dopo “Blue”

Una delle più grandi storie di successo negli annali dello showbiz comincia un imprecisato giorno del 1971, quando un allora ventottenne David Geffen tenta invano di convincere Ahmet Ertegun a mettere sotto contratto per la Atlantic il ventiduenne Jackson Browne. “Sfonderà, ci farai un sacco di soldi”, si accalora, e resta spiazzato quando Ertegun gli replica ineffabile di essere ricco a sufficienza. Leggendaria figura di discografico dal fiuto formidabile con la propensione però a far prevalere l’amore per la musica su qualunque considerazione di ordine commerciale, non è che quanto ha ascoltato non gli sia piaciuto. Solo che ritiene che un così limpido talento potrebbe essere promosso meglio da un’etichetta dedita specificamente a quel tipo di materiali. Di Geffen, che nonostante la verde età vanta un cv impressionante, manager di Laura Nyro e CS&N fra il resto, ha molta stima. “Perché non ce li fai tu un sacco di soldi? Fonda un’etichetta.” Il giovanotto non ci penserà su più di tanto. La Asylum (nome programmatico per chi per i suoi artisti intendeva creare una casa che fosse innanzitutto accogliente) entro fine anno avrà già pubblicato un paio di LP e che si badasse alla qualità più che al fatturato è testimonianza inequivocabile che a firmarli erano David Blue e Judee Sill. Jackson Browne dovrà aspettare il gennaio dell’anno dopo, alla lunga ripagherà ampissimamente la fiducia ma prima di lui saranno gli Eagles (messisi insieme su istigazione proprio di Geffen) a fare scampanellare a festa i registratori di cassa. Loro e Joni Mitchell. Il nostro uomo ha sempre dichiarato che fondò sì la Asylum per Browne e però soprattutto con l’intenzione di eleggerne a vessillifere la Nyro e (scippandola alla Reprise) Joni Mitchell. Sfortunatamente (la dice la delusione più cocente della sua vita) la prima si defilerà. La seconda no.

Nel momento in cui stringe con il di poco più anziano (nove mesi) David un sodalizio che sarà ventennale la stella della Mitchell brilla da un paio di anni altissima nel firmamento del cantautorato nordamericano e diffondendo una luce tutta sua, inconfondibile. Dopo il mezzo inciampo di un esordio, “Song To A Seagull” (marzo 1968), apparentemente acerbo quando in realtà Joni già aveva scritto una manciata di classici distribuendoli a Judy Collins come a Dave Van Ronk, a Tom Rush e ai Fairport Convention e per di più involontariamente danneggiato dalla produzione dell’amico e mentore David Crosby, ha aggiustato il tiro pur rimanendo in un ambito di folk austero (in scaletta persino un pezzo a cappella) con il nettamente più solido “Clouds” (maggio 1969) e con “Ladies Of The Canyon” (aprile 1970) ha svoltato pop pur continuando ad affidarsi a una strumentazione acustica, perlopiù accompagnandosi da sola, alla chitarra o al piano. Primo suo capolavoro e pietra d’angolo del canone che sarà detto “confessionale”, il disco si congeda infilando una via l’altra Big Yellow Taxi, una hit a 45 giri, l’inno generazionale Woodstock e The Circle Game, che nell’intero catalogo dell’artista (canadese di nascita, californiana di adozione) resterà l’articolo di più deliziosa, epidermica cantabilità. Sistemata altissima l’asticella, con “Blue” (giugno 1971) l’ha scavalcata in prodigiosa scioltezza non solo senza nulla concedere in orecchiabilità ma anzi vergando spartiti più sfuggenti a supporto di testi come non mai a cuore aperto, sanguinante spesso. Critica in visibilio ─ e ci sta, e ci mancherebbe ─, ciò che stupisce in questa storia raccontandola oggi è che “Blue” raddoppiava gli incassi del ben più accessibile predecessore, andando al numero 15 negli Stati Uniti, al 3 in Gran Bretagna. Erano davvero altri tempi. O anche no: la ristampa, rimasterizzata ma senza bonus, che nel 2021 ne celebrava il cinquantennale nella settimana dell’uscita risulterà il CD più venduto su Amazon e l’album più scaricato su iTunes.

Vuoi perché si tratta di un’edizione limitata, vuoi perché non è esattamente economico (aspettatevi di pagarlo fra i 170 e i 180 euro, ossia fra i 34 e i 36 euro a disco), non si è prodotto in un’analoga benché analogica performance il cofanetto “The Asylum Albums (1972-1975)”, edito qualche mese fa dalla Rhino e contenente (sicché c’è da aspettarsi un secondo volume dedicato al quadriennio ’76-’79) esattamente metà di quanto Joni Mitchell pubblicò per l’etichetta, vale a dire tre lavori in studio e un doppio live. Se li si potesse acquistare separatamente quest’ultimo sarebbe soltanto per i cultori di più stretta osservanza desiderosi di sostituirlo o affiancarlo all’usurata copia d’epoca. Illo tempore un campione al botteghino (nella classifica di “Billboard” saliva fino al secondo posto), “Miles Of Aisles” (novembre 1974; registrato fra il marzo e l’agosto precedenti) è invecchiato così così, appesantito dagli scambi con l’adorante platea e con i pur fenomenali musicisti che vi affiancano la titolare che si limitano all’elegante compitino, laddove ben superiore pathos evidenziano i brani in cui costei ne fa a meno. Non mostrano al contrario manco una ruga “For The Roses” (novembre 1972), “Court And Spark” (gennaio 1974) e “The Hissing Of Summer Lawns” (novembre 1975). Impossibile una replica di “Blue”, in luogo di imboccare la via più facile per consolidare la propria fama tornando alla vivacità e relativa linearità melodica di “Ladies Of The Canyon”, o in alternativa fare qualche passo verso il rock (la coda di Blonde In The Bleachers mero divertissement), la Mitchell nel debutto per Geffen prendeva piuttosto a flirtare con il jazz. Moderatamente e concedendo graziosamente all’etichetta il singolo che le era stato chiesto con una spumeggiante You Turn Me On, I’m A Radio, l’ex-fidanzato Graham Nash a soffiare alla Dylan in un’armonica. La svolta si perfezionerà con il disco dopo e come per “Blue” lascia stupefatti che anche “Court And Spark”, opera assolutamente incompromissoria al netto di una spumeggiante Help Me, di una Car On The Hill che è quasi una seconda Woodstock e del rock’n’roll simil-Springsteen Raised On A Robbery, vendette assai: un numero 2 USA, addirittura. Doppio platino, certifica la Recording Industry Association Of America. Sofisticatissimo e parimenti ma diversamente stupendo “The Hissing Of Summer Lawns” sarà “solo” oro e un numero 4: comunque da non crederci, riascoltandolo.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.451, marzo 2023.

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Sommersi da salvare – Il peculiare heavy rock dei primi King’s X

Metti che il tuo esordio non vada via come il pane (piazzamento migliore nella classifica di “Billboard” un numero 144: poca cosa pure in un’era in cui i dischi si vendevano eccome, altro che streaming) e che però venga eletto “album dell’anno” da “Kerrang!”, testata di riferimento per ogni metallaro del globo terracqueo. Metti che il seguito si comporti un po’ meglio commercialmente (negli USA un numero 123, cinquantaduesimo nel Regno Unito) senza per questo farti perdere i favori della critica (quarta migliore uscita per il giornale sunnominato e nelle playlist di innumerevoli altre riviste, inclusa una non strettamente di settore come “Sounds”). Metti che il disco dopo ancora allarghi la tua platea al punto di persuadere la major che fino ad allora si era limitata a distribuirti a ingaggiarti direttamente. E metti che giusto sul finire dell’anno di pausa che ti sei concesso una certa concezione e tradizione del rock “pesante” cui, pur vantando un sound di rimarchevole peculiarità, indubbiamente appartieni vengano spazzate via da una rivoluzione chiamata grunge, nel mentre pure il crossover sale sugli scudi e impazza. Nel mondo nuovo disegnato a cavallo fra il ’91 e il ’92 da “Nevermind”, “Ten”, “Badmotorfinger”, “Blood Sugar Sex Magik” (ma pure dal Doppio Nero dei Metallica) improvvisamente sei diventato obsoleto. Potresti in realtà ricavarti egualmente una tua nicchia, ma sei intellettualmente troppo onesto per corteggiare quel mercato particolarissimo, di cui molti ignorano persino l’esistenza ma che dà da vivere a tanti: quello del cosiddetto – gigantesca contraddizione in termini – christian rock. Ed ecco perché i King’s X non sono mai diventati “gli Stryper che vale la pena ascoltare”.

Lo ammetto: benché sia stato un loro cultore della prim’ora ignoravo che i King’s X fossero… siano ancora insieme e oltretutto nella formazione – Ty Tabor alla chitarra, Doug Pinnick al basso e nella maggior parte dei pezzi voce solista, Jerry Gaskill alla batteria – schierata nei dischi di una breve era semi-aurea e già rodatissima allora, visto che i tre nascevano come The Edge a Springfield, Missouri, addirittura nel 1979 e diventavano Sneak Preview quando quattro anni più tardi si trasferivano in Texas (sono rimasti lì), ragione sociale con la quale nell’84 pubblicavano  un omonimo 33 giri mai ristampato e che le rare volte che fa capolino su Discogs strappa dai duecento euro in su. Un po’ colpa loro: pubblicato lo scorso 2 settembre il loro tredicesimo lavoro in studio ha visto la luce a qualcosa come quattordici anni dal dodicesimo. Un po’ di più colpa mia ma pure sempre loro, giacché il debutto su Atlantic del ’92, omonimo, dei loro primi quattro album è nettamente il meno convincente e già “Faith Hope Love”, del ’90, li aveva visti in flessione rispetto ai primi due LP. Smettevo di seguirli e chissà se mi sono perso qualcosa. In compenso, fatti girare a decenni dall’ultima volta “Out Of The Silent Planet” e “Gretchen Goes To Nebraska”, usciti in origine entrambi su Megaforce rispettivamente nel febbraio 1988 e nel maggio 1989, mi sono sembrati belli come allora, non invecchiati affatto perché fuori dal tempo, appartenenti a una dimensione unicamente loro. Assolutamente da recuperare per chi non li conosce, da rispolverare per chi li ha in casa. Il primo è stato ristampato una sola volta, dalla Metal Blade nel 2017 e in formato doppio 12”, benché non duri che 43’32”. Non faticherete tuttavia a recuperarne una copia d’epoca e non dovreste pagarla più di venticinque-trenta euro (ma anche soltanto dieci su una bancarella dell’usato). Soldi in ogni caso ben spesi. Concept alquanto sui generis di argomento fantascientifico (il titolo omaggia un romanzo di C.S. Lewis), sistema in apertura un capolavoro di raga in scia ai Popol Vuh etnici che trasmuta in hard del più epico chiamato In The New Age e da lì a una Visions che suggella adombrando un thrash di impronta Voivod non smette mai di stupire: ad esempio innestando un riff degno degli AC/DC in una With A Hammer che, non contenta di mediare fra psichedelia e progressive, cala sul tavolo pure l’asso di una coralità gospel; con What Is This?, che indifferentemente farebbe un figurone nel catalogo dei Cream come in quello dei Guns N’Roses; con Shot Of Love, che sono dei Black Sabbath ossessionati dai Beatles. Sono cinque brani su dieci, mezzo programma, e non fosse che lo spazio va assottigliandosi li avrei citati tutti. Concept dalle origini meno nobili (un racconto scritto da Gaskill) ma narrativamente più coeso, il seguito vedrà i nostri eroi incredibilmente superarsi, aprendo nuovamente con un raga (la continuità rispetto al predecessore rimarcata dal fatto che come quello si intitola: Out Of The Silent Planet) e piazzando nel prosieguo meraviglie come Over My Head (i Queen alle prese con Jimi Hendrix), Everybody Knows A Little Bit Of Something (funk-metal da Living Colour al top), The Difference (quasi una outtake dell’immortale David Crosby di “If I Could Only Remember My Name”), Mission (novella Tales Of Brave Ulysses), Pleiades (bluesata e jangly) e The Burning Down (cavalcata hardelica fra l’onirico e il marziale). “Gretchen Goes To Nebraska” è stato appena riedito, su quattro facciate invece di due per incrementare la dinamica dei suoi 51’58”, dalla Music For Vinyl, in tiratura limitata e al prezzo onesto per il folle mercato odierno di quaranta euro. Regolatevi.

Un argomento è rimasto in sospeso. Al tempo si sapeva i King’s X ferventi cristiani ma si apprezzava il loro vivere la fede senza darsi al proselitismo e anzi in maniera problematica: da cui, ad esempio, il duro attacco ai telepredicatori in Mission e l’omaggio a Galileo Galilei in Pleiades. Avendo sempre esternato il dubbio che fra quanti la proclamano stentoreamente (tipo gli Stryper, ecco) molti lo facciano con vili secondi fini, dalla scena christian rock venivano da subito guardati con sospetto. Ne subiranno la scomunica quando nel ’98 Pinnick farà coming out. Oggi costui si dice agnostico e Gaskill lo stesso. Solamente Tabor pare frequenti ancora la chiesa, ma conservando per i bigotti del sano disprezzo.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.454, giugno/luglio 2023.

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Hard rock 1968-1977 (una discografia di base)

Dopo appena un annetto di pausa riprende la serie delle guide all’ascolto per principianti assoluti. Questo mese riassumo l’epoca aurea dell’hard rock per tramite, al solito, di dieci album esemplari. Qui.

https://hvsr.net/post/2024/hard-rock-68-77-for-dummies

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Audio Review n.462

È disponibile da metà settimana “Audio Review” di marzo. Ho contribuito recensendo sei album nuovi e due ristampe. Per la rubrica del vinile ho scritto in lungo degli Who di “Quadrophenia” e più in breve dei Casino Royale di “Dainamaita”.

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Uno spreco immane, un talento enorme – La vita breve di Notorious B.I.G.

L’omone nato Christopher George Latore Wallace e meglio noto come The Notorious B.I.G. veniva dichiarato morto alle ore una e quindici del 9 marzo 1997. Avrebbe compiuto venticinque anni il successivo 21 maggio.

Ready To Die (Bad Boy, 1994)

Talmente diversi da essere simili: tutti e due nati a New York ma il primo rimasto lì e il secondo trapiantato in California; quello piccolo e smilzo, questo un omaccione di duecento chili; entrambi personaggi di enorme visibilità e successo e i loro successi più grandi li coglieranno dopo una morte violenta che li sorprenderà a sei mesi l’uno dall’altro, il secondo appena e il primo non ancora venticinquenne. Benché fiumi di inchiostro siano stati sparsi e le inchieste, anche televisive, non si contino non sapremo probabilmente mai se l’uno – Christopher Wallace, in arte The Notorious B.I.G. – fu davvero il mandante dell’omicidio dell’altro – Tupac Shakur – e cadde a sua volta vittima di una rappresaglia da parte degli amici di quello che – tragica ironia – era stato per lui un amico. Prima che la faida fra le due Coste facesse parlare le armi piuttosto che i microfoni, prima che la rappresentazione della malavita da parte di chi non aveva mai troncato i legami con le cattive compagnie tornasse a farsi malavita e basta. Resta la rabbia per uno spreco insensato di talento, assai più vistoso nel caso di Notorious B.I.G. L’unico artista ad avere mai avuto da defunto quattro numeri uno. Più del monumentale ma ineguale “Life After Death”, è il debutto “Ready To Die” a consegnarlo agli annali dell’hip hop come uno dei suoi narratori più profondi, dei dicitori più fini.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.26, estate 2007.

Life After Death (Bad Boy, 1997)

L’uno minuto e nervoso, l’altro enorme, un Pantagruele di colore, e iroso: li separava una fiera rivalità (al punto che si parlò, probabilmente a vanvera, del secondo come possibile mandante dell’omicidio del primo) e nulla avevano in comune, fino al 9 marzo di quest’anno, se non un grande talento. Condividono ora, Tupac Shakur e Christopher Wallace (questo il vero nome di Notorius B.I.G.), una morte violenta e prematura. Non più solamente sceneggiatura fra pulp e blaxploitation, il gangsta rap ha per la seconda volta in pochi mesi lasciato le pagine musicali per approdare a quelle di cronaca nera.

È terribilmente difficile scrivere di “Life After Death” e, comprenderete, non solo perché è un album “più grande della vita”, come fu colui che l’ha consegnato alle stampe: due CD, ventiquattro titoli in scaletta, centodieci minuti da metabolizzare. Ci si perde in questo profluvio di basi fra p-funk, hardcore e moderno rhythm’n’blues e di rime taglienti, a volte vanagloriose, non di rado amare. Si arriva alla fine con l’impressione che non valga l’esordio “Ready To Die”, uno dei migliori dischi hip hop del ‘94, ma che nondimeno molto vi sia in esso di buono, a partire dai singoli Hypnotize e Sky’s The Limit. Ma è impossibile ascoltarlo senza farsi sopraffare dall’emozione e si finisce dunque per dubitare del proprio stesso giudizio. Un mezzo passo falso o una nuova pietra miliare? Di certo un lavoro inquietante perché fin dal titolo trasmette la sensazione che Notorius B.I.G. sapesse cosa stava per accadere, e fosse rassegnato al suo destino.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.170, maggio 1997.

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